Nick: Cioccolata Oggetto: Robbie......... Data: 20/2/2006 20.50.25 Visite: 164
Robbie Williams è un artista. In mezzo al blaterare su effimeri nuovi idoli del rock, lolite pop in erba (rasata) e tante mode musicali che continuano ad accavallarsi spazzando regolarmente personaggi fedeli al cliché dettato da Andy Warhol sui famosi 15 minuti di celebrità, il buon Robbie resta un fenomeno mediatico a sé stante, un orgoglio tutto europeo per nulla conforme agli stereotipi dei divi dell’R’n’B/hip hop americano o delle boy band travestite da gruppacci neo-metal. Eh sì, perché il quarto d’ora di celebrità per Williams dura ormai da 10 anni, e lo stesso fatto di essere stato l’unico a reinventarsi una carriera e una credibilità dopo aver frequentato una delle band per teenagers più famose e criticate dalla stampa, è con il passare del tempo divenuto un punto di forza che acquista una rilevanza e uno spessore maggiore album dopo album. Robbie Williams è un artista, un grande artista: ha fatto di sé stesso un’arte, nel bene e nel male. Ha reso la sua vita privata un avvincente e inesorabile "ritratto di Dorian Gray" , testimoniato dalle sue canzoni più smaccatamente autobiografiche, ha voluto impersonare mille identità (e non esattamente le più comode, da Frank Sinatra a Freddie Mercury toccando più generi musicali possibile) senza mai vincere a pieni punti ma senza neanche dover scappare con la coda tra le gambe, forte di una delle poche personalità realmente "genuine" e autenticamente irriverenti dello statico e puzzolente showbiz di questi deprimenti anni. Da quando lasciò i Take That, Robbie Williams ha attraversato diverse crisi personali e diversi scandali che in certi frangenti avrebbero potuto minare fatalmente la sua carriera solista: eppure in un decennio ha tirato fuori dal cilindro 5 album solisti, un "Live At Knewborth" davanti a 250.000 inglesi urlanti, un coraggioso disco di cover di "evergreen" degli anni ’50 e un vendutissimo Greatest Hits. Difficile fare meglio, no? E invece l’impressione che si ha a un primo ascolto di "Intensive Care" (titolo che sembra tutto un programma, e a leggere diversi testi ha un valore piuttosto indicativo) è che l’ormai trentenne Williams stia attraversando un periodo sicuramente non facile, ma che potrebbe portare grandi risultati dal punto di vista strettamente musicale: già il precedente "Escapology" del 2002 aveva rappresentato un punto di svolta dal pop laccato e ammiccante degli esordi verso soluzioni stilistiche decisamente più "mature", ma con l’addio del fidato Guy Chambers le cose sembrano davvero cambiate. Infatti l’ingresso nella "scuderia Williams" di Stephen "Tin Tin" Duffy (un nome celebre per gli appassionati di pop inglese, un raffinato songwriter di culto, fondatore dei Duran Duran e voce dei Lilac Time, che non ha mai avuto il successo che avrebbe meritato) ha portato dei cambiamenti quasi radicali nella struttura delle canzoni: il singolo "Tripping" con il suo evocare irresistibilmente il reggae bianco dei Clash e dei Specials in un crescendo culminato da un finale tipicamente anni ’80, ne è un esempio. Gli arrangiamenti, ovviamente, sono impeccabili, la maggior parte dei brani necessita forse qualche ascolto in più rispetto al passato, ma stiamo comunque parlando di altissimo adult pop, in cui Williams si mette letteralmente "a nudo" con testi quasi imbarazzanti per la loro franchezza (il punkpop di "Your Gay Friend", possibile singolo, e l’amara ballad finale "King Of Bloke & Bird" che Robbie si rifiuta di cantare dal vivo in quanto "troppo dolorosa"). Robbie Williams, da frontman navigato e da crooner moderno quale è, si permette di omaggiare (in modo personalissimo) indistintamente e senza far gridare alla bestemmia degli autentici mostri sacri del rock: Williams diventa David Bowie nella toccante "The Trouble With Me", Morrissey in "Spread Your Wings" (su una trama melodica che ricorda moltissimo "Girlfriend In A Coma" degli Smiths), Mick Jagger in "A Place To Crash" (con un gran bel riff à la Keith Richards), Paddy McAloon dei Prefab Sprout in "Please Don’t Die" e persino Leonard Cohen e Neil Young. Eppure, "Intensive Care" è Robbie Williams al 100%, in tutto il suo istrionismo: certo, l’apporto di Stephen Duffy si sente eccome, e basta sentire brani come l’iniziale "Ghosts" e "Sin Sin Sin", debitori di quelle uggiose e malinconiche band britanniche degli anni ’80 (Waterboys, Deacon Blue, Aztec Camera) di cui lo stesso Tin Tin fece parte, per trovare un’altra chiave di questo lavoro, cioè il richiamarsi di Williams all’ età dell’adolescenza, irrimediabilmente persa tra i ricordi che si susseguono senza soluzione di continuità (in particolar modo rispetto alla sua vertiginosa vicenda personale). Da tutta questa serie di considerazioni arrivo dunque a giudicare questo album come un prodotto decisamente onesto, con belle canzoni, e interessantissimo sotto diversi punti di vista, non solo da un punto di vista musicale: il limite di Williams è sempre stato quello di tentare di accontentare più gusti possibili, stavolta l’impressione è che abbia voluto accontentare esclusivamente il suo, e va bene, benissimo, così. stefy |