Nick: alfonso77 Oggetto: Quando penso a Napoli Data: 21/11/2005 12.15.59 Visite: 164
Quando penso a Napoli, vedo una vecchia seduta all’incrocio di due strade strette che salgono al cielo. La donna e’ minuta. Il suo viso e’ rugoso, i suoi occhi brillano di intelligenza e di malizia. Vende qualcosa, forse delle sigarette americane o dei biglietti della lotteria nazionale. Sulla testa, un fazzoletto nero. Posato accanto a lei, un vecchio giornale. Non parla a nessuno, ma osserva tutto cio’ che si muove. Quando penso a Napoli d’estate, vedo dei giovani sposi posare per il fotografo su un grosso scoglio del lungomare. La loro immagine deve stagliarsi netta sullo sfondo brumoso della citta’. Una parte di Napoli si nasconde e soffoca i rumori che se ne vanno in fumo. Napoli non si agita mai. Sa tenere testa a qualsiasi cosa tenti di trarla fuori dalla sua follia. Quando penso a Napoli d’inverno, vedo un mercato troppo illuminato di sera, dove la merce si accumula sui marciapiedi, dove tutto e’ ricoperto di zucchero, i colori sono chiassiosi e gli odori forti. Tutto e’ esagerato, le facce e le grida, le mani e le luci, la corpulenza e il ricordo. L’ultima notte dell’anno, il cielo e’ occupato da fuochi di ogni colore. Tutto e’ illusione, scintille, stelle sparpagliate sul bordo delle nuvole di passaggio sulla via del Nord. Quando penso a Napoli in un giorno preso a caso, vedo la stazione ferroviaria che ha qualcosa in piu’, un supplemento di vita piuttosto ingombro di bisogni e di carenze. Quelli che si fanno avanti martellando la strada con le loro calzature dalle suole ritagliate da pneumatici logori, quelli che guardano la citta’ aprirsi al loro passaggio non escono da un incubo lontano. Vengono dall’Africa con le borse piene di sabbia e le valigie piene di carte geografiche e di libri di storia, i bauli pieni di racconti e di favole. Vengono dall’altra sponda del mare, dentro bottiglie gigantesche gettate dagli antenati. I loro volti hanno un secolo in piu’. Le loro mani sono lunghe e pesanti. La stazione e’ la loro patria. Napoli, il desiderio e l’oblio. Quando penso a Napoli in una notte d’insonnia, vedo strade strette e topi che corrono dietro a bambini nudi. Vedo una collina scendere verso il porto e scaricare vecchie pietre. Vedo un bastimento di luce allontanarsi verso le isole. Sento il rumore di una carrozza d’oro tirata da quattro cavalli arabi. Trasporta D’Annunzio che ha appuntamento con una donna infedele. Vedo Vittorio De Sica camminare in punta di piedi sul lungomare. Delle attrici infagottate nei loro scialli lo inseguono. Sento scendere il rumore della notte come petali su terrazze dove si sono addormentate delle giovani donne. Leggo nel cielo il messaggio degli angeli che si sono appena allontanati da un funerale. Hanno lasciato in citta’ fuochi mal estinti e la promessa di una vendetta per domenica all’ora della messa nella chiesa dell’Annunziata. Vedo il biancore della mia notte che mi abbandona lentamente per andarsi a posare sulle alture della citta’ come un sudario che copre ricordi spezzati. Sento il freddo conquistare i miei piedi, poi le braccia. Mi copro. Mi raggomitolo. L’insonnia se n’e’ andata. Oggi posso dormire e persino sognare Napoli. Sognare Napoli. Sembra un’impazienza amorosa. Aspetto. Sono in una stazione o in un porto. Andro’ a Napoli soltanto per mare. Aspetto. Non so cosa. Napoli mi riempie delle sue immagini caotiche. Le mie valigie sono sulla banchina. Tutti salgono sulla nave tranne me. Qualcosa mi trattiene. Le mie valigie sono state inghiottite per meta’ dal cemento fresco. I piedi sono come incollati al suolo. Cerco di chiamare aiuto. Nessuno mi sente ne’ mi vede. La nave lascia lentamente il porto. Delle mani si agitano. Napoli e’ alla fine del viaggio, ma io sono condannato a sognarla, inchiodato qui per l’eternita’, su questo molo che non esiste. Vedere Napoli nel tumulto dell’amore, negli occhi dell’amore dove il mare scintilla sotto il sole freddo della primavera tardiva. Vedere Napoli nella foschia del mattino, quando l’orizzonte e’ assorbito dalla prossimita’ del cielo. Si indovinano le isole e gli occhi seguono le scie delle imbarcazioni che si perdono nella luce infinita, lasciando la citta’ al crepitio dei suoi rumori. Mi hanno detto che gli alberghi tra la stazione centrale e il porto hanno nomi che ingannano: l’Eden, la Pace e – perche’ no? – l’Amore. Solo l’eterno, l’inevitabile, l’incredibile Hotel Terminus conserva preziosamente tra le sue mura tutto cio’ che fa la sua sinistra reputazione. Il lugubre e’ nelle tappezzerie. La meschinita’ nel soffitto cosi’ basso. La crudelta’ sta nei fiori di plastica. Il sordido sta nel corridoio mal illuminato e nello sguardo cupido del cameriere di piano che si rade un giorno si’ ed un giorno no. Pare che anche Napoli abbia il suo Hotel Terminus, la’ dove termina il viaggio, la’ dove finisce il sogno, la’ dove non arriva il mare, dove i suoi odori vengono catturati dalla puzza del ventre grasso di Napoli. Perche’ Napoli ha due ventri. Quello sano e’ da un’altra parte.
|