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zeppelin

nome:

carmine
eta': 50
Citta'.: pagani
Descrizione: amo in modo smisurato fabrizio de andre' ed il suo pensiero...

in direzione ostinata e contraria........questo pezzo e' tratto dalla buona novella e dai vangeli apocrifi..In campo religioso il termine è generalmente riferito a quelle scritture religiose ritenute non canoniche, che cioè non rientrano, secondo l'interpretazione prevalente e ufficiale, nell'elenco dei libri sacri. L'argomento è estremamente vasto e per ogni confessione religiosa è possibile trovare testi che rientrino in questa definizione.Corrado





Note inserite nel disco:
L'aggettivo « apocrifo ,, in greco, significa segreto, nascosto. Sembra che stesse ad indicare, fino al IV secolo d.C., alcuni scritti che qualche setta cristiana metteva a disposizione solo degli iniziati, non ritenendo che gli scritti fossero di facile comprensione per le masse.

Quando la Chiesa cominciò a distinguere in « ispirata e no » la letteratura su Cristo escluse quei testi apocrifi dal codice « canonico ».

Per estensione vennero chiamati apocrifi tutti gli scritti esclusi dal codice, appartenessero o meno a quelle sette. Così apocrifo divenne sinonimo di « non veritiero ,, « falso ,, « non corretto ».

Ci sono vangeli, bibbia, atti e lettere, sentenze e apocalissi apocrifi.
I vangeli apocrifi, in genere, vengono datati tra il I e il IV secolo d.C.

Convenzionalmente portano il nome di apostoli o testimoni della vita di Cristo: Pietro, Nicodemo, Filippo, Giacomo, Tommaso, i quali parlano in prima persona o sono citati dal redattore dei testo come fonte dei racconto.

Gli apocrifi sembrano colmare il vuoto dei quattro canonici (Marco, Matteo, Luca, Giovanni) sull'infanzia di Maria, la storia di Giuseppe, l'infanzia di Gesù e la storia di Erode e Pilato. Ma la differenza più affascinante è l'attenzione che gli autori mettono anche sulla natura « comunque » umana dei foro protagonisti; costoro, e il popolo che vive con loro, sembrano semidei di vario grado immersi in una meravigliosa e a volte anche troppo fantastica leggenda, costretti a viverla come umili e martoriati esseri umani in balia di questa unica commedia umana.

Pur essendo fuori della Chiesa gli apocrifi hanno lasciato una traccia ben profonda: dalle più piccole e radicate tradizioni: la grotta, l'asino e il bue, i nomi dei Magi e dei genitori di Maria, fino alle basi sulle quali poggia il dogma dell'Assunzione e la definizione « Madre di Dio ». Queste e altre notizie hanno ricchezza di particolari e spesso unica citazione nei vangeli apocrifi. La loro storia è sotterranea. I « fedeli » cristiani non li conoscono, la Chiesa non li divulga, per secoli sono stati ignorati eppure Dante, Carpaccio, Tiziano, Michelangelo, Raffaello, Hugo, Buigakov devono averli letti se hanno raccontato o dipinto scene che solo gli apocrifi contengono.

li lavoro di questo disco nasce da una ricerca sugli apocrifi e sull'animo umano che li ha informati; nasce dalla necessità di divulgare e *comunicare e dalla convinzione che l'argomento è lungi dall'essere superato: semmai, oggi, l'interesse si sposta, finalmente, dallo studioso alla gente, attraverso l'unico tramite ancora possibile, l'artista.

Fabrizio De André comincia il suo mestiere di autore con le canzoni di protesta, La guerra di Piero, La ballata dell'eroe (vai la pena di chiamarle di protesta visto che nove anni fa la protesta non era di moda) e con stupende canzoni d'amore, Bocca di rosa, Via dei Campo, Marinella.

La storia spesso fa da supporto, da pretesto per la polemica, per la satira, per l'umorismo su questo nostro « scostumato » mondo. Tra un verso e l'altro filtra l'ironia dell'uomo che ha bisogno di fede e fede non ha trovato. Il problema più che-religioso è mistico e, fattosi primo tra gli altri, comincia a cadenzare una

sfiducia in tutto ciò che è mito ma non risolve, che è autorità ma non opera, che è volontà ma non vuole altri che se stessa. L'ironia, qualche volta, prende la piega acre dei sarcasmo, la sfiducia scende di classe, corrode anche gli oppressi fino alla passività che è suicidio e De André scrive Tutti morimmo a stento, cantata sulla morte ma anche per la morte, certa, sicura, e tanto più amara se i] vivere non è stato. Tutti morimmo a stento è un quieto dolore che finisce male, della rivolta non ci sono più neppure le radici, rimangono due invocazioni e un atto di accusa che sembrà una preghiera. Solo la morte ha ragioni per vivere: ha la coscienza di essere stata chiamata.

La buona novella è il grado più alto di questa illusione-disillusìone-sfiducìa. Ne è l'emblema, addirittura. Comincia con una favola, una leggenda: un « c'era una volta » che fa presagire lieto fine e felicità. Contiene l'identico carattere di anomalia delle favole: cominciano con momenti tristi e penosi, con angosce e fatiche, lo svolgimento rasenta il tragico, l'irreparabile, poi sfociano brutalmente (come quando arrivano i nostri) in un lieto fine liberatorio. Sono forse i timori, le paure dell'adolescenza che svaniscono nel l'accettazione, con la maturità, di affetti concreti, reali e semplici.

Il raro e lo straordìnario sono sempre di passaggio.

E De André segue questo itinerario: alla favola sembra crederci, la porta avanti come se dovesse concludersi con il lieto fine, termina persino il primo tempo con l'odore della felicità. E poi distrugge con forza e decisione tutto ciò che ha costruito e lo distrugge senza giustificazioni di destini o di predestinazioni: con la convinzione che l'ineluttabile morte deve accadere, comunque, anche per errore. Sembra allora che la costruzione della prima parte sia stata fatta apposta per essere abbattuta: più dolce, femmina e leggenda, per frustrare definitivamente con la realtà dura e maschile ogni capacità di speranza. Non importa che la storia dei vangeli gli fosse ovviamente nota. Alla sua storia « evangelica » manca il riferimento biblico « affinché si compisse quei che è stato predetto ». De André usa perciò della stessa meraviglia dei narratore originale, l'incredibile lo allarga, lo riempie di possibile, lo umanizza come fosse credibile, fino al tentativo di corruzione dell'ascoltatore perché gioisca con lui: questa volta ce l'abbiamo fatta, i fatti cambiano il mondo! E poi lo dileggia perché ha creduto, ancora una volta, alla favola illusoria.

Resta. a consolare, quell'amore dell'ultimo verso

dei testamento di Tito: unico comandamento, ama il prossimo tuo, che comandamento non è. Parallelamente a questa sfiducia esistenziale (anche l'unico che poteva essere Dio è morto) c'è, ben chiara, quella propriamente politica. Ed è ancora la stessa strada della frustrazione.

Così una bambina, prima ancora di capire, prima ancora di volere, è già strumento della fede dei genitori e, naturalmente, dei potere che quella fede esercita. E viene allevata nel seno dei potere per servire-il potere. E proprio dalla vergine per vocazione (sterile, perciò , nasce la rivolta. La gioia è breve, il potere riprende le redini in mano, la rivolta è soffocata, il potere uccide. L'altalena vichiana dei finale toglie, senza molte cortesie, e senza tanto favoleggiare, le illusioni a diciannove secoli di storia.

La storia finisce con la morte perché la morte è la fine della realtà. La resurrezione sarebbe ancora leggenda e ancora una volta toglierebbe forza alla possibilità di imitare quest'uomo che De André considera,il più importante rivoluzionario della storia.

Il legame con i vangeli apocrifi è allo stesso tempo profondo e tenue. Direi che De André li usa fin che gli sono utili, ne adopera alcuni strumenti, sono la fonte necessaria per un lavoro così complesso.

L'infanzia di Maria ha dei precisi riferimenti « storici » e così il viaggio di Giuseppe e l'annunciazione dell'angelo e la parte nota della passione ma al personaggio Giuseppe, per esempio, De André ha dato un'anima che negli apocrifi non ha. Gli autori di duemila anni fa lo dicono servitore di un'idea ma non dicono che cosa lui ne pensasse. E così i turbamenti di Maria, le parole delle tre madri, i gruppi della via crucis (che, come fonte è apocrifa e non esiste nei canonici) il sogno della concezione e soprattutto il testamento di Tito nascono dalla fantasia di De André per costruire una storia che termini, fisicamente e nel contenuto, con « lodate l'uomo ».

Dei versi di Fabrizio, ormai giunto alla maturità espressiva, c'è da segnare l'uso della metrica e della rima. Ne è divenuto così padrone da non perdere occasione per proporre un'immagine. E qui le immagini si rincorrono, si sovrappongono, si ammucchiano una contro l'altra dal primo verso all'ultimo.

Apparentemente senza fatica. E invece è stata fatica, di un anno di lavoro, molti giorni e molte serate e troppe notti.

Credo che con questo disco De André entri a far parte, volente o nolente, sia bene o sia male, del costume italiano......



IL TESTAMENTO DI TITO

Tito:
"Non avrai altro Dio all'infuori di me,
spesso mi ha fatto pensare:
genti diverse venute dall'est
dicevan che in fondo era uguale.

Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.
Credevano a un altro diverso da te
e non mi hanno fatto del male.

Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano.
Con un coltello piantato nel fianco
gridai la mia pena e il suo nome:

ma forse era stanco, forse troppo occupato,
e non ascoltò il mio dolore.
Ma forse era stanco, forse troppo lontano,
davvero lo nominai invano.

Onora il padre, onora la madre
e onora anche il loro bastone,
bacia la mano che ruppe il tuo naso
perché le chiedevi un boccone:

quando a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.
Quanto a mio padre si fermò il cuore
non ho provato dolore.

Ricorda di santificare le feste.
Facile per noi ladroni
entrare nei templi che rigurgitan salmi
di schiavi e dei loro padroni

senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.
Senza finire legati agli altari
sgozzati come animali.

Il quinto dice non devi rubare
e forse io l'ho rispettato
vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie
di quelli che avevan rubato:

ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.
Ma io, senza legge, rubai in nome mio,
quegli altri nel nome di Dio.

Non commettere atti che non siano puri
cioè non disperdere il seme.
Feconda una donna ogni volta che l'ami
così sarai uomo di fede:

Poi la voglia svanisce e il figlio rimane
e tanti ne uccide la fame.
Io, forse, ho confuso il piacere e l'amore:
ma non ho creato dolore.

Il settimo dice non ammazzare
se del cielo vuoi essere degno.
Guardatela oggi, questa legge di Dio,
tre volte inchiodata nel legno:

guardate la fine di quel nazzareno
e un ladro non muore di meno.
Guardate la fine di quel nazzareno
e un ladro non muore di meno.

Non dire falsa testimonianza
e aiutali a uccidere un uomo.
Lo sanno a memoria il diritto divino,
e scordano sempre il perdono:

ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.
Ho spergiurato su Dio e sul mio onore
e no, non ne provo dolore.

Non desiderare la roba degli altri
non desiderarne la sposa.
Ditelo a quelli, chiedetelo ai pochi
che hanno una donna e qualcosa:

nei letti degli altri già caldi d'amore
non ho provato dolore.
L'invidia di ieri non è già finita:
stasera vi invidio la vita.

Ma adesso che viene la sera ed il buio
mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune
a violentare altre notti:

io nel vedere quest'uomo che muore,
madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore,
madre, ho imparato l'amore".


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