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NUMERO 280

IN BRUGES


Era la fine del mese di settembre del 1999, ma non indossavo t-shirt o pantaloncini corti. A dispetto delle temperature ancora estive che coccolavano l’Italia ed il basso mediterraneo, in Belgio era ormai autunno. Gli alberi avevano già cominciato a disfarsi dei loro abiti belli e profumati e stavano prendendo il colore rosso ed arancione del saluto, quello che assumono prima di riposare e crescere silenziosamente, mentre meno persone si interessano a loro.

Erano giorni quelli in cui vivevo spensierato quell’esperienza di scambio culturale in compagnia dei miei compagni di scuola, catapultati in una realtà diversa dalla nostra che ci aveva accolto così bene. Avere 16 anni ed essere italiano in Belgio ti regala un’aura di felicità e di autostima clamorosa, grazie alla passione ed alla predilezione che tutti hanno nei tuoi confronti, soprattutto se questa passione te la dimostrano donne decisamente più disinibite rispetto agli standard a cui noi tutti eravamo abituati.
Ovunque andassimo c’era una festa, e noi eravamo gli invitati speciali.
Ovunque andassimo incontravamo italiani immigrati durante gli anni difficili del dopo guerra che si commuovevano sentendo il nostro accento, che ci chiedevano di raccontare “Cosa si dice in Italia”, che ci toccavano le braccia ed i volti ossessivamente, quasi a voler avere tutte le prove di cui avevano bisogno che quello che avevano dinanzi non era frutto di una nostalgica immaginazione, ma qualcuno di concreto, di reale, di vivo.

Anche quel giorno in cui eravamo in visita a Bruges incontrammo un immigrato italiano, meglio, napoletano, all’interno del suo ristorante. Lo aveva ornato con ogni tipo di iconografia pagana che rivendicasse, con ostentato orgoglio, le sue origini. Reti da pesca, corni, peperoncino, immagini di Totò, di Troisi, della Loren, tamburelli, una maschera di pulcinella. Non trascorse più di un minuto tra il nostro ingresso e l’apparizione del padrone del locale, giunto quasi di corsa dinanzi a noi direttamente dalla cucina.

Gli occhi gli si illuminarono, si inumidirono. Ebbe un attimo di esitazione, che scomparve subito.
Cominciò ad abbracciarci ed a baciarci tutti, mentre ci sussurrava, con voce rotta dal pianto “Paisà!”.

Cinque volti di adolescenti accolsero le lacrime ed il dopobarba, la storia di un viaggio e la gioia di un incontro vissuta da un uomo che aveva dovuto abbandonare la sua città, i suoi amori e la sua infanzia per cercare la speranza di un futuro. Ci offrì un caffè, il più buono che abbia bevuto in terra belga. Ce lo preparò con la sua moka personale, con flemma, con ritualità. Quando ci salutò, ci chiese di spedirgli una cartolina da Napoli e ci disse che il caffè che avevamo bevuto ci sarebbe servito per la salita verso la cima della torre che dominava il Markt, la piazza principale di Bruges, un tempo sede del mercato, nella quale il suo ristorante si affacciava.

La torre di cui ci parlava, il Belfort, è in realtà un campanile che, dall’alto dei suoi 83 metri, domina la città. Ci proposero di salire fino in cima, per ammirare il panorama e per ascoltare il suono del carillon che, animato da 47 campane, rende l’atmosfera ancor più magica. Qualcuno rimase giù a fumare ed a mangiare gelati, Claudio e Marco continuarono la loro corte a delle ragazze fiamminghe incrociate qualche ora prima lungo uno dei canali della cittadina. Io decisi di salire. Con me un piccola rappresentanza del nostro gruppo italo belga, una coppia di anglofoni, una guida con dei turisti locali, un signore magrissimo con dei baffi ottocenteschi. Il nostro percorso era segnato da una scala a chiocciola composta da 366 scalini, così stretta che si proseguiva in fila indiana. Più si saliva, più il passaggio diveniva angusto, più l’aria cominciava ad essere frizzante. La guida raccontava in fiammingo una storia che non capivo, gli anglofoni affannavano scontando il peso di un’alimentazione ricca di grassi, Giorgio rideva rumorosamente chiedendosi quando saremmo arrivati, l’omino magro chiudeva la fila. Aveva uno sguardo partecipe, come se fosse avvezzo a quella situazione, come se conoscesse già la storia che ascoltava provenire qualche gradino più su. Ad un tratto la nostra ascesa si interruppe, e la guida ci mostrò un’enorme campana, la Campana Trionfale, con un diametro superiore ai 2 metri e che, avevamo letto, veniva fatta suonare solo in occasioni particolari. Fu una visione maestosa. Era incredibile vedere come quella campana così grande rimanesse ferma, nonostante il vento le sferzasse contro e come, allo stesso tempo, tutta la sua struttura vibrasse silenziosamente, in una sorta di dialogo intimo tra lei ed il dio dei venti.

Riprendemmo il nostro cammino e, dopo qualche minuto, finalmente fummo in cima. Il panorama toglieva il fiato: la città era ai nostri piedi e la vista a trecentosessanta gradi ci permetteva di riconoscere i luoghi visitati qualche ora prima: i canali, il parco dove ci eravamo fermati a pranzare, i nostri amici non più grandi di uno spillo colorato. Sotto i nostri piedi, tra le intelaiature della struttura e centinaia di tiranti, c’erano le campane di bronzo del carillon. Erano molto più piccole e meno maestose della campana che avevamo visto qualche gradino più in basso, ma il loro insieme, l’armonia con cui si sposavano con la struttura che le circondava, che le custodiva, tra le colonne e i grandi ingranaggi che le governavano, donava a quella piccola terrazza un equilibrio armonioso.

Ero perso in quella visione, quando la guida disse qualcosa che fece prima gemere di dispiacere i belgi presenti e, poi, li fece esplodere in un applauso entusiasta. Fu in quel momento che mi resi conto che il mingherlino baffuto aveva scavalcato uno dei muretti che cingevano l’area calpestabile, si era infilato tra delle colonne ed aveva cominciato ad armeggiare con le sue mani vicino a delle ruote degli ingranaggi che erano poste in uno dei bordi del complesso. Non riuscii subito a capire cosa stesse succedendo, e fui quasi spaventato nel vedere una figura umana in degli spazi che credevo inaccessibili custodi di tempi ancestrali. Chiedemmo cosa stesse succedendo, ed i ragazzi belgi ci spiegarono che c’era un problema con il carillon: qualcosa ne aveva bloccato gli ingranaggi impedendogli di suonare. Riuscivo a stento a vedere il blu del suo cappello e una gamba cinta attorno ad un appiglio, ma si potevano intuire i suoi movimenti, decisi ma sapienti, rispettosi ma precisi, compiuti con la volontà di individuare la causa di quella che sembrava essere più una malattia che un problema tecnico. Ad un tratto si sentii uno stridio molto forte, quasi animalesco, fendere l’aria. Seguirono lunghi momenti di apparente paralisi: nessuno voleva muovere un muscolo. Tutti eravamo in attesa di qualcosa. L’omino si mosse e cominciò a divincolarsi dalla struttura nella quale si era così perfettamente incastrato. Ripercorse al contrario le stesse mosse e lo stesso percorso che lo aveva accompagnato qualche minuto prima. Mentre si avvicinava notammo che aveva un braccio infilato nel cappotto, appoggiato al petto. Un’espressione sofferente gli faceva stringere gli occhi. Ricordo che qualcuno provò ad offrirgli un braccio per aiutarlo a superare l’ultimo ostacolo prima di essere di nuovo sulla zona calpestabile della terrazza, ma lui rifiutò in maniera decisa.

In quel momento il suo aspetto schivo e burbero divenne ancor più netto di quanto non fosse apparso prima.

Si appoggiò ad un muro, e con la mano libera, scrollò la polvere che aveva sporcato il suo cappello e la sua giacca, quindi, lentamente, cominciò a tirare fuori il braccio che nascondeva sotto il cappotto. Il suo sguardo accompagnava quel movimento lento e accorto, influenzato forse dalla danza che aveva compiuto fino a qualche attimo prima tra le ruote dentate ed i tiranti.

La verità si mostrò agli occhi di noi tutti.

Al centro della sua mano c’era un insieme di foglie e fango duro di forma circolare dal quale si scorgevano due, forse tre becchi minuscoli e gialli che si accanivano sulle dita vecchie e lunghe di quell’uomo.  Fu una visione incantevole, come quella di un padre che protegge dal vento il suo bambino, stringendolo a se, riparandolo dal freddo e dagli sguardi. Durò un attimo, che a me sembra ancora lunghissimo. Nascose nuovamente il braccio nel cappotto, si alzò e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, si sporse da uno dei bordi della torre e fece un fischio lunghissimo verso la piazza, che squarciò l’aria; ci fece poi cenno di seguirlo lungo le scale, con un sorriso che lasciava trasparire gioia, orgoglio, soddisfazione.

Avemmo il tempo di scendere appena qualche gradino quando sentimmo la torre prendere vita, animarsi dentro, dalle viscere. Gli ingranaggi cominciarono a muoversi, lentamente, azionando tiranti, ruote dentate, pistoncini. Poi ci fu l’esplosione. La musica delle campane ci investì violentemente. Dal basso, dall’alto, dalle pareti intorno a noi, il suono ci rimbalzava addosso, confondendoci, spaventandoci, emozionandoci.

In quel momento mi sentii come se fossi anche io parte di quel grande organismo che animava quella struttura, come se la mia presenza fosse stata necessaria alla salvezza degli uccelli, alla rinascita della musica.

Pochi minuti prima un nido minuscolo e delicatissimo bloccava una ruota enorme e perfetta. Ora tutto era al suo posto, ogni cosa stava riacquistando la propria dimensione, il proprio luogo, il proprio spazio, il proprio tempo.

Ed era stato tutto così magicamente facile.


( 29/3/2011 17:34:37 - N. 377037 )

NUMERO 279


( 20/9/2008 15:43:53 - N. 350581 )

NUMERO 278

“La giustizia” ha osservato compitamente “non è un bene di cui godiamo in larga misura. Certo, lottiamo per raggiungerla, ma sembra un miserabile fardello della nostra sventurata specie che essa caparbiamente ci sfugga”.

Solo adesso mi rendo conto che il comportamento ha sempre un contesto e dei precedenti, è quello che fai più che quello che sei, anche se spesso non riconosciamo il contesto né capiamo quali sono i precedenti.

Questi stronzi, è come se per me fossero invisibili e io fossi invisibile per loro. E allora l’ho capito chiaro, come un’illuminazione: sono questi gli stronzi che dovremmo menare, mica i ragazzi che gli spacchiamo il culo al futbal, mica le passere che gli facciamo la festa, mica nostro papà o nostra mamma, i nostri fratelli e sorelle, mica i vicini, mica i nostri soci. Questi stronzi qua. E invece, noi massacriamo le nostre case che non c’è dentro un cazzo, terrorizziamo la nostra gente. Questi stronzi, invece… a questi stronzi non li vediamo neanche. Neppure quando sono vicino a noi.

Un giorno lei disse: “Non sei mica obbligato a prendere l’E per fare l’amore con me, sai?”.
Andammo a letto. Io tremavo, avevo paura di espormi senza gli aiuti chimici. Per un po’ ci baciammo e smisi di tremare. Ci facemmo le coccole per un pezzo, e quando ci unimmo il mio cazzo e la sua figa diventarono una cosa sola, e poi tutto sembrò sparire, perché decollammo tutti e due per un grosso trip psichico. Erano le nostre anime e le nostre menti a fare tutto: i nostri genitali, i nostri corpi, non erano altro che le rampe di lancio e di lì a poco furono praticamente superflui mentre noi giravamo per l’universo insieme al nostro trip comune, entrando e uscendo ognuno dalla testa dell’altra e non trovandoci dentro che cose buone,niente altro che amore. L’intensità aumentò fino a diventare quasi insopportabile ed esplodemmo assieme in un atterraggio orgasmico di schianto su quello che restava di un letto, da lontano lontano in chissà quale universo. Ci tenemmo stretti, fradici di sudore e tremanti per l’emozione.

Non ero uno psicopatico: ero solo uno stupido e un vigliacco. Avevo lasciato sfogo alla mia emotività e non potevo richiudermi nell’autonegazione, in quella forma deteriore di esistenza, ma non potevo neanche andare avanti senza avere saldato il mio debito. Per me non si trattava di una fuga. Tutta la mia fottuta vita era stata una fuga: scappare via, perché un fottuto coreano, un nessuno, non dovrebbe provare questi sentimenti dato che cazzo, non hanno un posto dove andare, un posto dove esprimersi, e se ti apri qualunque stronzo ti farà a pezzettini. E allora li chiudi fuori di te: ti costruisci un guscio, ti nascondi, oppure ti scateni contro di loro e li ferisci. Lo fai perché pensi che se tu li ferisci loro non potranno ferire te. Ma sono stronzate, perché ferisci ancora fino a quando non impari a diventare un animale e se non riesci a impararlo per filo e per segno, cazzo, scappi. Però a volte non puoi mica scappare, non puoi scansarti, non puoi schivare ondeggiando con il busto, perché alle volte tutto viaggia insieme a te, dentro il tuo futtuto cranio. Qui non si trattava di chiamarsi fuori. Si trattava dell’unica scelta sensata. La morte era la strada che portava in avanti.

 

da “Tolleranza Zero” – Irvine Welsh, 1995


( 20/8/2008 22:28:21 - N. 346165 )

NUMERO 277


( 19/8/2008 22:16:39 - N. 346081 )

NUMERO 276

Maureen uscì dal letto e nuda anche lei andò ad abbracciarlo da dietro. Respirò il suo profumo che sapeva di musica e di uomo e di loro due, e mentre lo faceva il suo odore si mescolò all’aria quasi strafottente di quella primavera romana così orgogliosa di sé e Maureen in quel momento era felice e nonostante tutto non pensava a niente.
Appoggiò la testa alla sua spalla e rimase ad odorare ed adorare quel piccolo miracolo rappresentato dalla propria pelle contro quella di lui. Le piaceva immaginare che qualcuno, forse un alchimista geniale e ruffiano, avesse fabbricato di proposito le loro epidermidi con elementi fatti apposta per funzionare l’uno da richiamo per l’altro. Poi, aveva atteso paziente il loro incontro per avere la conferma del successo della sua opera. Il suo sorriso di trionfo era diventato il loro sorriso. Fra lei e Connor c’erano parole e rispetto e ammirazione e talvolta una forma di pudore di fronte alle rispettive collocazioni nel mondo, però Maureen non poteva fare a meno di rabbrividire di piacere a ogni abbraccio, che aveva dentro di sé quella perfezione che solo la casualità può creare.

Si dicono parole che lasciano dietro conseguenze e significati. Si fanno gesti che possono ferire, per volontà espressa o per leggerezza.
O per il semplice timore di essere feriti.

da "Niente di vero tranne gli occhi" - Giorgio Faletti

( 5/8/2008 19:03:25 - N. 344700 )

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