«La censura, tuttavia, non era riuscita ad impedire lo "scoop" di Kevin Sites, il reporter della tv americana Nbc: aveva ripreso un marine mentre uccideva un combattente ferito e disarmato, steso sul pavimento della moschea di Falluja. Nonostante quelle immagini avessero fatto il giro del mondo, Kevin Sites era stato subito "espulso" dal corpo degli embedded perché non aveva rispettato le "regole d'ingaggio" e della censura. Qualche tempo dopo il marine che aveva sparato sarebbe stato assolto per aver agito per "legittima difesa".»
«La situazione va di male in peggio. Dopo qualche giorno, i cadaveri cominciano a riempire le strade: non solo mancano l'elettricità e l'acqua, ma cominciano a scarseggiare i viveri. Per sfamarsi i cani dilaniano i cadaveri trovati per strada.»
«Ad aspettare i maschi c'erano però, invece degli aiuti, le manette. Erano considerati tutti combattenti, quindi interrogati con le cattive maniere e poi rinchiusi in un campo. Solo dopo qualche giorno, una volta dimostrato che non aveva toccato esplosivi (con la prova del guanto di paraffina), Majid ‑ con pochi altri ‑ viene liberato. Ma per andare dove? Vagando, solo e disperato, si dirige alla moschea, di solito luogo di rifugio. Non in questo caso: il pavimento era coperto di cadaveri. Gli americani avevano ucciso tutti i giovani riparatisi nel luogo di preghiera, gli aveva raccontato il guardiano, risparmiato solo grazie alla sua veneranda età.»
«"Una mattina," racconta, "mi sono messa in macchina con due dei miei figli per tornare a casa. Otto ore di viaggio (la distanza tra Baghdad e Falluja è di cinquanta chilometri): code, posti di blocco, controlli..." Agli abitanti di Falluja oltre alle impronte digitali viene anche registrata la retina. "Quando finalmente siamo arrivati, ho trovato la casa distrutta, senza porte e finestre e la dote di mia figlia tagliata a pezzettini... oltre alla perdita anche lo sfregio. Che cosa potevo fare? Sono tornata a vivere qui sotto una tenda." E i dollari che vi hanno dato gli americani per ricostruire le case? "Che cosa ce ne facciamo di duecento dollari per una casa distrutta?" Fawzia li ha persino rifiutati: "Non voglio i loro sporchi soldi, che poi sono i nostri perché li fanno con il nostro petrolio", afferma con orgoglio.»
«Mohammed mi racconta invece che due sue vicine sono tornate a Falluja, ma sono state avvisate dagli americani che prima la casa doveva essere disinfestata e per farlo hanno dato loro dei bidoni di detersivi speciali. "Mi hanno detto che hanno trovato l'appartamento coperto da una polverina bianca e quando hanno cominciato a toglierla una di loro si è sentita male, sanguinava da tutte le parti." Avrei voluto incontrare quelle donne ma gli eventi me l'hanno impedito.»
«Perché proprio io? Me lo sono chiesta ogni giorno durante la prigionia durata quattro settimane, quattro lune. Perché rapire una giornalista che si era sempre battuta contro la guerra? Perché intervistare i profughi di Falluja, la città più martoriata, era diventata una trappola? Allora non sapevo ancora che la collega francese Florence Aubenas e il suo collaboratore Hussein fossero stati rapiti esattamente nello stesso posto e sempre dopo avere intervistato i profughi. Dopo la mia liberazione, lo sheikh Hussein, che non sta più alla moschea Mustafa, mi avrebbe fatto arrivare un messaggio per dirmi che chi mi aveva rapita non faceva parte della resistenza, anzi queste azioni rovinavano l'immagine della resistenza, e che le donne che avevo incontrato al campo erano molto dispiaciute di quello che mi era successo.»
«Questa città, nell'attacco del novembre 2004, è stata quasi rasa al suolo. Secondo fonti ufficiali del governo sono 36.955 le case colpite, tremilaseicento demolite, duemila bruciate, ventunomila occupate. Per quanto riguarda i negozi: milleottocento sono stati completamente distrutti, ottomilaquattrocento danneggiati, duecentocinquantotto le fabbriche bruciate. A questi danni occorre aggiungere, secondo il dottor Hafid al Dulaimi, direttore della commissione cittadina per i risarcimenti, sessanta asili e scuole colpiti e sessantacinque tra moschee e luoghi religiosi danneggiati. Non solo, tra gli effetti dei bombardamenti c'è anche l'inquinamento: l'acqua potabile è contaminata dagli scarichi fognari. I danni calcolati dall'ingegner Fawzi, anche lui della commissione per i risarcimenti, ammontano a seicento milioni di dollari, ma l'allora premier Iyad Allawi ne ha riconosciuto solo il 20 percento e, fino al giugno scorso, ne aveva assegnati solo il 10 percento. Secondo Mohammed Hadeed, medico di Falluja, sono trentunomila gli abitanti della città che aspettano ancora di essere risarciti. Molti tra coloro che hanno avuto la casa distrutta e non hanno un altro rifugio si sono accampati sulle macerie.»
«Alla fine era stato raggiunto un accordo: non ci sarebbe stata opposizione all'occupazione, ma i militari non sarebbero entrati nella zona abitata, evitando di turbare la vita della "città delle moschee". L'accordo tuttavia non era stato rispettato: il 23 aprile i marine occupano la scuola elementare al Qaid e quando, il 28 aprile, la popolazione manifesta contro una decisione che impediva agli studenti di andare a scuola, i soldati Usa sparano contro i manifestanti, provocando quattordici morti e tre feriti gravi. Due giorni dopo, un'altra manifestazione e altri tre morti e sedici feriti.»
«Era la settima volta che tornavo a Baghdad dall'inizio della guerra nel 2003 e ogni volta trovavo la situazione peggiorata rispetto a prima. Da tutti i punti di vista: sicurezza, lavoro, vita quotidiana, condizione delle donne.»
«Abbas è evidentemente contento quando mi parla delle manifestazioni, ma non l'avevo mai visto così entusiasta come quando viene a riferirmi che i capitani delle squadre di calcio sono scesi in campo con la maglietta con la scritta "Liberate Giuliana". È esaltato, non riesco nemmeno a capire cosa vuol dire esattamente, ma intuisco che Totti ha giocato con una t-shirt con scritto il mio nome. E lui ripete: "Ti immagini, Totti, proprio Totti!". Per un tifoso della Roma come lui è il massimo. Mi lascio sfuggire - più per sfida che per convinzione, visto che tifosa veramente non lo sono mai stata e non capisco nulla di calcio - che io invece sono juventina, Abbas è deluso ma non rinuncia a magnificarmi il valore e la bellezza del suo beniamino. La sua euforia, seppur moderatamente, mi contagia: il linguaggio del calcio funziona, è questa la vera globalizzazione se esalta persino i miei sequestratori, superando ogni contrapposizione ideologica.»
«"So che te ne andrai, ma non so quando." Poi chiama Abbas che conferma: "Ci sono ancora dei problemi per il trasferimento, a causa degli americani, ma si risolveranno".»
«"Abbiamo promesso alla tua famiglia che tornerai a casa sana e salva, ma stai attenta: gli americani non vogliono che tu torni viva in Italia," sono le ultime parole di Abbas, penso che sia solo uno slogan antiamericano, prima della liberazione.»
«Sono ancora immersa nei miei lugubri pensieri quando la portiera si apre: "Giuliana, Giuliana sono Nicola, sono amico di Gabriele e di Pier, è finita, ora sei libera. Vieni ti porto su un'altra macchina". La voce di Nicola Calipari fuga improvvisamente ogni mio timore, ogni dubbio. Sono venuti a liberarmi. Ne sono certa. Salgo, ancora bendata, sulla macchina che è venuta a prendermi. Dopo qualche minuto posso liberarmi del cotone che mi copre gli occhi e mentre vedo Baghdad che si allontana ancora incredula, comincio ad afferrare l'idea di poter riconquistare, la mia libertà.»
«L'informazione diventa un nemico, un'altra vittima della guerra. Oggi, in una fase storica in cui le tecnologie permettono d'informare in tempo reale, una notizia può diventare un boomerang per chi fa la guerra. Quindi anche i giornalisti sono potenziali nemici. Con l'uccisione di Waleed Khaled, tecnico del suono della Reuters, colpito ripetutamente dal fuoco americano il 28 agosto 2005, sale a sessantasei il numero dei giornalisti morti in Iraq dall'inizio della guerra (ovvero dal marzo del 2003). In Vietnam, in vent'anni di guerra, avevano perso la vita sessantatre operatori dell'informazione. Un altro cameraman della Reuters, Ali Omar Abraham al Mashadani, arrestato a Ramadi l'8 agosto 2005, è stato incarcerato ad Abu Ghraib senza nessuna imputazione. Giornalisti nel mirino, dunque.
Eppure i sequestratori dipendono dalle notizie che arrivano attraverso il satellite dalle tv del Golfo, Al Jazeera e Al Arabiya, soprattutto. Nessun iracheno si fida della filoamericana Al Iraqya. Non solo. I gruppi armati usano Internet per comunicare le loro rivendicazioni, vere o false che siano. E invece io ora sono chiusa in una stanza spoglia, senza un giornale o un libro da leggere, sognando una penna e un pezzo di carta - non penso più nemmeno lontanamente a un computer - cercando di origliare qualche notizia dalla stanza accanto. Le uniche trasmissioni che riesco a riconoscere sono le inconfondibili partite di calcio che occupano il venerdì - quelle arabe - e la domenica quelle occidentali. L'unico legame indissolubile, in grado di superare ogni frontiera - politica, ideologica, religiosa - è quello del calcio. Che però, per la mia incompetenza, mi esclude.
Tutto questo rappresenta una sconfitta, che non oso ammettere, nemmeno a me stessa. Fino alla vigilia della mia ultima partenza mi ero battuta: bisogna correre il rischio, andare in Iraq, per informare sui terribili effetti della guerra. E così avevo fatto: a Baghdad ogni giorno uscivo dall'albergo, contrariamente alla maggior parte dei miei colleghi, scendevo sul terreno rifiutando l'"arruolamento'' nei vari eserciti, rischiando. Ne ero consapevole. Alcuni colleghi, soprattutto stranieri, cominciano ad avere una scorta armata che forse può rappresentare un deterrente, ma in alcuni casi sono stati proprio i "protettori iracheni" a "vendere" i loro protetti ai gruppi armati. Una guerra sempre più sporca. Da tutti i punti di vista. L'allora ambasciatore statunitense, John Negroponte, ha esportato in Iraq il modello honduregno dell'uso dei contractor per i lavori più sporchi, quelli che non può fare l'esercito, innescando una nuova rivalità tra contractor superpagati e senza scrupoli, e soldati, meno pagati e comunque meno preparati, ma che sparano comunque contro chiunque (civili, naturalmente) pur di non rischiare.»
«Ai primi di settembre, il numero dei soldati americani uccisi in Iraq dall'inizio della guerra (nel marzo 2003) supera i millenovecento, oltre quattordicimila i feriti. Questi sono i dati ufficiali, ma altre voci indicano cifre di molto superiori, non a caso Bush impedisce di riprendere le bare che tornano negli Stati Uniti. I morti iracheni invece non si contano, non ci sono dati sulle vittime dell'attacco del novembre 2004 a Falluja e le stime sono divergenti. Secondo l'Iraq Body Count (Ibc), un'organizzazione britannica che ogni giorno pubblica sul suo sito web una stima delle vittime, tra il marzo 2003 e il marzo 2005 i morti civili sono stati 24.865, di cui oltre quattromila donne e bambini.»
«Nessun calcolo nemmeno sui militari iracheni morti nel conflitto, le cifre approssimative avanzate vanno dai 4895 ai 6370.»
«Gli effetti della guerra cominciano ad avere ripercussioni anche negli Stati Uniti, innanzitutto per la spesa: 5,6 miliardi di dollari al mese (finora duecentoquattro miliardi, settecentoventisette dollari per ogni cittadino Usa, senza contare i quarantacinque miliardi di dollari stanziati dal Congresso), importi superiori a quelli della Guerra del Vietnam. Un rapporto - ottantaquattro pagine dal titolo: "Il pantano Iraq" - del think thank americano, l'Institute for Policy Studies and Foreign Policy (Ips), pubblica questi dati proprio mentre l'America insorge per i ritardi della Casa Bianca negli aiuti alla popolazione colpita dall'uragano Katrina. Mancano soldi e uomini. Gli uomini della Guardia nazionale da fare intervenire per i soccorsi non ci sono, perché inviati in Iraq. Il rapporto, il terzo dal 2004 redatto dall'Istituto contrario alla guerra, contiene anche un piano studiato da Phyllis Bermis per un "immediato e completo ritiro delle truppe, contractor militari e società americane che sostengono l'occupazione Usa". Un ritiro permetterebbe agli Stati Uniti di uscire dal pantano iracheno in cui stanno affondando, ma anche agli iracheni di intraprendere una strada diversa da quella imposta dagli occupanti. Una rottura è indispensabile agli iracheni per individuare una via uscita dal caos e dal terrore in cui si trovano. Anche se nell'immediato, un ritiro delle truppe non comporterebbe certo una pacificazione. Forse è inevitabile uno scontro interno peraltro già in corso, per trovare una via d'uscita. D'altro canto, i governi che hanno contribuito alla guerra e all'occupazione dovrebbero individuare delle forme di risarcimento e di aiuto umanitario al popolo iracheno, che non possono certo consistere in fucili e carri armati, ma in un aiuto reale alla ricostruzione senza passare attraverso la rapina delle risorse del paese.»
«Ma la vera scoperta, è stata fatta dal quotidiano britannico "The Guardian" (22 agosto 2005): Ansar al Sunna in collaborazione con il gruppo Tawhid, guidato dal leader di Al Qaeda in Iraq, Abu Musab al Zarqawi, controlla la cittadina agricola di Haditha, duecento chilometri a nord-ovest di Baghdad, sulle rive dell'Eufrate. Una cittadina dove i wahabiti (il capo sarebbe un arabo non iracheno) stanno sperimentando il loro califfato: alcol e musica vietati, donne velate e rapporti tra i sessi controllati, adulteri frustati. Anche la rete cellulare è stata bloccata, tanto i mujaheddin - anche qui si fanno chiamare così - usano walkie-talkie e telefoni satellitari, mentre la corsia destra sulle strade della città è riservata alle loro macchine. Le decapitazioni avvengono all'alba sul ponte Haqlania, all'entrata di Haditha. Chi non può assistervi in diretta può trovare lo stesso pomeriggio, al mercato, il dvd con la registrazione. Un mini-stato taleban, lo definisce l'articolo del giornale britannico, costituito sotto il naso degli americani, che un anno fa si erano vantati di essere riusciti, con il corpo ingegneri dell'esercito, a ripristinare il funzionamento della vicina centrale elettrica e a fornire alla cittadina di novantamila abitanti l'elettricità ventiquattr'ore al giorno. Probabilmente unico caso in Iraq. Sono i mujaheddin ora a incassare il successo e gli stessi militanti di Ansar al Sunna che si arrogano il diritto di decidere chi vive e chi muore a Haditha, come devono vestire gli abitanti e cosa devono vedere o sentire. Fino a un anno fa, la cittadina era una delle tante della provincia di Anbar, nel cuore del "triangolo sunnita", periodicamente al centro degli scontri tra insorti e truppe americane. Ma ora i terroristi adottano una nuova tattica: quando gli americani arrivano a bombardare, loro se ne vanno abbandonando la popolazione sotto le bombe e tornano appena gli aerei sono scomparsi non vogliono fare la fine dei combattenti di Falluja. Sono infatti ancora una volta civili le vittime degli attacchi a Haditha come nelle vicine Rawa e Parwana, da dove arrivano appelli di medici che denunciano una vera e propria crisi umanitaria: negli ospedali mancano antibiotici, ossigeno e altre medicine basilari. Ma per i militanti di Ansar al Sunna non vale la pena perdere le forze scontrandosi con le truppe straniere. Oltre agli Stati Uniti in Iraq bisogna combattere difatti gli "apostati" sciiti ora al governo, come indica il rappresentante di Al Qaeda in Iraq, Abu Musab al Zarqawi, che la leggenda vuole sia sostato a Haditha a metà agosto del 2005.
I leader tribali locali temono i terroristi e quindi non si ribellano in nome dell'"ordine" che comunque i fondamentalisti mantengono, a colpi di frusta e decapitazioni. Proprio come i taleban in Afghanistan, fino a qualche anno fa. È questo il "modello afghano" che gli Stati Uniti volevano riproporre in Iraq, trasferendo a Baghdad anche l'ambasciatore di Kabul, l'americano‑afghano Zalmay Khalilzad, un neoconservatore fedele a Bush? Invece di eliminare il terrorismo stanno generando le migliori condizioni per la sua diffusione.»
«Le guerre e l'occupazione hanno provocato una regressione culturale che i movimenti islamisti alimentano imponendo i precetti religiosi: le donne è meglio che stiano a casa e lascino il lavoro agli uomini, visto che ce n'è poco, e, comunque, se escono devono velarsi. "Le donne hanno due scelte: affrontare le minacce di stupro ed essere poi uccise dalla famiglia, o la reclusione in casa," sostiene Amal al Mualimchi militante per i diritti delle donne.»
«Quando gli americani occupano Baghdad, nell'aprile del 2003, Liqa trova lavoro in un bar della base statunitense installatasi all'aeroporto. Con lei lavoravano altre donne irachene, ma c'era un soldato, di nome Harlow (è quello che si ricorda), che la seguiva sempre, soprattutto quando andava in bagno. Lei cercava di evitarlo, ma inutilmente. Un giorno il soldato le ha offerto una bibita. "Non c'era nulla di male nell'accettarla, e poi era sconveniente rifiutare." Ma nella bibita c'era della droga, si è sentita male e quando si è ripresa ha scoperto di essere stata stuprata. Il violentatore era senza dubbio Harlow che per di più se ne vantava con gli altri commilitoni. Liqa, disperata e in collera, aveva denunciato la violenza subita al colonnello, che le promise di prendere provvedimenti. Lei s'illudeva che avrebbe costretto Harlow a sposarla, unico risarcimento possibile in una società come quella irachena, non era più vergine e non avrebbe trovato un altro marito. Ma il provvedimento a cui pensava il colonnello era un altro: il soldato dopo qualche giorno è sparito, probabilmente rimpatriato, e con la sua partenza è venuta meno anche ogni speranza di risarcimento. Resasi conto, aveva urlato contro il colonnello che l'aveva sbattuta fuori dalla base. Disperata senza più l'"onore" e il lavoro e senza nemmeno poter tornare a casa, perché se la sua famiglia avesse saputo l'avrebbe uccisa, si era rivolta all'associazione di Hadil. Qui le hanno trovato un avvocato per permettere a Liqa di denunciare lo stupro presso l'Autorità provvisoria della coalizione (Cpa) che, all'inizio del 2004, ancora esisteva (è stata sciolta nel giugno dello stesso anno). Liqa si era fatta forza, era entrata nella fortezza americana, nel Convention Centre che si trova nella "Green Zone", dove aveva subito anche una visita ginecologica. Alla fine il medico aveva sentenziato che non era più vergine ma che non c'erano tracce dello stupro. La sua pratica era stata affidata a una donna irachena, Shakla, che lavorava con gli americani proprio per i risarcimenti dei danni provocati dalle truppe occupanti. Ma un bel giorno è sparita anche Shakla e da allora la donna è caduta in una forte depressione. Liqa non è stata l'unica vittima di stupro, le sua amica Intisar che lavorava con lei allo spaccio, era stata stuprata dallo stesso soldato, ma non aveva avuto il coraggio di denunciarlo, continuando ad andare alla base. Si è incontrata qualche volta con Liqa, poi non se ne è saputo più nulla»
«Anche in altri casi di violenze sessuali i soldati non hanno mai subito condanne. Una brutta fine avevano fatto anche due giovani sorelle - di quattordici e quindici anni - di una famiglia estremamente povera che frequentavano i soldati americani installati nella ex sede del partito Baath a Sowera, un centro agricolo a una settantina di chilometri a sud di Baghdad, sul Tigri. Una notte, all'inizio di luglio del 2003, le due giovani avevano subito violenze sessuali tali da essere ridotte in fin di vita. Abbandonate in condizioni orribili davanti al vicino ospedale, una era morta e l'altra sparita. Secondo voci che avevo raccolto tramite conoscenze nel villaggio - dove la notizia, trapelata dal personale dell'ospedale, era tabù - quella sopravvissuta sarebbe stata assassinata dai parenti, su istigazione dei capi tribali e religiosi.»
«"Gli Stati Uniti affermano che le forze di sicurezza possono contare su centocinquantamìla iracheni, ma dubito che ce ne siano più di quarantamila," ha dichiarato Mahmud Othman, un parlamentare iracheno, a un giornalista di "The Guardian" (24 luglio 2005). Ha anche citato un caso di corruzione clamoroso sulle spese militari: i trecento milioni di dollari spesi dal ministero della Difesa - complici gli americani - per comprare ventiquattro elicotteri militari e altri equipaggiamenti dalla Polonia sono stati praticamente buttati via. Gli elicotteri arrivati a Baghdad erano stati fabbricati ventotto anni prima e il costruttore ne consiglia la rottamazione dopo venticinque anni! Quello degli elicotteri non è un caso isolato. È stato lo stesso ministro della Difesa iracheno, Ali Allawi, a denunciare il 18 settembre 2005 una truffa delle spese militari che ammonterebbe a un miliardo di dollari. Non si tratta solo dell'acquisto degli elicotteri polacchi, ma anche di blindati risultati perforabili con un proiettile sparato da un Ak47, e di mitragliatrici Mp5 Usa pagate tremilacinquecento dollari l'una e sostituite con un modello egiziano del valore di duecento dollari. In questo modo i poliziotti non sono certo in grado di far fronte alla guerriglia meglio armata e tantomeno ai terroristi. Ma perché gli americani non armano i poliziotti iracheni? Perché non si fidano, tanto da temere forme di connivenza con la resistenza: nella polizia, a differenza dell'esercito, ci sono sunniti ex poliziotti o ex ufficiali provenienti dall'esercito di Saddam. I timori degli occupanti in molti casi sono fondati. Come quando, durante l'attacco a Falluja, nel novembre del 2004, gruppi della resistenza si erano trasferiti a Mosul e non sono stati certamente ostacolati dalle forze dell'ordine. Nel triangolo sunnita la diffidenza tra polizia e truppe di occupazione è reciproca. E non sono mancati scontri sanguinosi. A Falluja, nel settembre del 2003, gli americani hanno ucciso otto poliziotti iracheni, che si erano trovati a passare davanti alla base americana, mentre inseguivano un'auto rubata. L'insufficienza dell'esercito iracheno potrebbe costituire per gli americani il pretesto per non ritirarsi dal paese.»
«Ma perché Bush ha favorito proprio l'arrivo al potere degli amici di Teheran? Un nuovo errore di calcolo? Pura miopia? "L'America oggi, dopo il fallimento della sua impresa in Iraq, vuole realizzare profitti immediati per favorire Bush e il suo governo. A Bush non interessa quello che succederà dopo, una volta lasciata la Casa Bianca," sostiene sheikh Hareth al Dhari, dell'Associazìone degli ulema. Che aggiunge: "Bush e i suoi uomini non mostrano considerazione per gli interessi americani. Altrimenti, avrebbero spiegato al loro popolo i fallimenti della loro avventura, e avrebbero ritirato le loro forze dal paese" (da un'intervista ad Al Majd tv). Sicuramente Bush non si cura degli interessi degli Stati Uniti, e tantomeno di quelli iracheni. Con i guasti profondi provocati dall'occupazione e i tentativi di spartizione etnico-confessionale l'Iraq è giunto sull'orlo del baratro della libanizzazione. In questa situazione può bastare un incidente - nel 1975 a Beirut era stato l'attacco dei falangisti a un autobus e il massacro di ventisette palestinesi che erano a bordo - a far precipitare la situazione. E in Iraq gli incidenti non mancano. E molto più gravi, come quelli alla moschea di Kadhimiya. Eppure ancora oggi a Baghdad quando chiedi a qualcuno se è sciita o sunnita, ti risponde con orgoglio: "Sono iracheno". Fino a quando?»
«Varie sensazioni si sovrappongono, non riesco ancora a sentirmi libera, mi contagia la tensione, l'inquietudine dei miei "liberatori": non siamo ancora al sicuro, dobbiamo arrivare all'aeroporto. Non riesco a smaltire il terrore accumulato durante il mese di prigionia e nell'attesa di poco prima. Nicola Calipari, che in macchina si è seduto dietro, vicino a me per farmi sentire più sicura, cerca di mettermi a mio agio. Mi ha fatto togliere il cotone dagli occhi e anche la sciarpa che mi avvolgeva il capo, che per me è sempre opprimente. "Ora sei libera," mi ripete, intuendo, evidentemente, che per me è ancora difficile rendermene conto. Poi chiama il suo capo, il direttore del Sismi, il generale Pollari, io non so dire altro che "grazie". Mi sento bene, ma come in alcuni momenti della mia prigionia non mi sento completamente in me stessa, è come se non riuscissi ancora a mettere i piedi per terra. Nicola cerca di riprendere la linea con l'Italia per farmi parlare con Pier o con Gabriele, forse in questo momento sono già arrivati a Palazzo Chigi... Ma non riesce e butta il telefono sul sedile davanti, mentre l'autista, da quando siamo partiti, continua a telefonare - non so a chi - che stiamo arrivando all'aeroporto, "in tre". E mentre comincio a rendermi conto che non sono più prigioniera - l'agente al volante, che conosce bene Baghdad, dice che mancano solo settecento metri all'aeroporto - improvvisamente sono gli spari a interrompere tutte le mie emozioni.
"Ci attaccano, ci attaccano," urla l'agente, di cui non conosco ancora nemmeno il nome. Ma chi ci attacca? Chi può essere, mi chiedo. I sequestratori li abbiamo lasciati da una ventina di minuti e non possono averci seguiti, non potrebbero mai arrivare in questa zona, controllata dagli americani. E non posso nemmeno credere che siano proprio gli americani a mitragliarci. Sono sicuramente stati avvisati del nostro arrivo, nei giorni successivi avrò la conferma. E invece sì, sono proprio loro. È il famoso "Fuoco arnico", i cui effetti non sono meno devastanti di quello nemico. Mentre l'autista, che è al telefono con il generale Pollari, continua a urlare che siamo dell'ambasciata italiana, Calipari mi butta giù, io finisco incastrata tra il sedile dell'autista e il mio, e lui mi copre con il suo corpo, per proteggermi. Gli spari arrivano infatti da destra, dove è seduto lui, insieme a un fascio di luce. Calipari deve essere stato colpito subito perché non dice più una parola. Andrea Carpani - questo il nome dell'autista che avrei saputo solo al mio ritorno in Italia - urla e Nicola tace. lo sono terrorizzata mentre la macchina viene bersagliata dai proiettili. E forse proprio il terrore me ne fa avvertire più di quanti siano in realtà.
Finita la sparatoria, l'agente alla guida scende dalla macchina sempre parlando al telefono e urlando: "Siamo dell'ambasciata italiana", mentre alcuni soldati si avvicinano a lui e lo circondano. lo non riesco a muovermi, sono paralizzata, anche dall'angoscia: perché Nicola non parla? Non oso immaginare quello che è successo. Ma il suo corpo si appesantisce su di me e quando riesco a smuoverlo sento un rantolo. Sta morendo, è morto! No! L'uomo che mi ha liberata è morto, ed è morto per proteggermi. È come se la mia libertà fosse finita quando stava per cominciare. Tutte le emozioni si sono interrotte in quel momento. È una sensazione terribile sentirsi morire una persona addosso, è come se morisse anche una parte di te. E infatti dopo tutta quella pioggia di fuoco non riesco a capire se sono viva e credo di essere morta o se sono già morta e penso di essere ancora viva.
Arrivano i soldati che ci hanno sparato: aprono la portiera di Nicola, gli sollevano il capo. "Shit!" fa uno di loro. Hanno l'aria sorpresa, ma non spaventata. Sono giovani. Ma non dovrebbero essere tanto inesperti se, come risulterà dall'inchiesta, sono quasi tutti graduati tranne due specializzati, composizione insolita per una pattuglia del genere.
Accertata la morte di Calipari, vengono dalla mia parte per tirarmi fuori, io da sola non riesco a muovermi. Allora mi rendo conto di essere stata ferita, sento colare il sangue, ma non ho nemmeno sentito il proiettile che mi ha attraversato la spalla sinistra. Eppure era grosso, calibro 7,62 millimetri (secondo il rapporto della commissione militare), e oltre a portarmi via un pezzo di muscolo (il deltoide) lasciandomi un buco di quattro centimetri di diametro, passando mi ha anche frantumato la testa dell'omero riempiendomi di schegge. I soldati mi tirano fuori, mi stendono per terra, sul selciato. Cominciano a tagliarmi tutto quello che ho addosso - cappotto, felpa, camicia - per scoprire la ferita. Resto così per terra, a torso nudo, almeno per un quarto d'ora, finché non arriva un mezzo per portarmi all'ospedale. Sono lontana da Andrea che sta affrontando i soldati che l'hanno circondato con le armi spianate. Da terra vedo in lontananza (a dieci, forse venti metri, fuori dalla strada, nel prato) il mezzo militare, un Humvee, da dove ci hanno sparato. Un soldato si avvicina, in mano ha una flebo che cerca inutilmente di infilarmi in una vena del braccio destro, l'unico utilizzabile. Dopo la rottura di diverse vene, che mi hanno lasciato la mano e una parte del braccio pieni di ematomi per diversi giorni, rinuncia. ("L'ago era troppo grosso," leggerò nel rapporto.) A quel punto mi viene una sete atroce, chiedo dell'acqua, mi rispondono di aspettare perché di lì a poco sarò trasportata in ospedale. Non riesco ad aspettare, mi manca il respiro, mi sento chiudere in gola, soffoco. Arriva una bottiglia d'acqua, me ne danno un goccio, ma non basta a farmi riprendere il respiro. Sento in lontananza che l'agente Carpani cerca di capire come sto, ma non riesco a dargli nessuna indicazione. Si rassicura quando vede che mi alzo per salire sul mezzo che mi porta all'ospedale, lo stesso dal quale mi hanno sparato. Anche lui andrà all'ospedale - è ferito a un braccio - ma io non lo incontrerò. Non ci vuole molto - mi dicono quindici minuti - per arrivare all'ospedale, sebbene il mezzo su cui vengo trasportata proceda a dieci chilometri all'ora.
Non siamo lontani dalla zona internazionale e quando arrivo all'ospedale militare americano mi sembra di entrare sul set di un episodio del telefilm E.R., medici in prima linea. Non è la prima volta che in Iraq mi trovo a far fronte a una realtà che non ha nulla da invidiare alla fiction, ma questa è per me la più drammatica. Chiedo subito di chiamare l'ambasciatore italiano, che peraltro vive nella zona verde e non ci mette molto ad arrivare. Intanto vengo assalita da un gruppo di medici e infermieri, chi mi tira da una parte e chi dall'altra. Un'infermiera mi toglie la catenina che mi hanno regalato i rapitori, mi danno l'ossigeno, poi cominciano a fare i soliti esami e da una lastra si vede subito che il polmone sinistro sta collassando. Due schegge hanno toccato la pleura e il polmone si è ritirato. Ecco perché non riesco a respirare! Mi investono con una raffica di domande e, siccome l'accento di alcuni di loro mi è particolarmente ostico, non rispondo subito. Allora mi mandano un medico che parla serbocroato! Poi si rendono conto che basta parlare un po' più lentamente per farsi capire, oltretutto sono in preda a uno shock. Si assicurano che non esistano controindicazioni per farmi l'anestesia totale. Prima posso vedere l'ambasciatore Gianludovico De Martino che mi fa parlare al telefono anche con Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Poi, mentre mi portano in sala operatoria, qualcuno si avvicina, da dietro - non lo vedo in faccia - e mi chiede se sono la giornalista che era stata rapita. La domanda non è certo tranquillizzante, fino ad allora mi avevano chiesto solo nome e nazionalità, anche se evidentemente dovevano sapere chi ero. Ora sono nelle loro mani e non posso certo nascondermi. In fondo sono "alleati" degli italiani, ma il fatto, dopo quello che è successo, non mi tranquillizza per niente. Non ho scelta, anche l'intervento chirurgico è inevitabile per poter partire.
Mi risveglio dall'anestesia in una sala di rianimazione: sono a letto seduta e così dovrò dormire per quasi un mese a causa del drenaggio che mi assorbe il liquido dal polmone. Intorno numerose flebo: una con l'antibiotico, l'altra contro l'infezione da proiettile - questo è il pericolo maggiore, mi diranno i medici in Italia - poi la morfina, una per l'idratazione e non so che altro ancora, tutte infilate in una specie di valvola collegata direttamente all'aorta. Un'altra valvola è invece collocata sulla femorale, per ogni evenienza. Quando un flacone di liquido finisce emette un sibilo, insopportabile se l'infermiere di turno non arriva subito a sostituirlo. Io non mi posso muovere, il braccio sinistro è ingabbiato in un tutore per la rottura della testa dell'omero, e poi l'ossigeno, le flebo eccetera.
Mi hanno detto che verranno a prendermi alle cinque del mattino, ma le ore non passano mai, in quella posizione scomoda, con dolori dappertutto. Non ho alcuna percezione del tempo, senza nemmeno un orologio. Dovrei esserci abituata. Sento un trambusto. Arriva per primo l'ambasciatore con alcuni agenti, mi dice che Pier è all'aeroporto. lo non riesco a immaginare che sia venuto fino a Baghdad - sarà all'aeroporto di Roma, penso - e così quando arriva con gli altri agenti che mi riporteranno in Italia sono veramente sorpresa. Finalmente una bella sorpresa! Anche se in quelle condizioni non riesco nemmeno a manifestare la mia gioia.
I preparativi per la mia partenza sono lunghi: vista la mia situazione precaria era già pronto un medico americano per accompagnarmi - e non gli sarebbe dispiaciuto fare un salto in Italia e uscire dall'incubo di Baghdad, da quanto avevo capito - ma la squadra arrivata dall'Italia comprende anche un medico e quello americano deve rinviare la trasferta. Alla fine, tutto è pronto, sono le cinque e mezzo, devo solo firmare la ricevuta per recuperare i pochi beni che avevo con me al momento della sparatoria e che sono stati raccolti dai soldati, oltre alla catenina d'oro, che mi hanno tolto la sera prima e che non si trova più. Dico di cercarla, perché dovrei lasciarla agli americani? È più che altro un puntiglio. A un certo punto mi sembra di sentire una voce che dice di averla trovata, ma nell'elenco non c'è e nemmeno nel sacco di plastica - uno di quelli neri della spazzatura - dove è stato buttato dentro tutto alla rinfusa: borsa, pantaloni, scarpe, l'astuccio rosso con il cuoricino che conteneva la catenina eccetera. Manca anche la sciarpa che era diventata un po' come la coperta di Linus. Questo mi dispiace davvero molto. Invece la catenina data per persa l'avrei ritrovata, grazie a una "soffiata", dopo essere tornata a casa, nascosta dentro le scarpe, che non avevo più usato dal momento del ferimento.
Dopo il trasferimento in elicottero all'aeroporto, alle sette il decollo. Questa volta Baghdad si allontana davvero, anche se io non posso nemmeno alzarmi per guardare dal finestrino, sono sistemata in fondo all'aereo della presidenza del Consiglio, bloccata dall'apparecchio di drenaggio, e ogni movimento mi provoca il vomito. Sono peraltro abituata agli atterraggi e ai decolli da Baghdad, molto particolari per evitare attacchi. Si arriva ad alta quota sopra la città e poi si scende velocemente a spirale. E anche al decollo occorre prendere subito quota. Tuttavia, viste le mie condizioni, il volo non potrà avvenire a una quota molto alta e ci vorranno cinque ore e mezza per arrivare Roma, due in più di quanto ci avevano messo per raggiungere Baghdad. Sbarco a Roma distrutta, ma finalmente a casa, anche se realmente nella mia casa avrei rimesso piede solo dopo aver passato tre settimane all'ospedale militare del Celio. Il Celio era una novità. Prima mi avevano detto che mi avrebbero portato all'ospedale Gemelli, dove la coincidenza con il ricovero del papa avrebbe sicuramente sovraccaricato l'ospedale di tensione mediatica. Del Celio avevo sentito parlare solo da amici che vi erano passati durante il servizio militare, molti anni addietro, e non ne conservavano un buon ricordo. Ma, soprattutto, essere ricoverata in un ospedale militare mi sembrava poco adatto a una pacifista. Anche se pensavo che doveva essere il luogo più attrezzato a curare ferite di arma da fuoco. Mi sarei ricreduta sull'ospedale militare, il Celio è stata un'altra delle involontarie positive scoperte fatte a causa della mia disavventura. Non solo per l'efficienza e la professionalità del personale medico, ma anche per l'umanità e la solidarietà che mi ha circondata e la protezione dall'assalto della stampa e da un eccessivo afflusso di amici e conoscenti, che avrei salutato volentieri se solo fossi stata in condizioni di farlo.
L'arrivo in Italia è stato segnato dolorosamente dalla morte di Calipari. Una persona che ho conosciuto solo per una ventina di minuti, ma che mi è apparsa subito straordinaria. Ne avrei avuto la conferma in Italia, innanzitutto da Gabriele e Pier che l'avevano incontrato durante il mio sequestro, dalla moglie Rosa, dai suoi compagni di lavoro, ma anche da chi l'aveva conosciuto prima, soprattutto quando lavorava all'ufficio immigrazione. Tanto è vero che in Italia è stato subito celebrato come un "eroe" nazionale e non solo dalle autorità ma anche dalla gente comune. Io non amo le definizioni retoriche, ma sicuramente Calipari e i suoi compagni mi hanno dato una nuova immagine di chi si sente "servitore dello stato", anche se neppure questa definizione è particolarmente felice. E comunque sia, una persona come Calípari non può morire impunemente, senza che si faccia il possibile per scoprire la verità su quello che è successo quella sera del 4 marzo a Baghdad, come ha chiesto anche il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Innanzitutto dovrebbero farlo il governo e le autorità che lo hanno celebrato come "eroe" e che hanno il potere, per esempio, di imporre alle autorità americane di rispondere alle rogatorie avanzate dalla magistratura italiana. Non sarà facile perché la verità viene negata dagli americani, gli unici a sapere esattamente cosa sia accaduto.
L'inchiesta militare americana dopo le contrastanti versioni dei fatti si è conclusa, come prevedibile, con un'assoluzione piena dei militari che hanno sparato e l'archiviazione del "caso Calipari" da parte degli Stati Uniti. La versione dei militari Usa era che la vettura su cui viaggiavamo andava forte (settanta-ottanta chilometri orari), non si è fermata ai ripetuti segnali - a voce, con le luci e spari in aria - e quindi sono stati costretti a sparare per fermare l'auto. Quella dei due testimoni italiani - l'agente Carpani e io, che sostanzialmente coincidono, anche se non ci siamo mai parlati - sostiene al contrario che la macchina non andava affatto forte (quaranta-cinquanta chilometri orari), non c'era stato alcun preavviso per fermarci, la macchina è stata illuminata contemporaneamente all'arrivo dei proiettili, ed è stata colpita da destra e all'altezza dei passeggeri, non al motore - dove è arrivato un solo colpo - o alle ruote per fermarla.
Questa versione è stata sostenuta anche dal governo italiano, per la precisione dal Ministro degli Esteri Gianfranco Fini, quando ha riferito alla Camera sulla dinamica dell'accaduto. L'atteggiamento del governo italiano ha indotto gli americani, che avevano già liquidato la questione come un banale "incidente", a nominare una commissione militare d'inchiesta includendo - fatto eccezionale - anche due rappresentanti italiani - il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, l'ambasciatore Cesare Ragaglini, e il generale del Sismi Pierluigi Campregher - retrocessi però al rango di semplici osservatori, visto che non potevano nemmeno intervenire direttamente negli interrogatori. Inoltre, quando i due italiani sono arrivati a Baghdad (il 12 marzo) tutte le prove sul luogo della sparatoria erano state cancellate: la macchina rimossa e anche i proiettili perché, hanno detto gli americani, avrebbero potuto bucare le ruote dei mezzi militari! lo sono stata interrogata due volte dalla commissione guidata dal generale Peter Vangjel - una volta per iscritto e un'altra in teleconferenza con Baghdad - senza che la mia testimonianza fosse tenuta in alcuna considerazione. Quello che mi era parso preoccupare il generale era solo la coincidenza della mia testimonianza con quella dell'agente del Sismi. E probabilmente per questo nel rapporto americano è citata solo quella dell'agente, che non poteva essere ignorata. La commissione, nominata l'8 marzo, ha concluso i lavori con un rapporto, reso noto il 30 aprile 2005, che non è stato però accettato dai due rappresentanti italiani che ne hanno redatto un altro, di segno completamente diverso. Di fatto gli americani confermano la loro versione - nonostante le testimonianze spesso contraddittorie dei soldati che facevano parte del posto di blocco mobile - scagionando completamente l'unico militare che, secondo la versione Usa, avrebbe sparato. Tutto regolare dunque. L'impunità dei soldati americani è ancora una volta salvaguardata. L'atteggiamento è giustificato, con arroganza, dal fatto che in Iraq si sta combattendo una guerra. Che Bush aveva dichiarato finita il primo maggio 2003 a bordo della portaerei Lincoln!
Al di là delle affermazioni dei soldati che dicono di aver segnalato la loro presenza e la richiesta di fermarci con segnalazioni visive o sparando in aria eccetera - cosa assolutamente falsa - , un fatto che risulta da entrambi i rapporti, americano e italiano, è particolarmente inquietante: il comandante della pattuglia mobile, capitano Drew chiede ripetutamente al Toc (Tactical Operation Centre) del Battaglione di fanteria, a partire da poco prima delle venti, e a intervalli di pochi minuti, se può smobilitare il posto di blocco 541. Il capitano comandante della compagnia ha dichiarato che era preoccupato per il fatto che, lasciando i suoi soldati in una posizione statica per più di quindici minuti, li avrebbe esposti a possibili attacchi, si legge nei rapporti (americano e italiano). Ma gli viene sempre detto che deve mantenere la posizione, finché all'ultima telefonata, la settima in circa mezz'ora, delle 20 e 30, non solo gli viene detto di non smobilitare, ma gli viene risposto: "La Divisione C aveva indicato di non spostarsi dai posti di blocco poiché il convoglio sarebbe passato sulla Route Irish entro circa venti minuti". Il convoglio cui si fa riferimento conosciuto dopo il disvelamento degli omissis - è quello di Negroponte.
L'ex ambasciatore americano a Baghdad non si muoveva mai se non in elicottero e aveva persino paura a mettere i piedi fuori dal suo palazzo, che era stato di Saddam, anche solo per fare una foto, come mi aveva raccontato un amico fotografo. E invece quella sera, non potendo usare l'elicottero per il cattivo tempo, aveva deciso di andare a una cena a Camp Victory via terra e per poterlo fare aveva interrotto a lungo anche la strada su cui noi saremmo passati. Ma il blocco, quando noi siamo arrivati, era già stato rimosso perché Negroponte era già arrivato a destinazione. Il convoglio Vip è partito dalla zona internazionale con quattro Humvee approssimativamente alle 19 e 45. È arrivato all'entrata di Camp Victory alle 20 e 10. Il convoglio ha raggiunto la destinazione a Camp Victory alle 20 e 20, si legge nel rapporto Usa, passando per un'altra strada, e sarebbe tornato in elicottero, visto che non pioveva più. Tutte le informazioni erano state trasmesse dalla scorta di Negroponte. Ma "non ci sono prove che indichino che il Battaglione di artiglieria abbia trasmesso le informazioni relative agli orari di partenza e arrivo del Vip ad altre unità", rileva il rapporto italiano. Per di più, alle venti e trenta l'agente alla guida della nostra macchina aveva già comunicato all'ufficiale di collegamento italiano, il generale Mario Marioli, vicecomandante del corpo d'armata multinazionale in contatto permanente con il suo vice americano, capitano Green, che stavamo arrivando e, guarda caso, saremmo arrivati proprio "venti minuti circa", dopo l'ultima comunicazione al capitano Drew. Perché? Il capo divisione poteva ignorare che Negroponte era già arrivato a destinazione? Sicuramente non poteva avere l'informazìone che sarebbe passato alle venti e cinquanta sulla Irish Route, perché era falsa. Allora perché un'informazione sbagliata è stata passata al comandante della pattuglia mobile? E quale può essere stato l'effetto? Ammesso che non servisse alla copertura di qualcosa che non conosciamo, e probabilmente non conosceremo mai, come minimo queste false informazioni sono servite a creare un clima per cui l'"incidente'' diventava quasi inevitabile. Perché se i soldati, già sotto stress da parecchio tempo, si aspettavano proprio in quel momento il convoglio di Negroponte e invece si sono visti arrivare una macchina irachena, non ci hanno pensato due volte prima di sparare, senza avvisi e verifiche, come fanno sempre. Di queste "posizioni di blocco" non si conoscono nemmeno le regole d'ingaggio, perché si tratta di "missioni" non codificate e quindi senza "disposizioni scritte". Le modalità di attuazione sono perciò affidate ai reparti che le realizzano. Nelle sale operative gli inquirenti non hanno trovato traccia dei "duty bg" (diario degli avvenimenti) di quel posto di blocco: vengono distrutti alla fine del turno di servizio! Illegalità totale. D'altra parte, in gergo questi blocchi stradali vengono definiti, dagli occidentali, "illegal checkpoint" in quanto non vengono segnalati e non si conoscono le regole di ingaggio. La giustificazione per la mancata segnalazione di quel BP541, da parte dell'ufficiale Usa è perlomeno patetica: i passeggeri dell'autovettura non avrebbero comunque compreso il significato di eventuali cartelli, in quanto scritti in arabo e in inglese del tipo: "Stop", ''Slow down" e "Danger". E comunque i cartelli di quella unità non erano a disposizione, "da alcune settimane erano in mano a 'tecnici' che avrebbero dovuto coprirne con nastro adesivo alcune parti/frasi ritenute offensive per i civili" (!). Del resto a una specifica domanda sulla sua considerazione della sicurezza dei civili, il vicecomandante del dispositivo aveva risposto: "Tutto è pericoloso in Iraq".
In questo modo vengono uccisi ogni giorno degli iracheni a Baghdad, senza che la loro morte diventi nemmeno notizia al pari delle vittime delle autobombe. La mancanza di rispetto dei civili a questi posti di blocco "illegali" sottolineata nel rapporto redatto dai due membri italiani della Commissione militare Usa è in netto contrasto con l'approccio americano secondo il quale qualsiasi azione di forza è giustificata perché in Iraq si agisce in stato di guerra. E questo stato di guerra, testimoniato da due rappresentanti del governo italiano, evidenzia l'incongruità della presenza italiana in Iraq che viene spacciata per "missione di pace". Se il rapporto è stato fatto proprio dal governo italiano, la logica conseguenza avrebbe dovuto essere il ritiro delle truppe. Cosa che non è stata nemmeno presa in considerazione. Al contrario, il governo italiano ha ribadito la propria alleanza con Bush, nonostante abbia chiuso il caso Calipari, mentre il rapporto italiano sostanzialmente lo riapre sulla base delle testimonianze italiane (di Carpani e mia).
La parola è passata così alla magistratura italiana che, dopo quasi due mesi dall'incidente, è riuscita a ottenere l'invio della Toyota Corolla su cui viaggiavamo al momento della sparatoria, per poterla esaminare. L'auto è arrivata in Italia il 27 aprile, quando già circolavano indiscrezioni sul rapporto della Commissione d'inchiesta militare Usa. Dalle prime indicazioni dei periti che hanno visionato l'auto risulterebbe che a sparare non sia stato un solo militare. E questo di per sé già smonterebbe il rapporto americano. Comunque, pur conoscendo i nomi dei soldati che facevano parte della pattuglia mobile grazie al disvelamento degli omissis, l'Italia non potrà mai procedere contro soldati americani, che sono coperti dall'impunità nel loro operato all'estero. Grazie ad accordi internazionali, infatti, i soldati americani possono essere processati solo negli Stati Uniti. E questi sono già stati assolti dalla Commissione Vangjel.
Fino a dove potrà e vorrà arrivare la magistratura italiana? Molto dipenderà anche dalla volontà politica. Precedenti come il caso Cermis non lasciano spazio all'ottimismo. Anche perché il tempo stringe e l'inchiesta italiana dovrebbe concludersi entro marzo. Ma "non è possibile avere pace se non c'è giustizia" come scrive Rosa Calipari (Nicola Calipari, ucciso dal fuoco amico, "l'Unità").»
«Quello che mi è successo dopo la liberazione, la macchina colpita dal "fuoco amico", mi ha riportata alle origini della precipitazione della situazione in Iraq: la guerra. Con la guerra, la caduta di Saddam non ha portato la libertà ma l'imbarbarimento della Mesopotamia, culla di civiltà con i sumeri, gli assiri e i babilonesi. La realtà è questa...»
«"Fuoco amico" non sono solo i colpi degli americani contro la macchina sulla quale viaggiavo insieme a due agenti del Sismi e che hanno ucciso Nicola Calipari, ma anche quelli "sparati" contro di me dai miei rapitori: io, impegnata contro la guerra e l'occupazione dell'Iraq, sono stata rapita da chi sosteneva di combattere per la liberazione del proprio paese. Per di più, sono stata rapita mentre cercavo testimonianze sugli effetti delle bombe che hanno distrutto Falluja, cercavo di dar voce a chi non può averla attraverso i giornalisti embedded. Perché proprio me? È la domanda che mi ha tormentata durante la prigionia. Che fortunatamente è finita. E poi, l'angoscia: perché proprio Nicola Calipari? Avremo mai una risposta? Non possiamo rinunciare a cercare la verità.»
Fuoco Amico - Giuliana Sgrena
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