Nick: Copia&Inc Oggetto: Guantanamo Data: 12/2/2004 11.24.16 Visite: 79
Guantanamo, l'isola che non c'e' 23 gennaio 2004 - Sono due anni ormai. Abbondanti: era l’11 gennaio 2002 quando i primi sospetti talebani e membri di Al Qaeda rastrellati in Afghanistan e in Pakistan fecero il loro ingresso nella base militare statunitense di Guantanamo, Cuba. Centosedici chilometri quadrati che gli Stati Uniti hanno ricavato sull’isola caraibica dopo la vittoriosa guerra contro la Spagna del 1898. In tempi normali, Guantanamo sarebbe solo una delle tante basi dove l’unica superpotenza rimasta mantiene proprie truppe. Ma da due anni è invece considerata da gran parte dell’opinione pubblica mondiale la forma più eclatante dell’arroganza dell’amministrazione Bush, la macchia più vistosa della democrazia statunitense, un pericoloso precedente verso la deriva autoritaria della società occidentale. Perché Camp Delta ospita oggi circa 660 detenuti, tutti maschi, che provengono da 42 Paesi e parlano 17 lingue e 23 dialetti. La maggior parte di loro vive in gabbie metalliche singole di circa due metri per tre, il minimo indispensabile per contenere una cuccetta metallica dove dormire, un rubinetto e un gabinetto. Questo è il trattamento standard, ma a seconda della condotta tenuta e dalla disponibilità a collaborare con i militari americani il livello di decenza della prigionia sale fino all’alloggio in una specie di dormitorio, dove si è liberi di incontrarsi con gli altri detenuti. C’è poi una sezione speciale riservata ai tre minorenni prigionieri nella base – il più giovane ha tredici anni -, una casetta a parte con vista sull’oceano. I reclusi nella base militare sono praticamente isolati dal resto del mondo: possono parlare solo con i militari americani e con i membri della Croce Rossa Internazionale – l’unica organizzazione a cui è concesso visitarli. All’entrata della prigione c’è un cartello con scritto "Camp Delta. Onore alla difesa della libertà". In questi due anni, a Guantanamo si sono contati 32 tentativi di suicidio, da parte di 21 detenuti: alcuni ci hanno provato più di una volta. A un quinto dei prigionieri vengono somministrati farmaci antidepressivi. Ci si chiede: come vengono trattati i detenuti? Non gli viene torto un capello, dispongono di tutte le cure necessarie e hanno pure messo su qualche chilo, dicono gli Usa. Macché, vengono torturati, sostengono altri.Con le accuse di maltrattamenti ancora da dimostrare, il punto su cui organizzazioni per i diritti umani, avvocati e non solo criticano ferocemente gli Usa non è comunque questo. E’ piuttosto il fatto che quei 660 uomini – e ragazzi – sono rinchiusi da due anni in quelle gabbie senza un capo d’imputazione, senza avere idea di se e quando potranno uscire. E i processi militari annunciati da Bush la scorsa estate per alcune decine di loro, quando cominceranno (appunto, quando?), saranno la cosa più lontana dall’uguaglianza tra accusa e difesa. Persino i rappresentanti della Croce Rossa – che in cambio dell’accesso a Camp Delta si sono impegnati a esporre inizialmente soltanto a Washington le proprie critiche, riservandosi di renderle pubbliche se esse rimangono inascoltate – hanno dichiarato che "non si può tenere dei detenuti in questa situazione per un tempo indefinito". La questione ruota intorno al riconoscimento dello status di "prigionieri di guerra" garantito dalla terza Convenzione di Ginevra. L’amministrazione Usa non si ritiene obbligata a concederlo, perché considera i detenuti "nemici combattenti fuorilegge", una definizione non contemplata dal diritto internazionale. Al che le organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Human Rights Watch rispondono: se non sono prigionieri di guerra, che siano almeno loro concessi i diritti degli altri detenuti nelle carceri americane. Ma Washington ribatte sostenendo che Guantanamo – pur essendo una sua base militare – non si trova sul territorio statunitense. E quindi non è tenuta ad applicare nessuna delle leggi che valgono nei cinquanta Stati dell’Unione. Insomma, il disaccordo è totale. Ma è la stessa Convenzione – all’articolo 5 - a prevedere una soluzione chiara per una situazione del genere: chiunque sia catturato durante un conflitto, ma sul cui status vi sia incertezza, deve essere considerato prigioniero di guerra finché la sua posizione non è determinata da un "tribunale competente". Un tribunale di cui al momento non si vede l’ombra. E il problema è che, se anche gli Stati Uniti decidessero di ritenere prigionieri di guerra i 660 di Guantanamo, la domanda successiva sarebbe: di quale guerra? Perché qui non si sta parlando di un conflitto tradizionale, con un casus belli all’inizio e un armistizio alla fine. Quella in corso è una guerra al terrorismo contro un nemico multiforme, che lo stesso Bush ha previsto "lunga e difficile". Soprattutto: saranno gli Usa da soli a decidere quando sarà conclusa, e niente fa pensare che la fine sia vicina.Quindi, dato che la Convenzione di Ginevra consente la detenzione di prigionieri fino alla fine delle ostilità, i reclusi di Guantanamo potrebbero passare ancora molti anni in quelle gabbie.Sono passati nove mesi da quando il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld firmò le sette "Military commission instructions" che mettevano in pratica gli ordini di Bush sulla "detenzione, trattamento e giudizio dei cittadini non americani nella guerra contro il terrorismo". Con un tratto di penna, entrarono in vigore una serie di norme che fanno il possibile per abbattere con l’accetta i pilastri dello stato di diritto. In breve: il giudizio spetta a dei tribunali militari speciali, la Casa Bianca e lei sola esercita l’azione penale, esegue la pena e ha facoltà di rivedere le sentenze, e non esiste un giudizio d’appello. Sbloccatosi – anche se non nel modo auspicato dai garantisti – il limbo giuridico nel quale versavano i dannati di Guantanamo, Washington si è trovata di fronte all’ostacolo che non aveva calcolato: la resistenza dei custodi del diritto statunitensi. Molti avvocati militari americani contattati dalla Casa Bianca per prendere le difese dei detenuti di Camp Delta si sono rifiutati di prestare servizio a quelle condizioni. E lo scorso dicembre due Corti federali – a San Francisco e a New York – hanno preso posizione contro il giro di vite dell’amministrazione, decretando che a) I sospetti terroristi detenuti sul territorio americano hanno diritto a un avvocato b) Imprigionare 660 stranieri privandoli delle protezioni legali statunitensi è incostituzionale e viola il diritto internazionale. Le due sentenze sono in contrasto con una precedente, di una Corte federale di Washington, che aveva invece dichiarato legittimo il presupposto della Casa Bianca in materia – e cioè che Guantanamo è una sorta di terra di nessuno, dove le leggi Usa non valgono. A mettere ordine in questo groviglio legale sarà la Corte Suprema, il cui giudizio sulla questione è atteso a breve. Nel frattempo, dei timidi passi verso il processo per sei detenuti di Camp Delta sono stati comunque fatti: pur in assenza di scadenze certe, il Pentagono ha concesso un difensore d’ufficio a uno di loro, e un legale civile a un altro. Ma per tutti gli altri permane il vuoto giuridico, e si moltiplicano le voci di protesta. Come quella di Clive Stafford-Smith, un avvocato inglese che da vent’anni si batte contro la pena di morte negli Stati Uniti. Intervistato recentemente dal Guardian, ha così parlato di Guantanamo: "Sequestri gente che potrebbe essere completamente innocente, la porti in giro per il mondo incappucciata e in catene, la tieni in isolamento per due anni, non le dai un avvocato e non le dici di cosa è accusata. Non è una questione di cosa ci sia di sbagliato, è una questione di cosa ci sia di giusto. E non serve a niente". Forse a una cosa sola: a erodere ancor più il credito di solidarietà di cui gli Stati Uniti godevano subito dopo gli attacchi dell’11 settembre. Se non è già stato dilapidato del tutto. http://www.peacereporter.net/it/canali/voci/dossier/040123guantanamo/ |