NUMERO 275 Giuro sulla mia testa che non avrei mai pensato che sarebbe stato tutto così vivo e presente: e questo fa sembrare il mio progetto ancora più giusto. Voglio dire, mi aspetto quasi di vedere Joan sulla barca, di andare a sbatterle contro sul ponte, nella sala da pranzo, al bar o addirittura in sala da gioco. Quando mi capita di pensare a lei in quel modo, il mio cuore si mette a correre, mi viene il capogiro e generalmente devo ritirarmi in cabina. Quando giro la chiave nella toppa mi viene addirittura da pensare che dentro ci potrei trovare lei, magari a letto che legge. Lo so, è ridicolo tutto questo, ridicolo da matti. Quando ci siamo imbarcati insieme in questa grande avventura, hai detto che in un rapporto è fondamentale farsi un camion di ghignate. Victoria era entusiasta. “Un montatore da perderci la vista. Ci scommetto che ce l’ha lungo come quello di un cavallo. Come quella foto che ho di Tam McKenzie, capito, quella della squadra giovanile del Leith, formazione originale degli anni settanta. Un figone pazzesco, socia, te lo dico io. Anche sotto la conchiglia, urca come lo vedi il pacco quanto è gonfio. Pensavo: “Cazzinculo, butterei via i canini pur di mettergli attorno le gengive”. A Pilton stava succedendo qualcosa di strano. Probabilmente non soltanto a Pilton, riflettè Coco Bryce, ma dato che lui era a Pilton, si preoccupava solo di quello che succedeva lì e in quel momento. Alzò lo sguardo al cielo nero. Gli sembrava che stesse andando in pezzi, che una parte di esso fosse stata sventrata: era sbigottito. Qualcosa era sul punto di sgocciolare sullo squarcio. Frammenti di luce fredda, violenta, simile al neon balenavano nella ferita. Coco distingueva i flussi e i riflussi delle correnti in una polla trasparente che sembrava nell’atto di raccogliersi dietro lo scuro tegumento del cielo, come se stesse per esplodere attraverso il varco, o almeno lacerare ulteriormente l’involucro delle nubi. Tuttavia, la luce che sgorgava dallo squarcio, come ridotta e chiusa in se stessa, non arrivava ad illuminare il pianeta sottostante. ( 23/7/2008 22:44:41 - N. 343017 ) |
NUMERO 274 FIGLI DELLE STELLE
Se vi capita di incontrare Giovanna ed Alessandro avrete l’opportunità di conoscere una storia. Una bella storia. Giovanna e Alessandro, si conobbero quando non erano poi più tanto giovani. Gli studi finiti, il nuovo lavoro, tanto agognato e finalmente conquistato, li aveva fatti conoscere. La quotidianità di giornate trascorse assieme all’interno di un palazzo così alto che dalle sue finestre si poteva guardare tutta Napoli li aveva resi colleghi prima, conoscenti poi. Una scintilla nascosta in un cuore apparentemente burbero fece scattare qualcosa, qualcosa che forse per la prima volta gli fece pensare che quella poteva essere la volta buona. Quella stessa scintilla che lei riuscì a vedere in gesti nuovi, in gesti dedicati unicamente a lei, la fecero spaventare. La titubanza che si trasforma in diffidenza, agguerrita e tagliente come solo le donne che vogliono difendersi sono capaci di esprimere con l’uso di sole due parole. Rincorrerla tra provette. Le incertezze che lasciano il passo a quella bellezza che solo le farfalle nella pancia e nel petto riescono a regalarti. Erano quelli i tempi in quei tempi gli occhiali avevano montature grosse, i capelli erano cotonati, erano i tempi in cui i mondiali di calcio si guardavano al mattino, in cui cambiarono presidenti della repubblica e papi e Moro ed Impastato vennero uccisi. Mancavano circa venti anni, ma per loro fu semplice proiettare i loro pensieri verso il nuovo millennio. Il lavoro ed una casa da comprare, i sogni e la voglia di diventare grandi e vecchi assieme, il desiderio di avere bambini. Bambini desiderati, nati e da subito amati, sempre protetti e mai abbandonati. Bambini che sono diventati uomini. Giovanna e Alessandro ormai mescolano le proprie vite da 6 lustri e sono la risposta a tutte le persone che si ostinano a non credere nell’amore che dura. Perché i litigi, le incomprensioni, i momenti difficili e duri che ti fanno venir voglia di mollare tutto e fuggire via, le lacrime e le urla devono essere necessariamente vissute. Ma nonostante le rughe ed i capelli bianchi, basta poco così per riconoscere quegli stessi occhi che rincorrevano, quegli stessi occhi che si lasciavano rincorrere. Se vi capita di incontrare Alessandro e Giovanna cercateli quegli occhi, e sorriderete. ( 9/7/2008 00:24:58 - N. 340963 ) |
NUMERO 273 Mi capitava spesso durante il giorno di fantasticare su di lei, ma soprattutto su di noi. È bello avere una persona sulla quale fare delle fantasie durante il giorno. Anche se è sconosciuta. Non so perché, ma quando pensavo a lei i miei pensieri non avevano mai il punto. Solo virgole. Erano una valanga di parole e immagini senza punteggiatura. Silvia per me è come la corda di un funambolo: quando sono felice ci danzo sopra con un ombrellino colorato, e quando sono triste mi ci aggrappo. Vederla di fronte a me, dopo quella confessione, mi ha fatto capire quanto aveva sofferto, quanto quel segreto fosse stato pesante per lei. Mi sono riscoperto attratto da quella donna, ma in maniera diversa. Avevo la certezza che, usciti da quel bar, non l’avrei più vista, ma che sarebbe stata per sempre dentro di me come una delle emozioni, nel bene e nel male, più importanti della vita e avrei voluto dirle quella frase patetica che solitamente esce dal cuore e non si riesce a fermare: “Camilla, qualsiasi cosa ti succeda, io ci sarò sempre”. Non l’ho detta. L’ho sussurrata a me stesso. Fatta così in silenzio mi sembrava una promessa più sincera. Quella mattina avevo il suo odore addosso, mi piaceva. Non mi ero lavato apposta. Con il suo profumo addosso ho avuto l’impressione che quel giorno anche gli uomini fossero più gentili con me. La vita non è ciò che accade, ma ciò che facciamo con ciò che ci accade… C’è un detto indù che recita: “Non c’è niente di nobile nell’essere superiore a qualcun altro. La vera nobiltà consiste nell’essere superiore al te stesso precedente”. Ripenso a tutte le cose che ho fatto per lei, a tutto quello che mi aveva fatto vivere. Da quando l’ho incontrata non mi sono mai annoiato, con lei o pensando a lei sono sempre stato bene; sono stato anche male, come adesso, mi sono sentito fragile e invincibile al tempo stesso. Ma sempre vivo. da “Il giorno in più” – Fabio Volo, 2007. Esiste il momento giusto per ogni cosa, anche per i libri… ( 23/6/2008 20:15:51 - N. 338814 ) |
NUMERO 272 SENZA TITOLO Quando aprì gli occhi il sole era già alto. La piccola stanza con bagno nella quale aveva trascorso la notte era illuminata nonostante le tapparelle fossero abbassate. Intorno a Marco qualche vestito sparpagliato tra la poltrona ed il tavolino, alcuni fogli scarabocchiati, la piccola borsa aperta sul pavimento da cui facevano capolino la maglietta bella e le mutande fortunate. Residui di cenere e di sigarette sventrate davano all’aria un sapore amaro nel quale poteva essere piacevole crogiolarsi. Sotto la cornice dello specchio, di fronte al letto nel quale ancora si rigirava, una piccola mappa disegnata a mano. Colori diversi riportavano nomi di strade, stazioni della metro, punti di riferimento e tutta una serie di WARNING scritti in rosso, utili a non commettere errori da forestiero. “Roma è una città grande, è la capitale” – gli aveva suggerito Cristina il giorno prima. “Segui i miei disegni e tutto andrà bene. E non dimenticare che le strade in verde sono ZTL: alle telecamere non si scappa!” “Dolce Cristina”, pensò riguardando l’opera dell’amica con la coda dell’occhio mentre apriva le tapparelle della stanza sul nuovo giorno. Osservò il mondo fuori alla sua finestra avvolto da una morsa di un inatteso caldo che tutto scioglieva, che tutto deformava. Fumi tremolanti ed apparentemente invisibili risalivano dal manto di asfalto rendendo quel rettilineo null’altro che un rincorrersi tondeggiante di colori confusi. Rimase qualche attimo a guardare la scena, quasi paralizzato dal terrore di poter essere risucchiato da quel vortice infuocato. La sigaretta del buongiorno insaporì le sue labbra. La doccia inaspettatamente efficiente gli diede tutto il vigore che cercava dall’acqua purificatrice. Le scorie di una notte costellata da dubbi e paure scivolarono giù nello scarico assieme a bollicine profumate di primavera sintetica. Indossò quella maglietta, quel pantalone, quelle mutande a cui pensava da tempo, sistemò velocemente i capelli ancora umidi ed inforcò gli occhiali da sole lanciando un bacio sorridente al suo sosia proposto dallo specchio. Il tragitto che lo attendeva non era lunghissimo: Piazza Bologna – Campo dè Fiori. Venti minuti secondo la Guida Michelin, qualcosa in più secondo Cristina. Entrò in auto mentre i rintocchi delle campane del mezzogiorno gli davano conferma della sua puntualità. Sintonizzò la radio sui 106.6 di Radio Rock: Spandau Ballet, “To cut a long story short”. Marco sorrise pensando che anche lei, in quello stesso momento, poteva canticchiare le sue stesse note. Il ricordo di quella voce così forte e dolce che si intrecciava e rincorreva la sua mentre andavano veloci sul ritmo di “Tutti i miei sbagli” era un pensiero che gli regalava gioia. Forse fu quello il primo momento. Forse fu proprio grazie a quella canzone che per la prima volta Marco capì di volerle bene. Forse fu quella la prima volta che Marco ammise a se stesso quanto Claudia stesse diventando importante per lui. Da quel giorno, da quella canzone, da quelle ultime tredici ore trascorse assieme, di tempo ne era trascorso già un po’. Da quel giorno in cui i loro occhi si erano incontrati, da quel giorno in cui le loro dita si erano intrecciate, Marco non aveva fatto altro che richiamare alla memoria ogni singola particella di emozioni e ricordi che gelosamente conservava dentro di se. Non era raro vederlo con gli occhi persi nel vuoto mentre tentava di trovare sulla sua pelle, tra le sue mani, tracce infinitesime dell’odore di Claudia. Quel profumo così indescrivibilmente unico lo tormentava come la più dolce delle droghe. Erano seguiti giorni ricchi di parole filtrate da monitor e telefoni, giorni pieni di piccole scoperte di quel mondo che tanto lo aveva affascinato, che li aveva resi così belli assieme in quel lungo momento al centro della primavera. Marco sorrideva tra i denti fumanti, immaginando quel volto gentile arrossirsi per una parola proveniente dritta dal suo cuore. Aveva la bocca secca, forse per l’ansia di quell’incontro, quando si fermò ad un semaforo rosso. Un tizio picchiettò al suo finestrino. “Grazie, non mi serve nulla”, disse distrattamente. L’uomo, un uomo dai lunghi e sottili baffi, gli sorrideva a trenta centimetri dal viso. “Ti ringrazio, ma davvero non mi occorre nulla”, rispose fissando la camicia di cotone leggero e verde che indossava l’uomo.
L’uomo, un uomo con la fronte rugosa, gli porse una coppa con una pallina di gelato bianco. “Ma è un gelato quello?” Marco non ebbe neppure il tempo di riflettere su quelle parole, che la sua lingua già gustava della vaniglia fredda. L’uomo, un uomo dal petto magro e villoso, gli aveva infilato il cucchiaino con del gelato dritto in bocca. Il semaforo tornò verde; le auto alle sue spalle cominciarono a dar fiato ai propri clacson. “Buona giornata amico. Grazie per il sorriso e non ti preoccupare per quella macchia: ora sei più simpatico.” L’uomo, un uomo dalle lunghe gambe, si allontanava in direzione opposta al flusso del traffico, mentre una goccia bianca aveva cominciato a sciogliersi sulla maglietta di Marco. La perfezione che credeva di aver trovato con quegli abiti, di colpo svanì sotto i suoi occhi. Si innervosì e cominciò a sudare mentre il deejay della radio proseguiva in un ostentato monologo anticapitalista. La mappa che aveva bloccato nel posacenere, accanto al cambio, gli dava delle certezze colorate. Il disegno di Claudia sotto la statua di Giordano Bruno a Campo dè Fiori era distante ormai solo pochi punti. Superò l’isola tiberina, ed il sollievo per la meta quasi raggiunta prese a ballare nel suo petto assieme all’ansia che quell’incontro si portava in dote. La notte agitata gli aveva lasciato in eredità diverse domande. Sarebbe stato giusto far esplodere subito tutta la sua gioia nel vederla, o forse sarebbe stato meglio arrivare in silenzio, scostarle i capelli dalla guancia e baciarla con un bacio piccolo? Gli occhiali da sole era meglio toglierli o essere naturale e tenerli? Di sicuro non sarebbe stata una buona mossa arrivare con una sigaretta tra le dita: voleva che il suo odore le arrivasse subito al naso ed agli occhi. Queste domande gli fecero compagnia mentre cercava di trovare parcheggio con il Tevere che gli scorreva prima sulla destra, poi sulla sinistra, poi sulla destra, poi sulla sinistra… Scese dall’auto e di nuovo il caldo lo assalì insieme all’odore degli spiedini che sul Ponte Sisto qualcuno arrostiva. Decise di fermarsi a prendere dell’acqua in quella che la mappa indicava come Piazza Trilussa. Pagò un ambulante e si sistemò sulle scale della piazza, leggermente all’ombra. Di fronte a lui un gruppo di quattro ballerini in calzamaglia danzava senza musica con mosse lente e strane attorno a quel che restava di un ombrello a scacchi bianchi e neri. Gli venne in mente un motivetto ska e fischiettando allegro attraversò il fiume e si diresse verso i vicoletti che portavano a Claudia. Più si avvicinava, più il suo passo era veloce. Quando via del Biscione era ormai stata percorsa tutta, capì dalla luce nuova che lo avvolse di essere a Campo dè Fiori. Si paralizzò in cerca di un punto di riferimento. La statua, un bar, dei fiori… “A Campo dè Fiori non ci sono fiorai?”, pensò mentre i suoi occhi si incollarono a quelle spalle esili che già aveva imparato a riconoscere tra tante. Percorse quegli ultimi passi con una lentezza quasi celebrativa. Il cuore ormai tambureggiava al centro del suo petto. La sua schiena ormai a pochi metri da lui. Le scostò i capelli lunghi dalla guancia e la baciò con un bacio piccolo sullo zigomo. Gli occhi di Claudia sorrisero dietro grossi occhiali da sole, mentre la pelle del suo viso si colorava di rosso. Quella scena era almeno un milione di volte più bella di quanto la sua mente aveva sperato potesse essere. “Ti aspettavo con un po’ di ritardo”, disse Claudia con voce imbarazzata. Tra le mani di Claudia una Tennent’s fredda. “Ne vuoi un sorso?” “Ho bisogno di parlarti Cla…”, disse Marco sbuffando il primo avido tiro di Golden Virginia fuori dai denti. Il posto non era bello come sperava, e forse c’era davvero troppa gente, ma quelle parole gli vagavano da troppo tempo nello stomaco e non poteva più tenerle dentro. “Devo preoccuparmi?”, disse lei con voce bassa. “No Cla, non posso aspettare. Se aspetto mi scoppia il petto. Sei così bella che non posso permettermi il lusso di fare lo stronzo e rovinare tutto. Qualcuno una volta scrisse che in certi momenti della vita, uno decide di azzerare tutto, di ripartire, di purificarsi. Questo scrittore usava una metafora bellissima: paragonava il suo io ad un giardino che si ricopriva di neve morbida. Lui restava lì, immobile, mentre tutto quello che prima popolava il giardino scompariva sotto quel bianco candore. Quando la neve non cadde più, quando tutto fu così immacolato, candido, perfetto, lui non permise a nessuno di rovinare quello spettacolo con una traccia del suo passaggio. Lui diceva più o meno queste cose, ed io mi sento esattamente così, adesso. Perciò ti chiedo, Claudia, ti va di camminare un po’ con me nel mio giardino?” Il mondo intorno continuava a girare, ma neppure i pakistani che vendevano rose agli innamorati vollero disturbare quel momento. “Spesso sei così arroccato dietro le tue mura, che neppure ti accorgi se qualcuno passa intorno al tuo castello. Dici di aver paura, ma se non fosse così non sarebbe bello. Mi piacerebbe essere per te come un oleandro bianco, una pianta velenosa ma bellissima. Una pianta che molti vorrebbero per se, ma che in pochi hanno l’ardire di cogliere. Eppure l’oleandro bianco pare possa nutrirsi di latte, per scaricare il suo veleno. Non avere paura, Marco: io ho un bel bicchiere, entrambi abbiamo tanto latte. Devi solo decidere se vuoi correre il rischio e scoprire se questa è solo una leggenda.” “Non voglio rimpiangere quel che poteva essere. Si Claudia, corro il rischio. Verso il latte. E pazienza se mi avvelenerò. Già quel che sto provando in questo momento sarebbe sufficiente a non farmi pentire. Questo è come ballare il rock ‘n’ roll! E tu? Tu vuoi camminare nel mio giardino?” “Lo vedi quanto sei sciocco? Ancora non ti sei accorto che ti sto aspettando accanto alla staccionata già da un po’? Beh, vorrà dire che userò il piano B in attesa che tu rinsavisca..” “Il piano B?” “Ti va di perderci per Roma? In fondo la strada per tornare a piazza Bologna non la conosciamo..” ( 12/6/2008 01:40:39 - N. 336987 ) blog modificato il: 15/06/2008 10:41:33 |
NUMERO 270 Ricordo di un ricordo Ricordo i tuoi silenzi, quando il percorso del ritorno era quello che guidava il nostro cammino e tu dicevi “mi spiace che finisca già”. Ricordo quei momenti in cui la strada scorreva sotto le nostre ruote e le tue dita intrecciavano storie da raccontare tra i miei capelli, mentre i tuoi occhi speciali preferivano concedersi pause in attesa della meta. Ricordo quei chilometri prolungati all’infinito da andature lente, da curve a folle, da luci fioche, da cartelli stradali scoloriti dai nostri sguardi curiosi e sognanti. Ricordo la sensazione di emozione che mi esplodeva dentro tutte le volte che da quel piccolo mondo uscivi, chiudendone una porta sussurrando “buonanotte”. Ricordo i nostri occhi seguirsi fin dove si poteva senza averne mai abbastanza. Che tu possa avere la tua felicità, donna dai mille ricordi ( 25/5/2008 15:44:50 - N. 334519 ) |