Nick: Franti Oggetto: Archangel Blues Data: 16/6/2006 13.44.12 Visite: 90
Io non ho mai visto nessuno come mia madre. Se mi avessero detto che era un arcangelo e che mi trovavo in Paradiso, allora, ci avrei creduto. Non sembrava una donna, ma un arcangelo, così come io immaginavo un arcangelo. Una donna dall’irresistibile malia e dalla bellezza e dalla dolcezza che quasi disturbava. Attirava come il miele, ma diventava polline soltanto per me. Mia mamma morì in un ospedale di Brescia, a poco più di quarantacinque anni, per un cancro, il tredici di dicembre. Io avevo diciotto anni e mio fratello Rocco - che ha un nome bellissimo e che emana calore - quindici. Io ero partito dal mio paese, in auto, nel primo pomeriggio, sperando di salutarla. Ma non ci riuscii. L’arcangelo non mi salutò, prima di sparire. La notizia fu data a me, a Rocco e a mio padre da mio zio, sulle scale di casa sua. Io rimasi fermo. Rocco si chiuse in camera, forse a piangere. Ci recammo all’Obitorio dell’Ospedale, grazie alla raccomandazione del Primario. Era quasi mezzanotte e l’Obitoro era chiuso. Mi infastidì tantissimo l’idea di pensare a mia madre in un obitorio, nel quale potevo vederla e salutarla solo grazie alla spintarella di un Primario che si chiamava Piardi. La porta della camera mortuaria, dove c’era il mio arcangelo, era chiusa e non si sentiva nulla. Mio padre, come una pazzo furioso, cominciò a girare per medici, parlando ad alta voce. Per la prima volta lui non era rimasto indifferente verso un arcangelo. Forse aveva fatto veramente effetto un arcangelo sul letto di morte. Io non gli corsi dietro. Pensavo a mia mamma che era sparita all’improvviso, "a bell’e buon’", come dissi sulle scale dell’appartamento dei miei zii. Pensai, invece, di chiamare Rocco, rimasto fuori. Lo chiamai con dolcezza, ma avevo paura. "Vieni Rocco, mamma è qua". Avrei voluto chiedere perdono a Rocco, ma avevo dovuto farlo. Anche se Rocco già sapeva, non potevo non ridirglielo. Serviva un " appoggio" a lui e ne "serviva" uno a me. A me "serviva" Rocco e a Rocco "servivo" io. L’arcangelo non parlava più ed aveva gli occhi lividi e la pelle bianchissima e fredda. L’arcangelo se n’era andavo via. Sparito. A bell’e buono. Cambio storia, questa mi mette malinconia. Mi chiamò dopo mesi, dopo che era sparita, a bell’e buono, per via di un disguido che apparteneva solo a lei e non a me. Come se nulla fosse successo, cercai di parlargli di tutto e nulla, solo per var vedere che avevo argomenti su cui discorrere. Lei ascoltava senza troppa partecipazione. Cioè, voleva capire forse, ma tutti quei discorsi erano fuori dalla sua portata. Fuori dalla sua portata, per sua stessa volontà. E’ un problema generale con le donne. Esseri stupendi, nulla da dire, ma mai parlare e parlare al solo fine di argomentare senza giungere a conclusioni. Meglio fare e non fare tutto, ma tutto, tutto, ma mai parlare per parlare. K.O. tecnico. E al tappeto ci vai tu. Nonostante il quasi tappeto e con la consapevolezza che al tappeto ci sarei finito poco dopo, mi divertivo a parlare del tutto e del niente con lei. Certo, ero poco professionale e fallimentare come uomo rapportato ad una donna, però cercate di capire. Anche se poco professionale, era quello, in quel momento, il mio lavoro. E poi lei si trovava così vicina. Con un pigiama bianco e nero e una bottiglia d’acqua minerale al suo fianco. Sembrava un vibratore, quella bottiglia. Chissà a cosa le serviva quella bottiglia, dato che era vuota e sembrava stare lì, su quel comodino, da almeno una settimana. La vita passata di lei era stata un girotondo continuo di aerei presi al volo, di piccole spese inutili, di giochi di carte in clubs appositi, di non ritorni a casa, di bijoux presi e lasciati, di un anno passato superficialmente a fare stages senza impegno e senza voglia. Un po’ come me, insomma, eccezion fatta per i cellulari su Internet. La immaginai mentre passavo per strada, con tanti sguardi che mi fissavano. Tra gli sguardi, quello di una donna. Lei appunto. Appoggiata al lato di un balcone, dall’interno. Lei aveva questo rapporto morboso con i balconi. I balconi servivano sempre per gettare un qualcuno di turno per strada. Aveva ventisei anni, capelli biondi che teneva sciolti sulle spalle, occhi azzurri, occhiali sche la rendevano sexy ed un viso bello da fare invidia. Non minuta, s’intuivano le morbide forme sotto il tailleur nero che non indossava ma che mi avrebbe fatto piacere se l'avesse indossato. Io la fissavo con insistenza, senza toglierle gli occhi di dosso, finché la sorpassai con lo sguardo. Lei mi guardava con la stessa aria annoiata e superficiale con cui guardava gli altri uomini passare. Poi fece fermare lo sguardo su di me. E non sembrava più annoiata. Anzi, non lo era. E mi sorrise, pronunciando una parola che non ricordo. Io le risposi con una parola senza senso. Un rincoglionito, me ne rendo conto. Cominciammo a frequentarci e cominciarono pure le mie fantasie. La vedevo così come l’aveva vista l’ultima volta, abiti color grigio e occhiali Gucci. La vedevo a Parigi sugli Champs Elysèe. Lei amava Parigi. Su certi treni del métro di Parigi non c’è la divisione tra i vagoni, così puoi guardare lontano, nel lungo corridoio semovente, carico di esseri umani, che si muove vagando nei sotterranei della città. Sopra e sotto terra c’è una città che vibra e che affascina e fa paura nel contempo: enorme per dimensioni, bellezza e supponenza. Città aperta a chi passa e se ne va, a chi resta e anche a chi scappa. E lei era una che scappava. Anzi che spariva. A bell’e buono. La ricordavo pronta a ridere di sé e del mondo: scherzava imitando sua madre che parlava sempre. Dolcissima. Certo non era consigliabile sottovalutarne l’affilatissimo sense of humour e l’intelligenza spietata. La immaginavo ad un cafè. Lei aveva una maglia di cotone. La prima cosa che io avevo guardato erano stati i suoi seni piccoli. Poi i suoi occhi. Erano come quelli dei gatti. Seduta nel tavolino, accanto a me, in silenzio, con la voce degli altri che passava sopra le nostre teste senza sfiorarl. Teneva le mani attorcigliate dentro un fazzoletto di carta. I polpastrelli bianchi. Stringeva forte i denti. Stringeva gli occhi, a volte, quando la luce entrava troppo forte dalle vetrate. Era arrivavate truccata. Una riga nera sopra gli occhi, la cipria, il rossetto. I capelli sembravano più chiari con il trucco e a me veniva voglia di toccarli. Ridevamo di niente e avevamo solo fretta. L’abbraccai per la prima volta, sentendo contro di me le sue tette piccole e il suo profumo. E poi i baci. I baci venivano come le parole. Anzi, prima delle parole. Lei che decide di non tornare a casa sua neppure per Natale. Lei che ha le sue cose quando non deve averle Lei che sopporta poco le parole della compagna di suo padre. Lei che adora suo padre. Lei con i dolori al ventre dopo aver fatto l’amore. Lei con una cicatrice sexy e un lembo di pelle sulla pancia. Lei con la fissazione dei Radiohead. Lei che vince un premio per "Il migliore effetto su di me". Lei che veste anche di nero. Lei che sa di essere speciale. Lei che sparisce bell’ e buono. Come l’arcangelo. Però occhio. Ora taglio le ali agli arcangeli. Così che restino a terra. Ho visto fefy nel bar di rimpetto ad Architettura che cantava (con un panzerotto fritto in mano) "Luglio, col bene che ti voglio vedrai non finirà. Lallallallàààààààààààààààààààààà". Poi ha detto al giovinotto del bar se gli andava di cantare con lei |