Nick: P_Escobar Oggetto: ULTIMA CHANCE Data: 5/10/2003 22.46.59 Visite: 136
racconto lungo, già postato, nun cacat o cazz se vi scocciate non leggete. Mi sveglio insolitamente presto stamattina dopo una notte di sonno agitato. E’ il grande giorno. Mi tiro fuori dal letto, infilo rapidamente la doccia e in tempi straordinariamente brevi per le mie abitudini sono sulla porta di casa. Di solito fra il momento in cui apro gli occhi e quello in cui mi restituisco alla vita, passano almeno un paio d’ore. E’ la naturale tendenza all’ozio e insieme il rifiuto dell’idea di produttività. Mi piace starmene sdraiato senza fare niente, ma stamattina ho un impegno speciale, un appuntamento senza possibilità di replica. Se non faccio l’esame, Storia della Filosofia, perdo gli altri venti sostenuti oltre otto anni fa e sul muro invece della laurea faccio prima a metterci un bel poster. Ho studiato pochissimo, tipo un giorno e mezzo, ma che cazzo, sono anni che macino qualsiasi pezzo di carta stampata mi capiti a tiro ed è venuto il momento di dimostrare a me stesso che non è stato tempo sprecato. Ce la farò, non mi ricacceranno indietro. Sfido qualsiasi professore borioso e assistente leccaculo a trovarmi impreparato. Ci provino a venire all’attacco, troveranno un campo minato e saranno solo cazzi loro. C’è un cinema nella mia testa e proiettano tutti i miei esami precedenti. Rivedo la mia cultura enciclopedica sapientemente miscelata a una buona dose di strafottenza, la dialettica fulminante, la capacità prodigiosa di saltare di palo in frasca qualunque fosse la domanda formulatami. Mi da forza. Però è anche vero che sono passati nove anni dal mio ultimo esame e non si può dire che li ho vissuti seguendo le più rigide norme salutiste. Chili e chili di coca hanno passeggiato allegramente fra i miei neuroni e nella battaglia un tot me li sono persi sicuramente per strada. Le tonnellate di fumo e erba, i barili di alcool che avevo ingurgitato erano stati letali per la mia memoria o sarei stato il pischello di sempre con solo qualche capello bianco e qualche ruga in più? Qualunque sarà la risposta tra poco saprò tutto. Il suono del citofono mi distoglie dai pensieri e mi rispedisce a calci in culo sul pianeta terra. - Si? - Oh, sei pronto? Vedi che fai tardi. Sono venuto in moto che facciamo prima e ci scansiamo tutto il traffico. La voce di Bidone, inconfondibile, mi scalda il cuore. Caro vecchio bastardo. Non sono solo. - Arrivo, sono pronto fratello. Raccolgo libri, libretto e statone e li infilo in uno zaino, chiudo la porta alle spalle e mi precipito giù per le scale. Arrivo in strada e mi accoglie un sorriso nervoso. Fa l’indifferente lo stronzo, il tipo che tiene la situazione perfettamente sotto controllo, ma è agitato più di me e si vede. - Oh, datti una calmata, vedi che l’esame lo devo fare io mica tu. Gli dico prendendolo per il culo. - Se se, lo dobbiamo fare tutti e io per primo, tu ci rappresenti baby. Comunque stai tranquillo gli spacchi il culo e tuo fratello Bidone sarà dietro di te a coprirti le spalle. Mi risponde con fierezza. Me lo ha detto ieri sera che mi avrebbe accompagnato e a nulla sono serviti i miei tentativi di fargli cambiare idea. Del resto era stato sempre così, non se n’era perso uno dei miei esami ed eravamo andati via sempre trionfanti, correndo subito a festeggiare per giorni e giorni il risultato acquisito e si sa, squadra che vince non si cambia. - Oh e cerca di non deludermi che sulla mia schedina ci ho messo un bel 2 base. E’ una nostra vecchia storia. L’università era fuori del nostro mondo e ogni esame superato una vittoria in trasferta. Io in campo e Bidone in curva. - Non preoccuparti il colpo è in canna e aspetta solo di essere sparato, non ti deluderò. Lo dico a lui, ma mi guardo idealmente allo specchio e lo dico anche a me stesso, simulo il tono più convincente del mondo. Attraversiamo mezza città, Bidone guida col suo inconfondibile stile. Rischiamo la vita un paio di volte, manda a fare in culo un cinquanta persone, equamente divisi fra pedoni e automobilisti, e in meno di mezz’ora siamo nel centro storico, di fronte il portone dell’università. Do un occhiata all’edificio ed è proprio come me lo ricordo. Uno splendido convento del seicento, due piani sovrapposti di loggioni che circondano un giardino quadrato dall’erba sempre verde. All’interno, invece i piani sono quattro, in seguito a ristrutturazioni moderne che hanno abbassato l’altezza dei soffitti. Faccio un lungo respiro e mi dico: vai! Sulla sinistra il gabbiotto del custode, chi sa se c’è ancora Don Lorenzo. Uno sguardo all’interno: c’è, ma non è in divisa sembra stia lì come al circolo. Faccio toc toc con le nocche sul vetro della porta ed entro. Si gira, resta immobile per un lungo istante e poi mi chiede lentamente: - Ma sei proprio tu? Lo stupore lo tiene inchiodato alla sedia, anche con lui l’effetto fantasma fa il suo dovere fino in fondo. - Eh si, sono proprio io. - Come stai, guagliò? - Sto bene Don Lorè, fresco e tosto come un bambino appena appena stagionato. - E che ci fai qua? Spera che la risposta sia quella, che il suo cuore attende. - Sono venuto a riprendere una laurea lasciata qui nove anni fa, spero ci sia ancora. - C’è: l’ho vista io di sopra proprio un paio di giorni fa e mannaggia a te che ci ha messo tanto tempo per venirla a prendere. - E tu zio ancora in servizio? Lo chiamo zio confidenzialmente, ma tra noi non c’è alcun legame di parentela. - Ma no, sono andato in pensione qualche anno fa, però che ci vuoi fare sono affezionato a questi sedici metri quadrati. Ci sono stato per quarant’anni e praticamente ci sto pure mo’, do una mano ad Armando che a volte perde un po’ la bussola in questo porto di mare. Lo sai, quello è ragazzo. Armando ha una cinquantina d’anni e per trenta è stato il suo vice. Ma pure ora che è custode capo non può fare a meno di fare si si con la testa. Vecchio bastardo cane di Pavlov penso e me la rido sotto il baffetto. Poi mi avvicino a Don Lorenzo e lo abbraccio fortissimo. Il vecchiaccio risponde, ma con una stretta forse meno vigorosa di un tempo. Gli anni passano per tutti e anche lui sperimenta la merdosa ineluttabilità della vecchiaia. Lo sguardo però, è quello di sempre, è sempre Lupo, il vecchio partigiano comunista che ha fatto piangere merda acida a tedeschi e fascisti. Sono felice, gli voglio molto bene. L’ho conosciuto durante l’occupazione della Pantera. Prima all’università andavo solo a fare gli esami. Avevo cominciato all’inizio a seguire anche i corsi, ma quel mondo mi era sempre apparso ostile e distante. Non ne capivo il meccanismo e dal mio liceo di periferia non era arrivato nessuno a farmi compagnia. I pochi che avevano scelto di continuare gli studi si erano indirizzati verso facoltà con maggiori sbocchi occupazionali. Su tutte: ingegneria ed economia e commercio. D’altronde era un liceo scientifico e la mia scelta di iscrivermi a lettere era apparsa ai più come una scelta bizzarra. La maggior parte degli studenti poi, erano figli di professori, gente laureata, non avevano nessuna difficoltà, per loro era perfettamente naturale il passaggio dalle superiori all’Università, come il giorno si alterna alla notte. Non avevano nessuna voglia di mettere quelli come me in condizioni più favorevoli, tutti impegnati com’erano a farsi le scarpe a vicenda. Poi venne la pantera e scoprii che non ero il solo ad avvertire quel senso di disagio. Ero a Palermo, in visita a una delle mie innumerevoli fidanzate e lì cazzeggiando per le facoltà occupate mi resi conto che qualcosa di grosso stava bollendo nella classica pentola. Era tutto occupato da più di un mese e quando dico tutto intendo qualsiasi buco che avesse in qualche modo a che fare con l’Università. Tornai a casa e pensai di fare un giro in facoltà per vedere se anche da noi stesse accadendo qualcosa di simile. Non misi nemmeno piede in aula magna, dove si tenevano le assemblee e fui travolto da un urlo: OCCUPAZIONE,OCCUPAZIONE, OCCUPAZIO-NE. Bei ricordi, ma non sono qui per nostalgiche rievocazioni, ho una missione da compiere, do un bacio sulla guancia a Don Lorenzo promettendogli di ripassare dopo l’esame. Bidone, parcheggiata la moto, mi raggiunge quando ho già imboccato l’ingresso della scala C. - Hai visto don Lorenzo? - L’ho visto e mi ha pure guardato storto, lo sai pensa che ti porto sulla cattiva strada. - E perché non ha ragione stronzone? Gli rido in faccia, perché so che la cosa lo fa incazzare e mi diverte. - Comunque, seriamente: non pigliare queste fissazioni. Lo sai che ti vuole bene. - Beh, non dico che il vecchio mi odia però sei sempre stato tu il suo cocco, Stalin bello. Con un soprannome come quello che ti ritrovi non poteva che essere così. Non ha torto. Una volta mi aveva detto che Bidone gli suscitava dei sentimenti contrastanti. Fin dalla prima volta che lo aveva visto aveva pensato che la sua forza e le sue qualità fossero sprecate. Ne aveva visti tanti come lui, pieni di rabbia da far scoppiare il mondo e invece capaci al massimo di aspettare le vecchiette fuori dagli uffici postali, a combattere una stupida guerra di retroguardia. Se avesse avuto una macchina del tempo lo avrebbe portato con se in montagna più di cinquant’anni prima, con i ragazzi della brigata e le scarpe rotte quando fischia il vento. Tirandogli le orecchie gli avrebbe insegnato a indirizzare il suo odio verso i bersagli giusti e sarebbero stati solo i porci a cadere. Ma non sono più i tempi e quel ragazzo è andato, stagli vicino e cerca di limitare i danni. Aveva concluso. - Oh Bidò, ti ricordi quella volta con i frikkettoni? - E come cazzo me lo posso dimenticare, ci abbiamo riso su per mesi. Era andata così: c’era un gruppetto di questi merdosi neo-hippy che alle 5 di mattina continuava a rompere i coglioni con i loro bonghi. E come pestavano i capelloni su quelle pelli puzzolenti. A vederli non avresti mai detto che erano i figli delle famiglie bene della città, sembravano un branco di straccioni allergici all’acqua. Invece avevano le ville, la servitù filippina, le case in costiera, perché ogni tanto bisogna pure divertirsi. Per il momento si mettevano degli orribili vestiti multicolori comprati ai mercatini dell’usato, con osceno corredo di collanine, barbe, capelli inzozzati che loro chiamavano dreadlocks. Ma tempo qualche anno e il loro patrimonio genetico avrebbe fatto il suo lavoro, si sarebbero ritrovati nei posti giusti, ripuliti, nei consigli d’amministrazione e dietro le cattedre universitarie. I più creativi ci avrebbero ammorbato con degli inverosimili spot pubblicitari, nei quali avrebbero magnificato tutto quello su cui avevano sputato per un breve periodo ribelle della loro stronza vita. Don Lorenzo, in qualità di custode, aveva un’appartamento al piano terra dove viveva con la sua famiglia. Quella notte la sua testaccia pelata aveva già fatto capolino un paio di volte invitando i coglioni stesi sull’erba a smetterla che voleva dormire, ma le sue parole non avevano ottenuto effetto. All’ennesimo bombardamento di decibel reagì alla vecchia maniera. Aprì la porta, si diresse verso il branco di bestie, sbandierando una copia dell’unità del 1956, tutta ingiallita. A caratteri cubitali si leggeva chiaramente: E’ MORTO STALIN. - Lo vedete questo? Indicando la foto in prima. - Se fosse vivo vi butterebbe in una bella vasca piena di creolina, vi toglierebbe le pulci una ad una e vi manderebbe a fare dieci anni di villeggiatura al gelo siberiano. Lui purtroppo è morto, ma io sono ancora vivo e sto per darvi la lezione che meritate. Afferrò uno dei frikkettoni per un orecchio e cominciò a tirarlo fuori dal prato. Il piccolo bastardo urlava, strappato dal suo mondo magico di cylum e pidocchi, si sentiva in pericolo. - Vi sto dicendo da ore di piantarla di rompere il cazzo, ma voi niente, volete fare i ribelli e non trovate di meglio che impedire a uno che lavora di farsi le sue ore di sonno. Ma ora basta, la democrazia è finita. - Mi lasci, non può fare così, sono il figlio dell’ingegner Caputo, mio padre gliela farà pagare. Lo conosce vero? Sa chi è la famiglia Caputo? Fino a un attimo prima avrebbe sparso merda sulle convenzioni borghesi con il suo accento nasale da fighetto, ora piccolo, piccolo si rifugiava dietro il blasone di famiglia e questo faceva di lui veramente un miserabile. - Tuo padre non lo conosco, ma mi ricordo di quel vecchio fascistone di tuo Nonno. Se è vivo, diglielo a quel pezzo di merda: Lupo è ancora qui, può fare un salto quando vuole, lui o qualche leccaculo prezzolato e questa volta non ci sarà nessun Togliatti a salvargli il culo. Detto questo gli rifilò un calcio e mollò la presa. Il figlio dell’India scappò via velocemente, ma sfortunatamente non c’erano cronometristi quella sera in giro e così il suo record mondiale sui cento metri non potè essere omologato. Da allora sarebbe stato per noi Mennea, invincibile velocista della Virtus Coniglio. Gli altri si accodarono come un branco di jene vigliacche. Noi eravamo in aula magna a farci un paio di canne tranquille nel bel mezzo di un interscazzi. L’ululato del lupo risuonò minaccioso nel silenzio della notte, ingigantito dall’eco che sballottava la sua voce per tutti i lati della facoltà. Sembrava fosse ovunque…brrr paura. Ci affacciamo giusto in tempo per assistere alle ultime battute e all’epilogo finale. Un lungo applauso e un prolungato coro: LUPO, LUPO, LUPO vennero fuori spontanei, accompagnati da urla d’incitamento e fragorose risate. Rivolse il capo verso di noi. - Voi da lassù smettetela che salgo e vi do quello che non ho dato a loro. E tu Vladimir ancora a farti le canne a quest’ora? Vai a dormire che i controccupanti domani arrivano presto e non voglio fare io quello che dovete fare voi. Giuro che se domani mattina sono ancora una volta da solo qua sotto il portone lo apro. Faccio il custode non lo dimenticare. Qualche ora dopo si sarebbe svegliato, ci avrebbe visti ronfare alla grande sparsi per la facoltà e avrebbe lasciato il portone rigorosamente chiuso. Non si sarebbe mai assunta la responsabilità di creare problemi di ordine pubblico e probabili scontri fra gli studenti. Come disse una volta a un funzionario della Digos. Più semplicemente era con noi, odiava quei borghesi puzza al naso che volevano a tutti i costi cacciarci dall’università a colpi di tasse spropositate e libri costosissimi, chiamandola selezione naturale. Solo che era un gioco truccato e noi correvamo con la palla al piede. Ma in quel momento era incazzato e mi limitai a rispondergli. - Va bene zio Lupo ce ne torniamo di là a farci i cazzi nostri e filiamo subito a nanna. Ah la diplomazia. L’ascensore intanto è arrivato al terzo piano, il mio. Giusto in tempo per vedere proprio quel frikkettone centometrista fare l’appello per l’esame. - Oh, Bidone hai visto chi c’è? - Non è possibile Mennea. E ride sguaitamente. - Speriamo che non me lo becco io quel testa di cazzo, lo schifo, mi fa il sangue amaro solo a guardarlo. - Fratello c’è una divisione corazzata dietro di te tranquillo. E solleva la maglietta per mostrarmi il noto profilo della vecchia Tina infilata nei pantaloni. - Se solo osa mancare di rispetto a mio fratello, giuro che lo ammazzo qua dentro, gli sparo dritto in testa e così vediamo se i pidocchi se li è tolti oppure se li ha semplicemente nascosti fra la merda che ha nel cervello. Mi fa andare su tutte le furie, è venuto a prendermi nel mio ultimo giorno disponibile, armato. Se solo una cazzo di pattuglia sbirra c’avesse fermato avrebbe mandato tutto a puttane. - Ma allora sei veramente una testa di stracazzo. Ti rendi conto che se ci beccavano era finita? Non è per la galera in se che può pure capitare, ma non oggi secchio di merda, non nel giorno più importante della mia vita. Se fosse accaduto qualcosa ti avrei ammazzato io bastardo di un trippone. Ride sguaiatamente, come un vecchio porco. - Bravo, così voglio vederti fratello: rabbia e classe, miscela esplosiva. Sei carico e pronto al massacro, vai fuori e falli fuori. Mi afferra la testa e mi da un grosso bacio in fronte, che buffone testa di cazzo, riesce persino a farmi ridere. - E poi pure se ci fermavano ci dovevano sempre prendere e lo sai che il fratello tuo Bidone è un cazzo di Valentino Rossi sulle due ruote. Non è nato ancora lo sbirro che mi sta dietro, ne devono mangiare di merda quei decerebrati del cazzo. Ce la saremmo filata senza problemi, anzi saresti arrivato qui ancora più in fretta. Mentre ascolto le amenità di Bidone, indeciso se rompergli il culo o farmi semplicemente una risata, sento pronunciare il mio nome. Mi giro e chi ti vedo? Proprio il buon Mennea, mollo il ciccione e vado a sedermi con aria di sfida giusto di fronte al testa di cazzo. Ha una stanzetta tutta sua, dove può interrogare con calma le ragazzine impaurite, che sono sempre state la stragrande maggioranza in facoltà. Bidone si piazza alle mie spalle, qualche metro dietro, giusto sull’uscio della porta a precludere ogni possibilità di fuga, a meno che a l coglione non gli spuntano due belle ali. Lo vedo chiaramente riflesso negli occhiali Valentino, con montatura di tartaruga dell’ex frikkettone. La sua presenza è rassicurante, ma allo stesso tempo la sua aria da mafioso di periferia mi urta. Faccio uno sforzo e lo dimentico, guardo oltre le lenti degli occhiali. E bravo Mennea è diventato assistente, penso e senza dubbio il titolare della cattedra deve essere un vecchio amico di papà. Guarda il mio libretto, legge il nome e ributta giù gli occhi sulla fotografia. Ecco un altro che ha visto il fantasma, questa storia mi sta già sulle palle. - Vladimir, ma sei tu? - E certo che sono io chi pensavi che fossi? Alza lo sguardo sopra la mia testa e vede Bidone. Deglutisce a fatica, siamo proprio noi, la conferma non potrebbe essere più lampante. Ha la possibilità di vendicarsi di tutte le parole e non solo che gli avevamo vomitato addosso per anni. Per un istante la sua mente accarezza idee strane e come gli piacerebbe ora che era diventato il Professor Caputo. Ma contemporaneamente Bidone, gli legge nel pensiero e accarezza Tina, stringendo la maglietta in modo che il rigonfiamento che s’intravede assuma un aspetto inequivocabile. E’ sufficiente, quell’idea folle di rimandarmi a calci in culo nel ghetto sgombera dalla sua mente alla stessa velocità con la quale era scappato di fronte a Don Lorenzo. E’ il solito vecchio Mennea, un campione dello scatto e della tenuta atletica e il suo primato, stabilito ufficiosamente quella notte tanti anni prima, avrebbe resistito ancora a lungo. Certo può interrompere l’esame, chiamare la vigilanza, la polizia, le squadre speciali dell’esercito. Sono tutti dalla sua parte, è l’esimio Professor Caputo. Ma chi gli avrebbe assicurato che sarebbero stati più veloci di Tina? Noi saremmo stati blindati e seppelliti in galera, è vero, ma lui ne avrebbe gioito? La sua espressione dice di no. E’ difficile gioire quando sei due metri sotto terra e i vermi pasteggiano allegramente con quel che resta della tua carne. No, no, non ci pensa nemmeno e assume il più mite dei toni quando mi dice tutto cacato: - Sono contento che tu abbia deciso di completare gli studi, eri molto bravo e pur se abbiamo avuto qualche screzio, ti ho sempre stimato molto. - Io invece non ti ho mai stimato, per niente. Rispondo di getto, con rabbia. - Rappresenti tutto quello che ho sempre odiato e se un tot di anni fa potevo avere dei dubbi, vedendoti oggi tutto ripulito e incravattato è tutto chiaro. Siete dei privilegiati, dei fottuti predestinati, solo che il vostro Paradiso è in terra e ve lo godete alla faccia nostra. Dove sono finiti i capelli? E quel dannato bongo di merda che ti portavi sempre dietro, lo hai venduto o qualcuno si è rotto i coglioni di sentirti e te lo ha frantumato in testa? E questo Armani da 2.500 euro che ti sei messo addosso cos’è, la nuova moda hippy? Comunque, basta con questa pagliacciata comincia l’esame e finiamola qui. Ha uno scatto, forse un sussulto d’orgoglio e sta per dirmi qualcosa di veramente pericoloso, ma dura un attimo, il tempo che lo sguardo schizzato di Bidone gli si appiccica addosso e gli fa sentire la puzza di morte. Del resto, non ci ha sentito nessuno, la sua reputazione è salva e il suo unico desiderio è finire rapidamente quella cosa che sta prendendo una gran brutta piega. Si concentra sugli agi che la sua condizione gli permette. Pensa alle partite di tennis, alle vacanze sabbatiche, ai week end in barca, ai milioni facili a fine mese senza fare un cazzo. Una misera soddisfazione merita il sacrificio di tutto questo? Fra un istante l’accaduto apparterrà al passato e riprende il controllo, pensa alla più facile delle domande che mi può fare, una alla quale devo saper rispondere per forza e con la voce di un pulcino mi dice semplicemente: - Parliamo di Marx? Scandaloso. Di Marx avevo letto praticamente tutto e lui lo sapeva benissimo. Se mi avesse chiesto, che so, di un Kant o Spinoza chi sa quale sarebbe stato l’esito. Ma grazie alla codardia di Mennea un minuto dopo il mio esame è finito: trenta. Firma libretto e camicia, tutto felice di togliermi dai coglioni, mentre una bella biondina maggiorata, con scollatura esagerata e mini ascellare, si siede al posto mio. E’ sicuramente una del seminario, è di casa, la vedo intima col Mennea. - Nella tana del lupo ci vieni vestita così cappuccetto rosso? Lei mi guarda inorridita, ma fa finta di non capire, poi cerca con lo sguardo sdegnato e solidale quello che una volta fu un figlio dei fiori. - Cosa non fa certa gente per un esame e una scopata. Siete proprio della stessa pasta. Li guardo con disprezzo e me ne vado. - Sei stato grande fratello. Fa Bidone. - E tu sei sempre il solito stronzo. Fingendo di essere ancora incazzato per prima. Ma quello stronzo mi ha salvato il culo, una volta ancora. - Oh bella quella di cappuccetto rosso, già che avevo portato Tina potevo fare io il cacciatore. E ride AH, AH, AH. Inguaribile.
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