Nick: Mr_LiVi0 Oggetto: IL GIORNALE DEL GIORNO Data: 31/8/2006 9.53.43 Visite: 104
SORPRESA !!! D'Alema sfida la Siria: collabora o spariamo di ANDREA COLOMBO Gli Hezbollah rifiutano la mediazione di Kofi Annan �?��?��?� Dopo i continui balletti prodiani e dalemiani, nel tentativo reiterato di coinvolgere Siria e Iran (Stati canaglia fra i principali fornitori di armi a Hezbollah) nelle trattative di pace in Medio Oriente, ora Massimo D'Alema fa marcia indietro e ammette: il regime dittatoriale al potere a Damasco è un rischio per la sicurezza mondiale. Se continua ad armare i fanatici di Allah dobbiamo fermarlo, dice il capo della Farnesina. L'avvertimento è chiaro: «Anche in Siria devono sapere che se dal loro Paese arrivano armi, o si cerca di violare la risoluzione 1701 dell'Onu, la Comunità internazionale questo lo saprà e non starà a guardare». Il leader Ds ha quindi adottato una linea particolarmente dura verso la Siria, alla vigilia dell'arrivo dei nostri soldati, il cui sbarco a Tiro in Libano è previsto per domani. «Alla Siria - ha spiegato D'Alema - chiediamo cooperazione». Il che significa: basta passaggi di strumenti di morte alle milizie sciite, altrimenti anche i caschi blu della forza Unifil potrebbero reagire. Il confine tra Libano e la Siria è «immenso», spiega il capo della diplomazia italiana, e sarebbe «impensabile» dispiegare decine di migliaia di Caschi blu per presidiarlo, ma «esistono mezzi assai aggiornati di controllo aereo, aerei Awacs, satelliti, che consentono di verificare molto attentamente se c'è un traffico di armi pesanti». Poi il vicepremier ha parlato di multilateralismo. Nella sua visione l'Europa si colloca nuovamente al centro dello scacchiere strategico. Per D'Alema solo «l'iniziativa dell'Europa può dare un impulso determinante per la ripresa del processo di pace» in tutto il Medio Oriente. Quanto ai rapporti con gli Stati Uniti, il ministro degli Esteri ha osservato che «la cooperazione tra l'Italia e gli Stati Uniti avviene in modo nuovo, attraverso un rafforzamento delle Nazioni Unite e un impegno comune dell'Unione Europea». La «condotta» degli Usa - ha osservato il capo della Farnesina - è ora «più realistica». Alle dichiarazioni di D'Alema sono seguite, a stretto giro di posta, quelle minacciose del leader siriano Bashar al-Assad, che non è apparso affatto intimidito e anzi ha rilanciato le accuse all'Onu. Assad ha criticato le risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza del Palazzo di vetro per il Medio Oriente e il Libano, definendole un prodotto dell'«egemonia americana». «Se l'Onu adotta altre risoluzioni fondate sugli stessi principi, non farà altro che cancellare l'ottimismo e condurre a ulteriore caos e spargimento di sangue», ha aggiunto il dittatore siriano. Da Damasco, un fronte particolarmente caldo, ieri sono arrivate anche delle minacce da un gruppo denominato "Gli uomini della resistenza nazionale siriana": se Israele non rimette «immediatamente» in libertà siriani originari delle alture del Golan che detiene da oltre 20 anni, i terroristi minacciano di catturare soldati israeliani. Intanto continua la missione in Medio Oriente del segretario generale dell'Onu Kofi Annan. «Israele si ritiri dal Libano e Hezbollah rilasci i soldati rapiti», era stato il duplice appello di Annan al premier israeliano Ehud Olmert e alle milizie sciite, lanciato da Gerusalemme prima di partire per Amman, in Giordania. La risposta delle controparti è stata di ampia disponibilità da parte israeliana e di chiusura netta da parte degli Hezbollah. Le truppe dello Stato ebraico si sono ritirate dalla parte orientale del Libano del sud e hanno iniziato il rientro in patria anche nelle altre aree occupate, in attesa che si dispieghi il contingente Unifil. Invece il partito di Dio non intende mollare i due soldati che rimangono la sua arma di ricatto più efficace nei confronti dello Stato ebraico. Hezbollah infatti non rilascerà incondizionatamente i due soldati israeliani rapiti il 12 luglio ma solo attraverso uno scambio di prigionieri. Lo ha dichiarato il ministro dell'Energia e delle Risorse idriche del Partito di Dio, Mohammed Fneish: «Non ci sarà un rilascio incondizionato, ci dev'essere uno scambio attraverso negoziati indiretti. Questo è il principio al quale hanno aderito Hezbollah e la resistenza». Che Annan non sia molto amato nell'area mediorientale è d'altronde dimostrato dall'accoglienza che il capo dell'Onu ha ricevuto nella sua passeggiata nei quartieri bombardati di Beirut: fischiato e contestato dagli abitanti dei poverissimi quartieri sciiti della capitale libanese, roccaforte del Partito di Dio, fra i più colpiti dai caccia israeliani. Il segretario generale dell'Onu ha anche chiesto ad Israele di togliere il blocco aereo e navale al Paese dei cedri. Ma su questo punto non ha ricevuto una risposta affermativa. Per ora non è in programma lo sblocco dei porti e aeroporti libanesi, dove si teme che i terroristi possano ancora ricevere armi e munizioni da Siria e Iran. Per il resto la situazione diplomatica nell'area rimane quanto mai intrigata. Di fronte alle aperture di Olmert, che si è detto disposto ad aprire un tavolo diretto di trattative con Beirut, il premier Fuad Siniora ha replicato che il Libano sarà l'ultimo paese arabo a siglare un accordo di pace con Israele. «Non ci sarà nessun accordo con Israele prima di un accordo di pace globale che sia giusto e duraturo» ha detto il capo del governo libanese. Avanti miei Prodi di QUALCOSA DI SINISTRA Leggere Rossana a Teheran Rossana Rossanda affrescava ieri sul manifesto il quadro politico del Medioriente. Spiegava, la mitica quasi-vincitrice del Premio Strega, tutti i segnali positivi legati alla missione cui partecipa il governo italiano. «Interessante», secondo la ragazza del secolo scorso, la «modifica delle abituali dichiarazioni del presidente iraniano Ahmadinejad, che per la prima volta ha smesso di farneticare la scomparsa di Israele». Mentre la Rossanda stava scrivendo il suo editoriale, Ahmadinejad spiegava i suoi piani per «estirpare Israele». Affinità elettive. ULTIMA RIFORMA: UCCIDERE SILVIO di VITTORIO FELTRI La sinistra impaurita prepara la legge per impedire a Berlusconi di fare politica C'era da aspettarselo. L'Unione medita di uccidere politicamente Silvio Berlusconi. Vuole impedirgli non solo di candidarsi quale premier, ma addirittura vietargli l'ingresso in Parlamento. Come? Modificando la legge sul conflitto di interessi ossia rendendola talmente rigida da precludere al Cavaliere ogni possibilità di rimanere nel Palazzo. Romano Prodi e in genere i progressisti hanno sempre avuto difficoltà a confrontarsi col fondatore di Forza Italia e, per evitare di trovarselo ancora fra i piedi alla prossima tornata elettorale, pensano ad una soluzione drastica molto simile a quella finale: eliminazione. Non proprio di Berlusconi, ma della sua candidatura. I lettori ricorderanno che dal 1996 al 2001 la sinistra già governò eppure non riuscì, in cinque anni, ad approvare una norma anticonflitto d'interessi; più precisamente, predispose un testo di legge che passò, se non erro, alla Camera e si bloccò in un cassetto del Senato. Qualcuno sospettò che non si trattasse di vero e proprio intoppo burocratico, bensì di strategia elettoralistica. Nel senso che permanendo il conflitto di interessi, secondo alcuni genî dell'Ulivo il centrosinistra avrebbe avuto un buon argomento contro il Cavaliere da spendere nei comizi e in tivù. I fatti hanno dimostrato il contrario, ed è per questo che l'attuale maggioranza si sta impegnando, con largo anticipo sulla scadenza naturale della legislatura, allo scopo di disintegrare il leader Cdl. Perché tanta fretta? Giova rammentare che il Prodi due specialmente al Senato è traballante, si regge sui voti degli "stranieri" e degli over ottanta. Sicché nessuno si stupirebbe se franasse presto, magari in occasione della Finanziaria. In tal caso chi potrebbe escludere la mobilitazione popolare per il rinnovo del Parlamento? Oppure. E facciamo gli scongiuri. Mettiamo che la missione in Libano (lo scrive oggi il nostro eccellente professor Brunetta qui in prima pagina) sfoci in una catastrofe, come sempre quando c'è di mezzo l'Onu; e mettiamo che alcuni nostri soldati rimpatrino nelle bare anziché sulle loro gambe. Addio governo. L'Italia sopporta tutto, perfino Padoa Schioppa e la sua band, ma non le lacrime delle mamme. Prodi lo sa e, nella triste eventualità, desidera almeno non farsi cogliere impreparato. Con una bella legge in vigore sul conflitto d'interessi ovvero una legge ammazzasilvio, egli affronterebbe la competizione elettorale con animo sereno. Va da sé, i cimiteri sono pieni di gente indispensabile; figuriamoci se la Casa delle libertà non sopravviverebbe alla fucilazione legale di Berlusconi. Però converrete che dal 1993 a oggi il Cavaliere è stato determinante in ogni successo del centrodestra che, senza di lui, perderebbe almeno il 30 per cento delle proprie chances. Ciò sia detto con ogni riguardo verso Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini e Umberto Bossi. L'Unione avrebbe preferito battere sonoramente Silvio in aprile alle urne, invece l'ha spuntata per il rotto della cuffia, e non si può concedere un'altra sfida logorante con lui. Ecco perché, cinicamente, opterà per la sua soppressione. Soppressione fallita in ambito giudiziario; fallita sul terreno della politica; resta l'uso criminoso dello strumento democratico, attività in cui la sinistra è maestra. Attenzione, però; accertatevi che Berlusconi sia morto, prima di cantare vittoria. Modello Usa, l'ultima bugia dei compagni L'Ulivo dice di ispirarsi all'America, ma lì Berlusconi non dovrebbe neanche dire quanto guadagna Una legge sul conflitto d'interessi di stampo americano. È la proposta lanciata dall'Unione per costringere Berlusconi a disfarsi del suo patrimonio o a lasciare la politica. Negli Usa, però, non esiste niente di simile, come conferma l'articolo che pubblichiamo di seguito, apparso il 30 maggio scorso sul Foglio di Giuliano Ferrara �?��?��?� Piero Fassino, a Porta a Porta, ha detto che il centrosinistra farà una legge sul conflitto di interessi per "separare nettamente l'interesse privato, del tutto legittimo, con il ruolo pubblico". E ha concluso: "Io sono affezionato a una legge di tipo americano". Bene. Qual è la legge di tipo americano? Sorpresa, non c'è. Negli Stati Uniti non c'è nessuna legge sul conflitto di interessi che impedisca al proprietario di aziende, azioni, imperi industriali o mediatici, di candidarsi a cariche pubbliche e di governo. Non solo: l'ipotesi non è neanche lontanamente presa in considerazione. Qualora un miliardario o un imprenditore, anche del mondo dell'informazione, venisse eletto non è obbligato né a vendere le sue proprietà né a metterle in un blind trust. Non è nemmeno obbligato a presentare la dichiarazione di redditi completa, come si fa in Italia. Il codice o codicillo Negli Stati Uniti, la materia è regolata da un codice di "leggi etiche" di 90 pagine, disponibile presso l'United States Office of Government Ethics. Le norme non si occupano dei conflitti potenziali, piuttosto puntano sulla trasparenza e si limitano a sanzionare penalmente i comportamenti privati che confliggono con gli interessi pubblici. "Va segnalato - si legge nel report del 31 ottobre 2003 del Congresso degli Stati Uniti che fa il punto delle leggi americane sul conflitto di interessi - che non esiste alcuna legge federale che richiede espressamente a un particolare funzionario federale, o a una categoria di funzionari, di mettere i propri assets in un fondo cieco per esercitare un lavoro pubblico all'interno del governo federale". Ancora: "I funzionari federali e gli impiegati non sono obbligati a dismettere i loro beni per evitare il conflitto di interessi. Piuttosto... i metodi principali di regolamentazione dei conflitti di interessi, a norma delle leggi federali, sono l'esclusione e la trasparenza (disclosure)". Le leggi americane, dunque, non impediscono a priori a nessuno, neanche a un simil Berlusconi locale, l'elezione o la nomina a cariche politiche o di governo. Non forzano la vendita, non obbligano a mettere in un fondo cieco il proprio patrimonio. La legge americana prescrive esclusivamente "l'esclusione", cioè la ricusazione, l'astensione dal partecipare a decisioni pubbliche che potrebbero favorire interessi privati, e poi la trasparenza, cioè rendere pubblici i propri interessi finanziari. Ma, attenzione, l'obbligo di non partecipare alle decisioni pubbliche potenzialmente confliggenti con gli interessi privati vale soltanto per i funzionari di governo e per gli impiegati federali, non si applica né al presidente degli Stati Uniti né al vicepresidente né ai parlamentari di Camera e Senato né ai giudici federali (articolo 202, comma c del codice degli Stati Uniti). Ancora prima che questa esplicita esenzione fosse iscritta nel codice, era consuetudine consolidata escludere presidente e vicepresidente dalle norme sul conflitto d'interesse, per lo stesso motivo per cui non sono mai state applicate ai parlamentari: "Una ricusazione obbligatoria potrebbe, in teoria, interferire con i doveri di presidente e vicepresidente richiesti dalla Costituzione", perché in democrazia è più importante l'interesse pubblico che gli eletti sono chiamati a perseguire, piuttosto che il potenziale conflitto con gli interessi privati. Propri beni e propri debiti Negli Stati Uniti, dunque, il potenziale conflitto di interessi del capo del governo e dello Stato, del suo vicepresidente, dei senatori e dei deputati è così poco regolato da far apparire draconiana la legge Frattini approvata in Italia in questa legislatura. Gli eletti, a Washington, hanno soltanto l'obbligo di rendere noti i propri beni e i propri debiti. Punto. Tra l'altro, questo obbligo è meno rigoroso di quello equivalente previsto in Italia. I parlamentari e i ministri italiani devono depositare per legge la dichiarazione dei redditi, i loro colleghi americani no. Si limitano a farne un riassunto, indicando fonte e tipo dei propri guadagni, senza entrare nello specifico e senza rivelare l'esatto ammontare. La legge prevede nove categorie di entrate, così ampie e vaghe che le ultime due sono: "Più di un milione di dollari, ma meno di 5 milioni" e "oltre cinque milioni di dollari". Di Bush, per esempio, si sa che ha interessi nel settore del "legname" che valgono tra i 10 e i 20 mila dollari. Quando nel 2003 si è scoperto che Dick Cheney aveva ancora interessi non dichiarati nella Halliburton, la società di cui è stato presidente e che è stata la principale beneficiaria degli appalti in Iraq, non è successo nulla dal punto di vista penale o sanzionatorio, proprio perché il presidente e il vicepresidente non sono perseguibili per violazione di conflitto di interessi. Altra cosa è l'opportunità politica, ma quella è sanzionata dagli elettori non dalla legge. Così il magnate dei media Steve Forbes si è candidato alla Casa Bianca, esattamente come Ross Perot, mentre un pensierino l'ha avuto anche il patron della Cnn Ted Turner. Si candiderà l'ex governatore della Virginia, Mark Warner, fondatore della società di telecomunicazioni Nextel. L'esempio del sindaco Per non prestare il fianco a voci o ad accuse di conflitto di interessi, molti parlamentari affidano il proprio patrimonio a "blind trust" regolati dalla legge, i quali però consentono la vendita delle proprie azioni. I miliardari al Senato sono 45 (uno su tutti: Rockfeller), non tutti dotati di un fondo cieco. Bill Frist, nonostante il blind trust, ha venduto le azioni della società di suo padre prima di un ribasso in Borsa. L'inchiesta nei suoi confronti è per insider trading, non per conflitto di interessi. Mike Bloomberg è un magnate delle televisioni e dei servizi finanziari nella città che ospita il mercato azionario più importante del mondo, ma da sindaco non è stato costretto a vendere, né a ritagliarsi il ruolo di mero proprietario né, addirittura, a rendere note le sue dichiarazioni dei redditi. Se lo avesse fatto - ha detto lui stesso - avrebbe danneggiato il business delle sue società. Il suo predecessore democratico, Ed Koch, ha spiegato: "Bloomberg l'aveva preannunciato in campagna elettorale. Gli elettori sapevano e hanno accettato". È questo il modello americano. Parte l'operazione "ammazza Silvio" di MARIO PRIGNANO Pronta la legge per impedirgli di guidare il Polo. Lui si sfoga: vogliono consegnare l'Italia ai politicanti ROMA Un provvedimento da varare «al più presto» che dovrà essere «serio», «severo», «efficace», «giusto», «moderno». Qualcuno, forse scettico per natura, ha detto perfino che dovrà essere «vero». Nessuno che, dall'Unione, avesse riconosciuto quello che salta agli occhi: la proposta di legge sul conflitto d'interessi depositata un mese e mezzo fa alla Camera e calendarizzata per metà settembre, se approvata così com'è, otterrà l'effetto di tenere Silvio Berlusconi fuori dalla politica e da ogni incarico di governo. La polemica è esplosa di prima mattina con una dichiarazione di Paolo Bonaiuti, portavoce dell'ex premier: «La sinistra vuole impedire a Berlusconi di fare, per il momento, l'opposizione e più in generale di fare politica». È stato come uno squillo di tromba. Dal fronte di centro destra è partita una carica che ha coinvolto almeno una quindicina di parlamentari, quasi tutti forzisti, mentre nel centro sinistra scendevano in campo ministri e segretari di partito. Il presidente del Senato Franco Marini ha affermato che «non dovrà essere una legge punitiva». Ma è stato uno dei pochi. Fassino si è lamentato perché «la Casa delle libertà parla senza conoscere il testo». Il ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, ha parlato di legge «indispensabile» ma anche «severa» e «giusta». Pecoraro Scanio si è augurato «che risolva l'anomalia italiana». Nel fortino di Villa La Certosa, raccontano che il Cavaliere abbia vissuto la polemica con relativo distacco. Relativo, perché nelle conversazioni coi suoi hanno comunque trovato spazio considerazioni come la seguente: «Hanno avuto cinque anni per fare la legge ma hanno preferito lasciare le cose come stavano per tenere sotto scacco il capo dell'opposizione. Ora vogliono tutto e subito: sono tornati al potere e, con un tratto di penna, vogliono lasciare tutto lo spazio ai mestieranti della politica». Che vuol dire: terra bruciata attorno ad ogni esperienza in politica per chi viene dal di fuori della politica. Terra bruciata attorno all'esperienza di Berlusconi, come fosse una parentesi da cancellare, appunto, «con un tratto di penna». Nell'entourage del Cavaliere, si è andati anche oltre, agli effetti che una legge come questa potrebbe avere sulla Cdl: «Sembra fatta apposta per spianare la strada a Casini, che di politica è sempre vissuto e senza la politica non sa cosa fare». Antiche rivalità tornate a galla proprio in questi giorni, che si mescolano alla quotidianità della lotta politica. E alla lotta per le nomine Rai. È l'altra faccia della medaglia, quella che scatta ogni qualvolta di torna a parlare di conflitto d'interessi. Non a caso Bonaiuti lo ha ricordato nel suo comunicato mattutino: «Intanto il governo si prepara ad occupare la Rai: si annuncia davvero un bel settembre!». Al di là dei toni, la partita che si annuncia è quella di un ricambio che l'Unione vorrebbe tanto per la rete uno quanto per il Tg (per la prima si parla di Gianni Minoli, per il secondo di Gianni Riotta). Un ricambio che dicono potrebbe anche avvenire in tempi rapidi, ma che incontra sul suo cammino un ostacolo non da poco: la maggioranza del Consiglio d'amministrazione di viale Mazzini, che, grazie alla presenza del consigliere nominato dal Tesoro Angelo Petroni (a suo tempo indicato da Domenico Siniscalco), pende dalla parte del centro destra anziché del centro sinistra. Che, dunque, nella polemica tra maggioranza e opposizione sul conflitto d'interesse ci sia anche un messaggio sotterraneo tendente a suggerire una qualche forma di compromesso su viale Mazzini è più che probabile. Anche se, come assicura un ex sottosegretario forzista alle Comunicazioni che di questi temi non ha mai smesso di occuparsi: «La trattativa è appena agli inizi». Il che non impedisce a più di qualcuno dentro il partito di Berlusconi di nutrire dubbi sulla tenuta della maggioranza del cda Rai. Ieri, dalla festa dell'Udeur a Telese, Marco Follini ha invitato l'Udc a «dichiarare finita l'esperienza della Cdl». E se il partito davvero decidesse di seguire la sua idea? E se il consigliere d'amministrazione della Rai in quota Udc, il casiniano Marco Staderini, decidesse di passare dall'altra parte? Improbabile. Ma se accadesse, il Cavaliere ne riceverebbe un doppio colpo: lui fuori dalla politica e la Rai «occupata» dalla sinistra. Per non parlare delle sue tv. Gentiloni vuole modificare la legge Gasparri: quindi, riduzione dei tetti pubblicitari e Rete4 sul satellite. Blind trust, televisioni e cessione ai figli: così lo terranno lontano dal governo di ANDREA VALLE L'UNIONE PROPONE LA CREAZIONE DI UN'AUTORITÀ GARANTE CHE INDIVIDUI LE ATTIVITÀ "SOSPETTE" E L'AFFIDAMENTO A TERZI DELLA GESTIONE DEI PATRIMONI SUPERIORI AI 10 MILIONI. LA NORME SCATTEREBBERO ANCHE IN CASO DI INTESTAZIONE AI PARENTI. GENTILONI: PRESTO CAMBIEREMO LA LEGGE GASPARRI ROMA Quattordici articoli, depositati il 7 luglio in commissione Affari costituzionali: ecco la legge sul "conflitto di interessi" dell'Ulivo. Abrogando la disciplina voluta dal centrodestra nel 2004, la proposta, che sarà discussa nelle prossime settimane dal Parlamento, introduce nuove disposizioni «in materia di incompatibilità e di conflitti di interessi» riferibili «ai titolari delle cariche di governo». Interessati sono il presidente del consiglio, i ministri e i sottosegretari. Se vuole governare il Paese, un imprenditore si deve spogliare dei propri beni. Diversamente, dopo dieci giorni dall'insediamento, andrebbe incontro alla cessazione della carica. Che l'obiettivo della legge sia Silvio Berlusconi lo si capisce già leggendo l'introduzione: Il fatto che «i membri del governo possiedano partecipazioni rilevanti nel settore dell'informazione e delle comunicazioni di massa (...) può alterare il libero formarsi del consenso». Il politico che possiede tv è il Cavaliere. Due le novità del provvedimento che i presentatori fanno risalire al «modello americano»: l'istituzione di una Autorità garante dell'etica pubblica e della prevenzione dei conflitti di interesse e la creazione del gestore del patrimonio. Il garante si compone di cinque membri, nominati con decreto del Presidente della Repubblica. Restano in carica per sette anni. Due componenti sono designati dalla Camera e due dal Senato. Il presidente dell'Autorità è designato dai quattro componenti eletti dalle Camere. L'organismo ha come scopo quello di verificare le situazioni di conflitto e mettere "sotto processo" il politico sospettato di conflitto. Giudice ultimo, potrebbe decretare il decadimento del politico dalla Camera alla faccia della volontà degli elettori. Difficile per il Cavaliere scampare all'Authority. Non sarà più possibile nemmeno intestare a parenti le attività. Il possesso, anche per interposta persona, di partecipazioni rilevanti in imprese operanti nei settori della difesa, energia, servizi erogati in concessione, nonché concessionarie di pubblicità e imprese dell'informazione giornalistica e radiotelevisiva, «è in ogni caso suscettibile di determinare conflitti di interessi». In serata ha rincarato la dose Paolo Gentiloni, ministro delle Comunicazioni: «Abbiamo bisogno di una nuova legge - ha spiegato - che corregga ciò che è già sepolto, e cioè il Sic (i tetti pubblicitari), che intervenga sulla privatizzazione della Rai, mai cominciata, e che definisca il digitale terrestre. Servono regole chiare, sulle frequenze, su quante ne possono occupare gli editori». L'unico modo che il politico-imprenditore ha per salvarsi è quello di affidare ad un «gestore del patrimonio» le sue società. Ma l'operazione è rischiosissima. Per tutta la durata dell'incarico, infatti, il proprietario non può conoscere nulla delle sue aziende. Non potrà consultare il gestore per dare suggerimenti. Al termine del mandato, dunque, il politico-imprenditore potrebbe trovarsi la società in bancarotta o quasi. Anche Sogno aspetta scuse da Napolitano di GIANCARLO LEHNER Se il presidente Giorgio Napolitano non se la sentisse di presenziare, a Budapest, alle ricorrenze ufficiali per il cinquantenario dell'invasione sovietica, avrebbe, tuttavia, un'altra opportunità di mondarsi la coscienza. Di certo, non potrà glissare l'imperativo di chiedere pubblicamente scusa di essere stato tanto comunista e togliattiano, cioè stalinista, da benedire i crimini contro l'umanità commessi in Ungheria nell'autunno del 1956. Senza sottoporsi a stressanti e perigliose trasferte - gli ugrofinnici hanno una memoria di ferro -, potrebbe rendere onore, qui e subito - sono sei anni esatti dalla scomparsa -, alla tomba di Edgardo Sogno (29.12.1915 / 5.08.2000) . Mentre Togliatti, Ingrao e Napolitano umettavano gli stivali degli aggressori, Edgardo, novello Garibaldi, accorse in Ungheria, sfidando un esercito di 400mila soldati, migliaia di tanks, più la rete del Kgb e finanche due spie italiane al soldo di Mosca. E i due spioni erano un sacerdote e un medico, entrambi membri della Caritas. Mentre i comunisti italiani si coprono di vergogna, inneggiando ai carnefici («... è mia opinione che una protesta contro l'Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa... non fosse intervenuta... per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo», Togliatti, 6 novembre 1956), Sogno mette in gioco la pelle per la libertà dei magiari. Passato clandestinamente il confine, Edgardo mostra per l'ennesima volta il coraggio di cui son capaci i grandi italiani: esorta, raduna e organizza la Resistenza, formando in pochi giorni un'unità combattente di circa cento partigiani e un nucleo di corrieri addestrati a bucare la frontiera. È l'impegno di sempre, il seguito delle gesta del comandate Franchi, l'ufficiale del Nizza Cavalleria che combatte ovunque il totalitarismo, rosso o nero che sia. Così Sogno, pur con i suoi pochi mezzi, strappa al plotone d'esecuzione decine e decine di studenti, professori, sacerdoti, giornalisti, militari, operai. Non solo primula rossa, anche homo faber, capace di fare e di organizzare. Crea un centro estero della Resistenza ungherese a Genova Voltri: grazie a questa struttura si ricevono notizie dettagliate sui focolai di resistenza, sul numero dei caduti, sulle deportazioni, sui condannati a morte. Il governo italiano dapprima approva, incoraggia e sostiene, impegnando i servizi segreti, poi si tira fuori, abbandonando al loro destino patrioti, centro estero e Sogno stesso. Edgardo è, però, uomo di una sola parola: lui non è Taviani, non lascia il manipolo degli esiliati e di tasca sua manda avanti il centro di Genova Voltri. La Dc, già tesa al "dialogo", non solo tradisce, cerca anche di nascondere il lampo di coraggio e, perciò, secreta subito il dossier Ungheria. Quel fascicolo negato a Violante sarà preso dal circo mediatico-giudiziario come una copertura di Stato a chissà quali losche attività di Edgardo. E, invece, conteneva l'impresa del nostro Byron, capace di accorrere ovunque e dovunque promuovere il Risorgimento dei popoli. Inquietanti destini paralleli marcano, dunque, la storia d'Italia: chi fu a fianco dei patrioti ungheresi fu ricompensato dalla Repubblica con il carcere, costretto, per giunta, a morire con la nomea di golpista; chi, invece, si schierò con i carnefici è stato premiato con il Quirinale. Napolitano - è il modo migliore per farsi perdonare - restituisca alla nostra e alla sua storia equità e verità, onorando Edgardo Sogno, il grande italiano che nel novembre 1956 corse in aiuto dell'Ungheria. Unica certezza: le truppe Onu le prendon sempre di RENATO BRUNETTA Mi è bastato cliccare sul sito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (www.un.org), per trovare la tragica storia delle forze Unifil (United Nations Interim Forces in Lebanon). Una storia di risoluzioni faticosamente approvate e di difficili negoziati internazionali. Una storia che ha ferito sia il popolo israeliano che quello libanese e che non ha lasciato indenne neanche il personale Onu. Dio non voglia che tutto questo si ripeta. Qui di seguito diamo conto della tragica trappola che da 28 anni ha imbrigliato le forze Unifil nel teatro dei conflitti israelo-libanesi. Forse, anche per il governo Prodi, sarebbe stato il caso di fare un onesto bilancio dei risultati ottenuti durante questi anni. Una riflessione necessaria se vogliamo evitare il ripetersi di errori commessi in passato, come il mancato disarmo di Hezbollah o l'esigenza di un più fermo dialogo con le autorità iraniane e siriane (Iran e Siria forniscono le armi alle milizie Hezbollah), o le difficoltà che il governo libanese ha sempre riscontrato nel riprendere il controllo del Paese. Mandare i nostri soldati (subito 2496 uomini che saliranno a 2680 quando l'intera operazione sarà dispiegata) sul fronte della tormentata "linea blu" che segna il confine tra Israele e il Libano, con l'applicazione del codice militare di pace e non quello di guerra come in Iraq ed Afghanistan, lasciandoli in balia degli attacchi terroristici delle milizie Hezbollah e del fuoco di rappresaglia israeliano, potrebbe trasformarsi in un disastro. Per comprendere meglio lo scenario che dovranno affrontare i nostri militari nella missione denominata "Operazione Leonte" (antico nome del fiume Litani che delimita la zona teatro degli scontri al confine con Israele) vediamo, pertanto, di ricostruire le tragiche tappe della presenza delle forze Unifil in Libano. Un contingente di pace che, con lo scoppio dell'ultima crisi dello scorso 12 luglio, ha registrato l'ennesimo sostanziale fallimento dell'azione di stabilizzazione della regione. Ed anzi, ha messo in serio pericolo lo stesso personale delle forze internazionali che si sono trovate, si trovano e potrebbero trovarsi ancora in mezzo ai fuochi incrociati dei raid aerei israeliani e dei missili degli Hezbollah. Il fatale quanto drammatico attacco aereo israeliano che ha colpito il 26 luglio scorso la base Onu di Khiyam è solo l'ultimo degli esempi. Gli anni '70 e la prima invasione Nei primi anni '70, la tensione lungo il confine israelo-libanese è aumentata in seguito allo spostamento di elementi armati palestinesi dalla Giordania al Libano. L'11 marzo 1978, un attacco dei commando palestinesi contro Israele, rivendicato successivamente dall'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), ha provocato molti morti e feriti fra la popolazione israeliana. La rappresaglia delle forze militari israeliane non si è fatta attendere e la notte del 14-15 marzo del 1978, l'esercito israeliano invade il confine libanese e nel giro di pochi giorni occupa l'intera parte meridionale del Paese eccezion fatta per la città di Tiro e la sua zona circostante. Il 15 marzo 1978, il governo libanese protesta formalmente e fortemente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro l'invasione israeliana, affermando che il Libano non ha avuto alcun collegamento con l'operazione palestinese, che pur si è svolta nel suo territorio. È il via di un logorante conflitto che da allora, nonostante alcune parentesi di apparente tregua, non smette di minacciare la pacifica convivenza nella regione. La situazione precipita ed è oramai inevitabile un intervento delle Nazioni Unite. Così attorno al tavolo del Consiglio di Sicurezza, il 19 marzo 1978, la diplomazia internazionale trova un importante accordo adottando le risoluzioni 425 e 426, con le quali si rivolge ad Israele per l'immediata cessazione della sua azione militare e il ritiro delle sue forze da tutto il territorio libanese al fine di ristabilire la pace e la sicurezza internazionale e si impegna ad assistere il governo del Libano affinché possa riprendere il controllo e l'autorità nella zona sud del Paese. Per assicurare tutto questo il Consiglio di Sicurezza dell'Onu decide l'invio immediato di una forza provvisoria di pace delle Nazioni Unite in Libano, l'Unifil. Le prime truppe Unifil arrivano nella regione il 23 marzo 1978. E da questa data diventano forze permanenti nel territorio di confine israelo-libanese, tant'è che con ripetute risoluzioni (tra le più importanti se ne possono contare 25), viene di volta in volta prorogato il mandato. In definitiva un triste déjà vu che dal 1978 in poi si ripeterà nella storia delle tensioni israelo-libanesi e che ricalca esattamente la dinamica della crisi scoppiata lo scorso 12 luglio 2006 quando Hezbollah, con il lancio dei famigerati missili "Katiuscia", provoca l'esodo della popolazione di Israele residente nelle città di confine, inclusa Haifa, terza città del Paese, centro industriale e principale porto israeliano. I negoziati per il ritiro di Israele Nel giugno 1982 Israele invade nuovamente il Libano raggiungendo e circondando Beirut. Allora il veto della Russia non permise l'accordo del Consiglio di Sicurezza per una nuova risoluzione. La gravità della situazione e l'emergenza del problema furono, tuttavia, superati creando una forza internazionale sulla base di accordi bilaterali tra i governi di Stati Uniti, Francia e Italia con il Libano. In questo caso l'intervento era sganciato dall'Onu e per questo motivo le rispettive forze militari rispondevano ai singoli governi impegnati e non come avviene per le forze internazionali Unifil che rispondono direttamente al Consiglio di Sicurezza tramite il Segretario Generale delleNazioni Unite. Questi primi anni di presenza nel territorio hanno subito fatto emergere l'impotenza dell'azione del contingente Unifil , che è rimasto dietro le linee israeliane, con un ruolo limitato ad assicurare la protezione e l'assistenza alla popolazione locale. 1983-1985. Passano altri tre anni e, nonostante, Israele abbia effettuato un ritiro parziale delle sue forze armate dal sud del Libano, le ostilità continuano. Da un lato sono schierate le forze israeliane ed ausiliari, dall'altro i gruppi libanesi che minacciavano la stabilità del confine israeliano (Hezbollah). Sono anni difficili di attacchi Kamikaze e di dirottamenti aerei che seminano morte, non solo tra i militari, ma anche tra i civili. Il 18 aprile 1983 un'autobomba uccide 17 americani nell'ambasciata Usa di Beirut. Qualchemese dopounattacco suicida di estremisti sciiti fa saltare le installazioni militari Usa e francesi a Beirut. Muoiono 241 marines e 58 parà francesi. Il 20 settembre 1984 un'autobomba all'ambasciata Usa di Beirut uccide 16 persone e ferisce l'ambasciatore. Un tragico bollettino di guerra dagli alti costi in termini di vite umane. Ancora una volta tutto questo sotto gli occhi e l'impotenza dei caschi blu e in barba alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Tuttavia, sebbene si sia impedito ad Unifil di adempiere pienamente al suo mandato, la forza si è impegnata per limitare il conflitto e proteggere la popolazione della regione colpita. Nonostante l'impasse, il Consiglio di Sicurezza si è trovato, dunque, costretto a reiterare il mandato di Unifil, non ancora esaurito rispetto alle due risoluzioni del 1978, sia su richiesta del governo del Libano che sulla stessa raccomandazione del Segretario Generale Onu. Gli anni passano e il lento lavoro della diplomazia di fatto rallentano il progressivo ritiro delle forze armate di Israele che rimangono fino al giugno 2000. Nel frattempo, il governo del Libano continua a chiedere che Unifil rimanga per completare il mandato stabilito. Con la partenza, poi, delle forze armate di Israele, si imponeva lo schieramento delle truppe Unifil sulla "linea blu", visto che le autorità libanesi non erano ancora riuscite a prendere il controllo di alcuna zona sgomberata da Israele. Contemporaneamente al ritiro degli israeliani, infatti, le milizie di Hezbollah avevano occupato la zona, prendendo di fatto il controllo lungo il lato libanese della linea blu. Dal 2001 alla crisi del luglio 2006 Gennaio 2001. In una delle sue periodiche relazione sullo stato della missione in Libano, il Segretario Generale delle nazioni Unite Kofi Annan, afferma che: «dei tre incarichi del mandato, Unifil ha essenzialmente completato i due terzi. Ha confermato il ritiro delle forze israeliane ed ha aiutato le autorità libanesi a riprendere il controllo sulla zona sgomberata da Israele». La gran parte, però, e non tutta visto che Annan osserva ancora che: «Unifil non può, tuttavia, obbligare il governo libanese a prendere il controllo anche sull'ultima fascia che comprende la linea blu». In definitiva dopo il ritiro israeliano e il progressivo ristabilimento del potere del governo libanese, restava ancora aperto un fronte: quello più critico che si rivelerà la micciache ha fatto scoppiare la crisi il 12 luglio del 2006. Il 14 febbraio 2005 il mondo assiste all'assassinio del premier libanese Rafiq al-Hariri (le truppe siriane che fomentavano la guerra civile sono state ritenute responsabili). Nel gennaio 2006, infatti, la situazione sul confine israelolibanese comincia a dare preoccupanti segnali di una crescente tensione. Kofi Annan fa appello alle parti per non mettere in pericolo le vite dei civili residenti nella regione e invita le autorità libanesi a ripristinare il controllo della zona di confine a sud, chiedendo di schierare le necessarie forze per proteggere la popolazione e per arrestare gli attacchi di Hezbollah verso Israele. Inoltre, invita Israele a cessare le incursioni aeree nello spazio aereo libanese. Nel suo successivo rapporto di luglio su Unifil, il Segretario Generale ha poi considerato che per il periodo dal 21 gennaio al 18 luglio 2006, l'inizio di nuove ostilità (il 12 luglio 2006) ha «radicalmente cambiato il contesto» nel quale la missione fino ad allora aveva operato. Durante questi anni, caratterizzati da tensioni e preoccupazioni sempre crescenti, per dare una svolta sono state approvate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite le risoluzione 1559 e la 1680. Due risoluzioni che in sintesi ribadiscono il mandato della risoluzione del 1978, ma che in più vogliono impedire il traffico di armi e occuparsi dello scioglimento delle milizie armate in Libano. Cosa essenziale per la stabilizzazione dell'area. In particolare il Consiglio di Sicurezza, nella risoluzione 1680, nota "con rammarico" che non hanno avuto esito alcune delle richieste contenute nella sua risoluzione 1559, nello specifico per quanto riguarda "lo scioglimento e il disarmo delle milizie libanesi e non, l'allargamento del controllo del governo libanese su tutto il suo territorio, il rigoroso rispetto della sua sovranità, integrità territoriale, unità e indipendenza politica, libere e giuste elezioni presidenziali, secondo le previsioni della Costituzione libanese, senza interferenze e influenze esterne". Un chiaro riferimento a Damasco e un'ulteriore pressione perché la Siria cooperi alla piena realizzazione della sovranità libanese. L'impotenza della vecchia Unifil 12 luglio 2006. Ore 9: lancio di missili Katiuscia e spari dal Libano su Israele. Colpiti palazzi e civili, 4 feriti israeliani. Mentre il nord di Israele è oggetto di attacco, scatta l'operazione di Hezbollah: un loro commando entra in Israele e uccide tre soldati, due vengono rapiti. Appena gli israeliani se ne accorgono, partono con un carro armato alla ricerca dei 2 ragazzi rapiti. Il blindato viene fatto saltare per aria: sono 6 i soldati morti. Basate a Naqoura, nel Libano del sud, le truppe Unifil sono costituite da circa 1.990 uomini. La forza era, dunque, limitata persino nelle attività di base, quali la protezione del proprio personale. Inadatta, dunque, ad affrontare la crisi che si era scatenata, ma inadatta anche a prevenire lo scoppio della crisi stessa. Uno continuo scambio di fuoco tra le milizie Hezbollah e le forze israeliane è continuato fino al 16 agosto quando l'esercito israeliano ha iniziato il ritiro dal territorio libanese e contemporaneamente l'esercito libanese ha inviato le proprie truppe a sud del fiume Litani con il supporto di Unifil. Bilancio di 28 anni di ripetute crisi Fare un bilancio delle vittime Onu, non per cinismo ma per amore di verità, dopo 28 anni di scontri armati è assai difficile perché una vera stima non esiste; per le truppe Unifil i caduti sono stati 258 (249 soldati, 2 osservatori, 7 civili), cui vanno aggiunti 241 marines e 58 parà francesi. Stessa cosa se si vuole fare un bilancio del costo economico. Da una nostra stima possiamo ragionevolmente considerare un esborso complessivo tra i 6 e i 10 miliardi di dollari in quasi trent'anni di presenza Unifil nel Paese dei cedri. Viteumane e soldi che non hanno portato alcun risultato. È da augurarsi che la Unifil 2, la nuova missione, abbia esiti diversi. Repubblica e l'Unità: la retorica dei pacifinti di RENATO FARINA Repubblica ha titolato la sua prima pagina, a grandi caratteri, così: «Libano, salpano le navi» (martedì, 29 agosto). E i sommergibili? Forse non lo si dice per pudore, ma viaggiano di certo rapidi e invisibili. E i dirigibili? Ah già, non ci sono più. Peccato. Il quadretto sarebbe perfetto. Quella di Repubblica è pura retorica guerresca. Lo diciamo con una certa ammirazione. A noi non è mai riuscito di essere ad un tempo solenni e scarni, patriottici e persino poetici. Le navi salpano, sventola il tricolore, i marinai salutano le mamme e le fidanzate sul molo. La fotografia mostra l'abbraccio di due ragazze in lacrime. Le navi salpano, ok. Ma poi? Come procedere? Avevamo previsto un crescendo. Prevedevamo un altro titolo del tipo: «Libano, le navi solcano le onde», e sarebbe stato perfetto, perché le navi navigano, qualche volta attraccano. Invece hanno scelto una prosa più modesta: «Le navi verso il Libano». Ma è una minimizzazione voluta, una specie di piattaforma per lanciare il missile da Istituto Luce. Così la seconda parte del titolo è finalmente all'altezza dell'ora fatale: «Prodi: missione storica». Il testo di corredo espone le modeste parole del premier: «Una missione di enorme portata storica». Ma chi era Napoleone? Un Signor nessuno. La gigantografia mostra Prodi, con il vestito spiegazzato e sbattuto dal vento, sulla portaerei Garibaldi, e dietro si scorge un cacciabombardiere. Che casino avevano fatto quelli di sinistra quando si pensò di spedire qualche aereo in Afghanistan contro Al Qaeda, e infatti non partì: la Costituzione lo vieta. Ma stavolta no. È la pace che li vuole. Oggi sono costretti a dire: «Missione difficile». D'Alema spiega che se la Siria pensa di far arrivare armi agli Hezbollah, «non staremo con le mani in mano». Ci permettiamo di tradurre: preparatevi, ci saranno morti. La retorica prepara sempre delle bare. Un giornale che si chiamava il Regno era stato meno ipocritica nel 1904, allo scoppio della guerra russo-giapponese: «La guerra, finalmente, è scoppiata». Ma quelli non erano pacifinti. C'era gente come Prezzolini e Papini. Questi invece fanno credere che è scoppiata l'allegra pace, se ci saranno battaglie, saranno mitragliate e granate arcobaleno, che gioia. Sono i tempi di Ulivo & moschetto pacifista perfetto. Non a caso il Manifesto ha salutato con la sua copertina la manifestazione contro la guerra di Assisi, benedetta dai frati e svoltasi nell'adorazione del Dio Onu e delle truppe sì ma col casco blu, con questo slogan: «I soldati arcobaleno». La tuta è poco mimetica, ma si muore più contenti. L'Unità però batte tutti. Se i sommergibili di Repubblica sono rapidi e invisibili, l'esercito patriottico del governo di sinistra è per l'Unità una saetta. Un fulmine di guerra, come si usa dire. Ecco il titolo scandito sul ritmo di una marcia marziale: «Oggi in Libano, domani a Gaza». E dopodomani ad Addis Abeba? O a Timbuctu? Il sottotitolo (detto catenaccio) marca: «Partiranno 2500 soldati». Un mitologico blitz da guerrieri su cavalli volanti. «D'Alema: "L'obiettivo? La pace nella regione" ». Questi sono i giornali più progressisti di tutti, noti per la severità con cui hanno censurato le bandane di Berlusconi e le pacche sulle spalle ai grandi del G8. Ora vibrano per la chioma scompigliata di Prodi e la cravatta al vento. I Tg hanno anche una venatura più commossa. Le navi salpano, le eliche girano nel mare, l'Italia è tornata tra i grandi. Rifondazione comunista approva. L'Ucoii marcia compatta, e ascolta plaudendo i frati, per spingere le navi più in fretta sia possibile. Ma lo sanno che ci sarà la guerra? L'hanno detto al popolo italiano? Forse no. Abbiamo trovato un antecedente politico molto interessante che offriamo all'uso futuro di Massimo D'Alema e dei giornali sostenitori a scatola chiusa della missione: «La guerra... ha scosso le masse, le ha risvegliate. La guerra ha dato un impulso alla storia, ed ora essa vola con la rapidità di una locomotiva. Milioni e decine di milioni di uomini fanno ora, essi stessi, la storia». Lenin, 12 marzo 1918. Purché le guidino le avanguardie di sinistra. Ma almeno ditecelo. My Speed Limit ??? 400 Km/h |