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Nick: MarccoPol
Oggetto: DUE DI LORO
Data: 2/3/2006 13.29.45
Visite: 176

Non voglio utilizzare termini come: " IDIOTI, INCAPACI, SCORRETTI, DELINQUENTI, LOBBISTI, CAGASOTTO, "DI MERDA", perchè non è mio stile (a differenza di qualcuno qui sopra che le spara tutte quante, pur di offendere), mi va giusto di fare un po' di "contro-informazione":

Il Messaggero Veneto, 21 agosto 2001

BOLOGNA. «Forse lo fanno per far arrivare soldi nelle casse del partito. O forse no, chissà...». Tolomeo Bersano ha passato una vita alla mensa dell'Atc di via San Felice, l'azienda dei trasporti metropolitani di Bologna. Perché l'Atc ha finito per diventare una Casa del popolo come le altre, dove il tempo del dopolavoro si suddivide in quattro lotti: le bocce, le carte, la tombola e, naturalmente, il partito, prima quello comunista, poi il Pds, oggi i Ds, domani non si sa. Ma adesso che l'ex mensa è candidata a diventare una sala per il bingo, qualcosa nell'orizzonte di Bersano si è messo a soqquadro, il mondo si è rovesciato, come in quelle miniature medievali dove i papi hanno orecchie d'asino e i cinghiali dettano la dottrina. C'è un po' di nervosismo sotto le due torri. Per lo meno da quando è partita la corsa alle 7 sale da bingo che spettano a Bologna delle 31 assegnate all'Emilia Romagna. Una torta ricchissima, con 420 concessioni di Stato per altrettante sale da 1000 metri quadri, ciascuna delle quali promette di rendere dai 70 a 150 miliardi l'anno, con un fatturato complessivo di 3.500 miliardi annui. Che c'è di così strano? Lo Stato gestisce e concede da sempre l'appalto del gioco d'azzardo. Già, ma questa storia è un po' speciale e vale la pena di raccontarla, perché i protagonisti, a Bologna, ma anche altrove, sono i compagni diessini. Sono loro, prevalentemente che stanno trafficando alacremente attorno al business del bingo. E sempre loro che litigano, si dividono lotti e competenze, rigorosamente rispettosi di un loro manuale Cencelli, che assegna un tanto al correntone veltroniano, un tanto a quello di D'Alema. Come dice qualcuno, «una vicenda di lotto e di governo». Tutto regolare, diciamolo subito. Concorrere all'asta per il bingo di Stato, gestirlo, allestire sale è perfettamente legale. E' solo curioso come ci si è arrivati. Tutto comincia con il congedo di D'Alema da Palazzo Chigi e l'uscita di scena dei D'Alema boys, i suoi fidi consiglieri e manager. Loro, solo apparentemente disoccupati, sanno per tempo che l'Italia si appresta a dare il nulla osta all'introduzione del bingo, che in Spagna e in Gran Bretagna va fortissimo. E allora ci si buttano. Nell'estate del 1999 nasce una società di nome Formula Bingo, per metà posseduta da una banca, la London Court, a sua volta guidata da un vecchio amico di D'Alema, Roberto De Santis. Così amico che è stato lui a cedere al leader diessino la fin troppo nota barca Ikarus. Ma la London Court ha un altro azionista al 50%, la Chance Mode Italia, il cui patron è un altro amico di D'Alema, quel Luciano Consoli - già militante del Pci sezione Trastevere - che è stato editore della Voce di Montanelli (quotidiano, come si ricorderà, di breve vita) e quindi di Liberal (periodico che ha chiuso i battenti qualche mese fa), oggi membro del cda del Poligrafico dello Stato. Formula Bingo alloggia in via San Nicola de' Cesarini a Roma al numero 3. Un indirizzo importante, affollato di vip, questo numero 3: allo stesso numero civico c'è la sede della Fondazione Italianieuropei (il think tank creato da D'Alema dopo l'uscita di scena dal governo) e ci sono anche gli uffici dell'Unità on line e pure quelli del costruttore Alfio Marchini (amico di D'Alema e a suo tempo candidato a rilevare l'agonizzante Unità). Fine? No: sempre lì ci sono gli uffici di Reti, la società di consulenza fondata da Claudio Velardi, Antonio Napoli e Massimo Micucci, tutti ex D'Alema boys. E' qui che - mentre l'allora presidente del Consiglio D'Alema promette agli italiani una legge per arginare la piaga dei video-poker - questi bravi ragazzi progettano di mettere le mani su una buona fetta del bingo di Stato assicurandosi un certo numero di sale. Finché un giorno ci si mette di traverso Francesco Cossiga, ironizzando sulla London Court e sulle sue mire. Scottati, gli uomini del bingo fanno brusca marcia indietro e cambiano strategia: fondano la Formula Bingo Service, società che offrirà le sale bingo chiavi in mano a chi si aggiudicherà gli appalti. Il terziario avanzato, per capirci, con un sensibile allargamento ad altri partner. E una ciliegina sulla torta: il presidente della società è Vincenzo Scotti, ma sì, proprio lui, l'inossidabile ex Dc, oggi presidente della Link University di Malta. Torniamo a Bologna. Perché qui la strategia è di nuovo ribaltata. C'è un certo Fabio Querci, giovane consigliere di zona diessino, che sta cercando di selezionare le più promettenti sale da bingo della città. Lui lavora per conto della Playservice, società emanazione di altre tre società, ma - vox populi - di stretta osservanza veltroniana. La Playservice, comunque, fa capo ad Alfredo Medici, tesoriere (o ex, come si vedrà) della federazione diessina di Reggio Emilia. Tra Playservice e Formula Bingo, i due poteri forti del fu Bottegone sono equamente rappresentati. «Non è assolutamente vero - proclamano alla segreteria cittadina di Bologna - perché al presunto business del bingo la nostra federazione è estranea. Inoltre, dice il tesoriere cittadino Mauro Roda, le nostre fonti di autofinanziamento sono circoscritte al tesseramento, alle sottoscrizioni liberali e alle feste dell'Unità e le dichiarazioni di Fabio Querci impegnano solo lui stesso». Diranno poi che quel Medici non è neanche più tesoriere. Tira brutta aria all'ombra delle Torri. Schiacciati fra l'intraprendenza dei reggiani e i grandi disegni dei romani, i bolognesi si sentono stretti e senz'altro anche un po' incavolati, soprattutto in ciò che resta della base del partitone. «Lo so, chiudono le Case del popolo e aprono le sale da bingo», ammettono all'Atc. «Cosa vogliamo farci?». Ma c'è anche chi gongola: in un'agenzia immobiliare di via dell'Indipendenza stanno già ritoccando verso l'alto i prezzi immobiliari. «E' l'effetto bingo, caro signore, lo sa quanti vengono a offrirci vecchi cinema, sale da ballo, antiche bocciofile sperando che qualcuno le trasformi in una sala da bingo? Perfino Cecchi Gori...». Arrendiamoci: avremo - per lo meno in Emilia - il bingo di lotta e di governo. O, come avrebbe detto Humphrey Bogart, «E' la new economy formato diessino, bellezze, e voi non potete farci nulla...»
http://www.sosazzardo.it/notizie2001/_notizie01_rovinafamiglie.htm


LA VERA STORIA DI PRODI: BIOGRAFIA NON AUTRORIZZATA

Ormai si avvicinano le primarie: il 16 ottobre è la data da tempo stabilita.
Ma anche la campagna elettorale per le elezioni politiche è da tempo iniziata: la scelta è semplice perché si è a favore o contro Romano Prodi.
In questa campagna pochi (forse nessuno) ci diranno chi è in realtà l’uomo Prodi.
Per questa ricostruzione di una personalità vorrei offrire una testimonianza: ho conosciuto e frequentato Romano Prodi dal 1967 al 1996.
È dunque una preistoria di Prodi che forse ci farà capire meglio il Prodi di oggi.
Ero membro e poi preside della facoltà di scienze politiche di Bologna. Un collega poi amico, Beniamino Andreatta, mi presentò
Prodi: lo aveva chiamato da Milano come suo assistente.
Prodi girava sempre con Paolo Onofri e Angelo Tantazzi, che poi fecero una più che meritata carriera. Io mi divertivo a chiamarli
senza cattiveria «i tre bassotti» di Andreatta. Prodi, con il suo viso rotondo dove c’era il sorriso, ma anche una ben controllata
mimica facciale, risultava a tutti assai simpatico. Voglio ora ricordare che Beniamino Andreatta ha dato sempre,
in privato e in pubblico, del lei a Romano, anche quando era ministro della Difesa e Prodi presidente del Consiglio. Me lo ha
confermato poco prima di essere colpito in aula da un ictus che lo ha portato a un grande sonno.
Vincitore del concorso a cattedra, Romano Prodi rimane sul piano accademico un isolato.
Ad una cena del Mulino in onore dell’economista Amartya Sen, Stefano Zamagni chiese a Prodi perché non avesse deciso
di accedere al Dipartimento di economia. La risposta fu dura: «Perché non avrei spazio», lasciando stupito anche Zamagni.
Così il solitario Prodi affittò alcune stanze (la grande sede di Nomisma è posteriore) dove aveva il suo spazio. Avendo un allievo,
Fabio Gobbo, decise di presentarsi come giudice a un concorso nel quale lo impose. Gobbo era un giovane serio, ma allora
non ancora scientificamente all’altezza di una cattedra: questo suscitò le violenti proteste di tutta la corporazione degli economisti.
Alberto Quadrio Curzio, futuro preside della facoltà, preferì mettere tutto a tacere.
Ma la carriera accademica di Romano Prodi era finita. E così preferì fondare un istituto privato di ricerca, come Nomisma, o incarichi tra l’economia e la politica come la presidenza dell’Iri.
La frequentazione con Prodi si diede anche nell’ambito della associazione di cultura e politica il Mulino, della quale entrambi
eravamo soci. Al Mulino talvolta si discuteva il modo con cui Prodi sceglieva i suoi collaboratori.
Fra i soci dell’associazione c’era Umberto Paniccia da tutti stimato per la sua serietà e il suo rigore morale. Dato che lavorava
all’Iri lo segnalammo a Prodi.
Incontrai Paniccia qualche tempo dopo e, interpellato, mi disse sinteticamente che aveva lasciato l’Iri. Nel contempo
Prodi a Roma si accompagna a Massimo Ponzellini, che fece una fulminante carriera: dal ’94 al 2002 infatti è stato vicepresidente della Bei, la Banca europea degli investimenti.
Forse Prodi amava i fedeli, seguaci ed obbedienti, come Riccardo Franco Levi, che alla televisione trottella sempre al suo fianco (un tempo si credeva un grande giornalista!). Oggi forse sono il solo in Italia a ritenere che Arturo Parisi non sia un fedele seguace di Romano.
Abbiamo lavorato tanto insieme per non apprezzare la sua intransigenza incapace di piccoli accorgimenti politici.
Per chiudere il capitolo dell’Iri rivelerò due episodi. Per caso ci incontrammo una volta sotto il portone di casa sua (avevo la
macchina posteggiata in un garage di fronte). Lo rimproverai amichevolmente per aver trattato male il mio amico Franco Cingano,
presidente della Banca Commerciale. Mi rispose con arroganza e con durezza percuotendosi il petto: «La Banca Commerciale
è mia», dimenticando che non era un proprietario, ma un semplice amministratore. Arrogante, ma anche in fondo pauroso.
Ritenendo di aver perso la fiducia di Ciriaco De Mita, segretario della «Democrazia cristiana, temeva di essere arrestato.
Alla fine del ’93, dopo dieci ore di interrogatorio da parte del viceprocuratore Antonio Di Pietro (oggi suo alleato!) corse a
chiedere consiglio a Filippo Mancuso, giudice alla Corte di Cassazione. Mancuso gli disse che un consiglio poteva chiederlo
a un avvocato e di ubbidire alla propria coscienza. Pauroso, ma anche vile: un anno e mezzo dopo, quando Mancuso perse i favori della sinistra, l’eroico Prodi lo definì un «cialtrone». Questo risulta dai giornali. Ma per una biografia di Romano Prodi bisognerà parlare di Nomisma e dell’Iri, due capitoli dei quali non posso dare una testimonianza diretta. Per chiudere torniamo al Mulino.
Tra il ’95 e il ’96 in vista delle elezioni Romano Prodi annunciò pubblicamente la sua candidatura:era un fatto del tutto
normale. Non fu certo normale quanto seguì: seppi che Romano Prodi aveva convocato a casa sua il presidente dell’associazione
il Mulino per protestare duramente contro gli articoli miei, di Angelo Panebianco e forse di Ernesto Galli Della Loggia.
Erano articoli pubblicati su diverse testate giornalistiche. Insomma: i soci dell’associazione dovevano fornire la base culturale
del suo partito. Un amico socio del Mulino (se la memoria non mi tradisce Michele Salvati) mi disse di stare attento perché
Romano era un essere vendicativo. L’avvertimento mi lasciò indifferente perché nel campo scientifico il potere di Prodi era
nullo e il Mulino avrebbe continuato a pubblicare i miei libri.
Mi è rimasta una curiosità. Se Massimo D’Alema voleva uno del Mulino, perché non puntare sul suo consigliere Nicola Rossi,
da tutti stimato per la sua preparazione e la sua autonomia scientifica? Prodi sull’economia sa solo recitare battute e su
questo giochiamo le prossime elezioni.

Nicola Matteucci

il Giornale 28 settembre 2005



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