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Nick: Franti
Oggetto:  Kalashnikov
Data: 23/6/2006 20.23.25
Visite: 111


Era il 1990.
Avevo quasi vent'anni.
E c'era la Pantera.



 


Primo anno di Università.
Tanti anni fa.
Anzi, pochi anni fa.


"Piè, ciao, come stai?".

"Uè Luca! Io bene, e tu?".

"Non ci lamentiamo. Oddio, in verità ci lamentiamo però adesso mi rompo i ciglioni di menartela con i lamenti. Senti, ti volevo chiedere: hai saputo della Pantera, delle Occupazioni all’Università, eccetera?".

"Certo Lù. Perché?".

"Perché si va ad occupare l’Università di Firenze, per farci un’assemblea. La Pantera si consacrerà definitivamente lì, a Firenze. Mi farebbe piacere tu componessi un collettivo e venissi con me. E con gli altri".

"Io?"

"Eh, tu, perché ‘sta faccia?".

"Lù io sono una matricola. Non ho ancora diciannove anni. Sono un pivello rispetto a voi insomma. E poi voi siete nel Movimento Studentesco, siete Comunisti insomma. Tu lo sai, io sono Anarchico. Non sopporto tanto i Comunisti dell'ultima ora, specie quelli figli di papà che studiano all'Universtà, e....".

"E quindi?"

"Come e quindi?".

"Eh, e quindi? Piè, senti a me: tu a diciotto anni sei più leader di tanti venticinquenni e trentenni che fanno la ricotta qua dentro. E poi sei un anarchico a cazzi tuoi, diciamoci la verità. E, comunque, meglio un anarchico di provincia, pur se a cazzi suoi, che tanti comunisti borghesi e pompati".

Mi sentii un’altra persona.
Ammiravo Luca.
Ero orgoglioso di quelle sue parole proferite.

"Va bene, Luca. Vengo con voi a Firenze. Mi sa che Anna mi mollerà per questo, ma non mi interessa. Se non comprende quello in cui io, adesso, credo, vuol dire che mai comprenderà me.".

Com'ero solenne un tempo.
Se ci ripenso mi viene da sorridere e mi prenderei per il culo.

Luca sorrise e mi disse:

"Bene, si parte venerdì, in tarda mattinata".

Poi girò le spalle e andò via.
Si rigirò e mi disse:

"Tu sei uno che darebbe la propria vita per un mondo diverso. Capisci? Ecco perché verrai a Firenze con me.".

Si rigirò e si allontanò.


Luca era il mio modello di studente, all’università.
Aveva ventisei anni e stava per laurearsi in Sociologia.
Uno dei c.d. "Capi", all’interno del Movimento Stuentesco
E poi adorava viaggiare.
Mi diceva sempre che dall’età di 17 anni è stato mosso da un irrefrenabile impulso a viaggiare, che era parte di lui da tempo oramai.
Quest’esigenza andava però al di là del semplice impulso, in quanto ogni volta che restava nello stesso luogo troppo a lungo si sentiva quasi minacciato.
Allora Luca capiva che era tempo di muoversi.
O forse per un problema di identità.
Da sempre, infatti, quando una collettività ha avuto problemi di identità è stata costretta ad affrontare "il viaggio":
Da Ulisse ai viaggi sulla Highway 61 o la Route 66, da Omero a Kerouac.
L’identità non è mai identica a se stessa.
Essa varia in continuazione ed il viaggio è la grande metafora dell’identità.
Alla fine si ritorna nuovi ma non diversi.
Ogni viaggio ti rende vivo e nuovo.
Forse, anzi, sicuramente, Luca era per questo che si muoveva spesso.
E questo lo rendeva una sorta di Semidio ai miei occhi.


L’autobus con il mio collettivo e quello di Luca non partì venerdi, nel tardo pomeriggio.
L’autobus con il mio collettivo e quello di Luca partì il sabato sera, tra ritardi e cazzi vari.
Solite storie dell'ultima ora.


Mi sedetti con Elena, una ragazza che mi piaceva molto, in quel periodo (alla faccia della povera Anna), nell’ultimo sediolino dell’autobus, nell’angolo.

Appena partimmo girai lo sguardo a destra e, dal finestrino, vidi la luna dalla finestra uguale a quella che si vede nella copertina della colonna sonora di Birdy.

Dopo un po’ capii che l’aria migliore che avessi mai potuto respirare era quella che si respirava in quell’autobus: faceva girare la testa a chi era cresciuto con una speranza, rischiava di dargli un’overdose d’ossigeno.


Sul sediolino davanti a me, c’era seduto il Cencio, chiamato così perché era un soprannome figo e di sinistra per lui, sempre con i capelli unti e gli abiti più larghi di almeno due taglie.
Il Cencio era vivo.
Senza un cazzo da fare.
Sopravviveva, credo.
Lasciarsi scivolare senza aspettarsi niente.
Tutto qui.
Il Cencio era uno studente lavoratore, anzi più lavoratore che studente, nel senso che non studiava per nulla.
Era più lavoratore che studente, già, ma soltanto fino a poco tempo prima.
Aveva da un po’ di tempo abbandonato il suo lavoro.
Odiava coloro che credevano, con il lavoro, di "aver svoltato meglio", difendendo le proprie scelte con una calvizie o una famiglia da incubo.
Per il Cencio tutto ciò era divenuto impraticabile.
Non sopportava, sul lavoro, l’attitudine al comando e l’atteggiamento arrivista: la sua malattia era nata con questa inequivocabile constatazione.
Era arrivato ad odiare i suoi colleghi: tutti vivevano "...nel terrore di quelli che gli stanno intorno, sanno qualche formuletta di settore e si fanno le scarpe sul lavoro. Con il walkman impastato ai timpani, le gambe saltellanti, il culo rigido, uno schiocco di dita, la bocca aperta e così via.".


Poi c’era Nino, detto la Faina Corretta.
Faina Corretta perché somigliava ad un "rapinatore corretto" uscito da uno di quei film Polizziotteschi della fine degli anni settanta.
Nino, insomma, sembrava uno di quei professionisti della vecchia guardia che entrava in banca senza il colpo in canna e se arrivava la polizia non si metteva a fare l’idiota: se non riusciva a scappare, buttava l’arma a terra e si faceva la sua galera senza lamentarsi.


C’era Luigi, uno studente fuori corso da una vita.
Aveva trentaquattro anni ed i baffi.
Bruttissimo.
Se fossi stato una donna non me lo sarei scopato mai.
Neppure in cambio di tutto l’oro del mondo.
Luigi collezionava figurine.
Diceva sempre.

"Non si può collezionare figurine a trentaquattro anni, dai."

E, ricordo, che aggiungeva:


"Bisogna cambiare la situazione politica. Fare qualcosa per questo mondo. Lo pensavo sempre da bambino. Oggi ritengo che…Nulla, và".



Ilaria, invece, possedeva una collanina d’oro regalatagli da sua mamma per la prima comunione.
Era fidanzata con un ragazzo di trentadue anni, che faceva l’idraulico.
Una gran troia.
Buonissima, ma bruttissima.
E gran troia.
Aveva una faccia da matrona col lifting.
Io, una volta, la guardai, feci un inchino e le sussurrai:

"Enchantè Madame Puttanone".

Ma lei non mi rispose.
E fu lì che iniziammo a litigare.


C’eranono Maria e Giuditta.
Stavano sempre insieme, come due lesbiche, loro che lesbiche non erano.
Erano ugualissime.
Come due gemelle.
Ugualissime.
Ma tra due gemelli, uno è ingenuo e l’altro furbo.
Tra due gemelli, uno è cattivo e l’altro fesso.
Tra due gemelli, uno tenta di mangiarsi l’altro.


C’era Davide che, con una chitarra sgangherata, suonava e cantava, a squarciagola, "Briganti se mora".


E c’era Emilio che tentava di suonare la tromba.
Sollevava la tromba.
Con le dita giocava sui tasti, facendoli scendere e salire in fretta.
Faceva spesso una sosta per bere un sorso di vino da una bottiglia.
Parlava prima con uno e dopo dieci secondi con un altro, interrompendo discorsi.
Forse non era abituato a parlare per tanto tempo con la stessa persona.
Forse faceva fatica a trovare qualcuno che lo ascoltasse.
Per questo suonava la tromba.


C’era Tonino.
Indossava una camicia di quelle che a fissarla per più di due minuti fa venire il mal di testa.
A vederlo così da vicino, a pochi centimetri, sembrava un esperimento genetico riuscito male.
Deficitari anche i cromosomi riguardanti l’altezza: viaggiava intorno al metro e sessanta e, dulcis in fundo, aveva una voce alla Tom Waits a cui sono stati tolti i medi ed i bassi, che, invece di essere la conseguenza di litri e litri di bourbon, come nel caso di Waits, sembrava avere una cadenza ed un ritmo sostenuti da anfetamine.


Poi c’era Imma che aveva avuto una vita assai piena, nonostante avesse ventidue anni.
Adorava i suoni, i rumori.
Diceva sempre:

"Ciò che mi piace ascoltare, ciò che più mi eccita è il rumore che fanno i camion della nettezza urbana ed i convogli della metropolitana".



C'era Ombretta che non sopportava i genitori.
In facoltà si diceva che suo padre era solito molestarla.
Che aveva perso il conto delle volte che le aveva abbrancato i seni.
Che con il passare degli anni, suo padre, era diventato più sfacciato.
Che le era impossibile avere un qualsiasi tipo di relazione con un ragazzo.
Che, ogni qualvolta le cose andavano un po’ oltre, vedeva il padre negli occhi del ragazzo e scoppiava in lacrime.
Che non poteva confidarsi con nessuno.
Perché nessuno vuole veramente sentire di come tuo padre ti lecca il collo mentre ti passa le dita fra le gambe.
Nessun ragazzo vuol sentirselo dire mentre cerca di fare la stessa cosa.
Credo che su questa storia si esagerasse e che erano tutte fandonie.
Fatto sta che completò il liceo e poi lasciò i genitori: fu magnifica, fenomenale, davvero memorabile.
O, almeno, io l’immaginavo come tale, quando uscì di casa: magnifica, fenomenale, davvero memorabile.


C’era Alex che parlava sempre, sdrammatizzando su tutto, anche su ciò che non era drammatico.
Sosteneva, però, di aver vissuto piccoli drammi, forse per darsi un tono.
E sosteneva, altresì, di aver trovato equilibrio grazie alla sua donna e praticando lo yoga, sottoponendosi ad esercizi spirituali e studiando numerologia.
Che cazzate.


C’era Alfredo il Cosentino.
Era estremamente esile.
Ma aveva un atteggiamento raffinato, un portamento eretto e militare, e camminava rapidamente.
La cosa più incantevole di lui erano tuttavia i suoi modi.
Era un Elegante.
Da grande avrebbe voluto fare l'Elegante.
Con la E maiuscola.
Quando guardava qualcuno sembrava in grado di leggerne i pensieri.
Indossava sempre una giacca blu abbottonata.
Non seguiva la moda, aveva un suo stile.
Aveva un carattere assurdo, in verità, uno di quelli che chissà come non riescono a godere del rovinare le vite altrui.
Aveva una malinconia di quelle impenetrabili, che mettono a disagio.
Capace di non rivolgere la parola per tre giorni.



Durante il tragitto per Firenze, nell’autobus si spensero, all’improvviso le luci.
Luca, al buio, gridò:

"Le luci si spengono ancora e il nostro nome verrà ancora stampato sulla pagina degli spettacoli, Sapete perché? Perché siamo belli e invincibili".


Tutti urlammo.
Aprimmo i finestrini e, in mezzo al poco traffico notturno dell’autostrada, cominciammo a cantare con la testa che fuoriusciva.
Era come avere intorno un’orchestra



Giungemmo nella provincia fiorentina.
Era la provincia un po’ strana e un po’ anonima del piccolo benessere diffuso, della fabbrichetta e dei soldi nel materasso.
Un pò come la provincia di qualsiasi città del Veneto.



Era quasi giorno.
La luce cadeva con dolcezza nell’autobus e non faceva caldo.
Le persone sembravano un’unica colata.
Nessuno avrebbe fatto nulla per l’altro.
Ne sono sicuro.
Anzi, sicurissimo.
Ognuno parlava a voce alta con l’amico o con l’amica o con il Compagno.
Eppure sarebbe bastato una battuta fuori tempo per sentirsi subito scoperti dallo sguardo di tutti.
Lì la gente forse non si amava, nel senso puro del termine.
Nemmeno si odiava.
Però lì in mezzo ci si sentiva in un flusso unico, dentro un destino comune a tutti, ci si riconosceva addirittura solidali.
E, se ci si separava, si rischiava di smarrire il tempo.
E allora ci si rompeva in mille pezzi.
Eravamo un tutt’uno, disposti "..a dare la propria vita per un mondo migliore".
Così come aveva detto Luca, a me.



All’Università ci fu l’assemblea.
Gli Anarchici e i Comunisti polemizzavano.
Lo ricordo bene.
Ma poi ci si ritrovava con un obiettivo comune.
Cambiare "le cose", qualsiasi cosa fosse, non importava quale.
La Pantera nasceva, o meglio si consacrava, poichè era già nata.
E l’Occupazione durò per tanti giorni.

Io e gli altri dormimmo all’Università, nei nostri sacchi a pelo, per cinque giorni.
Anna non mi aveva mollato e mi aspettava.



Ritornammo a casa, in autobus.
Con lo stesso autobus
Come quei vecchietti che organizzano gite per San Giovanni Rotondo o per il Santuario di Pompei.


Durante il viaggio di ritorno, l’autobus camminava indifferente nella sua corsia.
Io abbassai il finestrino e l’aria amara delle sei del pomeriggio inquinò il deodorante che Luca, seduto accanto a me, aveva versato sulle guance appena sbarbate.


Avrei preferito un altro mezzo pubblico per il mio meno trionfale ritorno a casa, ma in quella giornata era tutto diverso.



Sono passati tanti anni da quel giorno e io ho cercato di rimanere lo stesso di allora.
Ma era inutile.
E' stato inutile.
Stavo cercando e ho cercato di prendere tempo, ma avevo già visto tutto quello che c’era da vedere
Ed ero rimasto deluso, con le ideologie che ci avevano schiavizzato, rinchiuso in gabbia, me per primo.


Da anni non ho più notizie del Cencio, di Elena che mi piaceva tanto, di Nino la Faina Corretta, di Luigi fuori corso da una vita, di Ilaria la matrona col lifting, di Maria e Giuditta che stavano sempre insieme, come due lesbiche, loro che lesbiche non erano, di Davide che, con una chitarra sgangherata, suonava e cantava, a squarciagola, "Briganti se mora", di Emilio che tentava di suonare la tromba, di Tonino che indossava una camicia di quelle che a fissarla per più di due minuti fa venire il mal di testa, di Imma che aveva avuto una vita assai piena, nonostante avesse ventidue anni e che adorava i suoni e i rumori, di Ombretta che non sopportava i genitori, di Alex che parlava sempre sdrammatizzando su tutto, anche su ciò che non era drammatic, di Alfredo il Cosentin che era un Elegante.



L’unico di cui ho avuto notizie è stato Luca, il mio Semidio.
Non si è più laureato.
Aveva deciso di partire con un collettivo di Testaccio, di partire per Managua, per costruire una chiesa.
In Nicaragua era rimasto sette mesi.
Poi si era trasferito in Messico.

"Ci ho passato tre anni. Certo, è stata dura, ma sai, sono coriaceo e mi adatto a tutto. In un paese tanto grande e così civilizzato da non obbligare nessuno ad andare in giro con le tasche piene di documenti, ho pensato che ci fosse posto anche per un figlio. Anzi, per una figlia, si chiama Valentina".


Non so se a voi piacciono i finali delle storie.
Ma ho raccontato com’è andata a finire per Luca.
E per me?
Beh, ho poco più di trent’anni e desidero quello che desideravano e desiderano tutti.
Una casa con una stanza in più, il televisore e un'automobile nuova acquistata a rate.
E la mia vita, giorno dopo giorno, sembra migliorare.


Le ideologie?
Gran brutta cosa.
Ti rendono schiavo e ti ingabbiano, così come detto.
Ma gli ideali no, quelli no, non ti rendono schiavo.
Quali ideali?
Quelli semplici semplici eppure impressionantemente grandi.


Avevamo cercato di non rassegnarci al mondo così com’era e avevamo tentato di lasciarlo un poco migliore di come l’avevamo trovato.

E, ne sono certo, tuttora, le luci si spengono ancora e i nostri nomi vengono ancora stampati sulla pagina degli spettacoli. 



Ps - Già postato ma ascoltando gli AK47 m'è venuta una malinconia...




Vi sono certi vermi piatti tanto delicati che è quasi impossibile imprigionarli interi, perchè si rompono e sbrindellano al solo toccarli...



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