Nick: ADP Oggetto: Una storia un po' lunga... Data: 16/2/2004 13.50.11 Visite: 206
Dovrei studiare, ho un esame tra due giorni, ma ho voglia di scrivere una cosa. Parlare con dei ragazzi, in chat, m'ha fatto tornare in mente un sacco di ricordi, e un po' m'ha anche intristito. Il fatto è che a volte mi sento un vigliacco, mi guardo e credo d'aver rinunciato a qualcosa perché semplicemente non avevo la forza di portare avanti le mie idee. Altre volte invece mi sento in pace con me stesso, da questo punto di vista, e ritengo la mia scelta legittima. Sto per raccontare un piccolo pezzo della mia vita, perché sento di doverlo fare, non so, magari mi farà stare un po' meglio con me stesso, o forse no. Comunque lo faccio, ci provo, ma sconsiglio a tutti di leggere, sarà molto noioso. E' una cosa che faccio per me, non per voi. Da ragazzino, misi dei soldi da parte, pochi soldi, per comprare una chitarra. Una Yamaha CG100-A, uno schifo di chitarra, ma comprata coi miei soldi... mi sembrava un mito. Cominciai a suonare perché credevo facesse molto figo suonare la chitarra, le canzoni, i falò, quella roba lì. Continuò così per poco, con i libretti "la chittarra in 7 giorni" ecc.. le solite canzoncine che uno impara quando prende una chitarra in braccio. Ma dopo poco mi appassionai, mi piaceva la chitarra elettrica, mi piaceva quel sound, il personaggio del chitarrista, ed era una cosa che trascendeva l'aspetto puramente estetico. Era un "mondo" che mi attirava paurosamente. Non avevo soldi, così decisi di lavorare in un bar, portavo il caffé in giro, per comprarmi una chitarra elettrica. In realtà la cosa durò molto poco, vengo da una famiglia che m'ha sempre impartito un'educazione rigidamente borghese (al di là di ciò che poi mostro d'essere), ed i miei, notando che il proprietario del bar mi sfruttava, mi cazziava, per 50.000 lire la settimana, decisero di darmi i soldi che mi mancavano per comprare la chitarra, e permettermi di continuare gli studi in santa pace. Così riuscìi a comprare una chitarra elettrica, con pochi soldi, una Yamaha Pacifica (marca che poi in seguito avrei odiato a morte, e che ancora non posso sopportare), modello base. Mi appassionai al rock, ascoltavo i Guns 'n Roses, cercavo di rifare i soli di slash, compravo le parti, e cannavo puntualmente tutti i passaggi più veloci. Suonavo "Don't cry", "Patience", e mi dannavo con l'assolo di "Sweet child of mine", era troppo difficile per me (...sigh!). Chiesi a mia madre (perché mio padre già era andato via) di poter prendere lezioni di chitarra elettrica, e lei m'accordò il permesso in cambio di un mio impegno circa i voti scolastici. Un mio zio che suonava decentemente la fisarmonica, e stava nell'ambiente, mi consigliò un chitarrista, dicendomi che era un ottimo rockettaro, ma in realtà tutto faceva tranne che rock. Lui reputava che il jazz fosse la scuola migliore, per insegnare la musica, la teoria, la tecnica, l'armonia ecc. Di questo, di quest'inganno, gli sarò sempre grato. Senza esserne cosciente, cominciai a prendere lezioni di chitarra jazz, il mio maestro (con cui poi avrei avuto un bel rapporto al di là delle lezioni) era un appassionato di Pat Metheny, così iniziai ad avere familiarità con lo stile. Sarei rimasto, in futuro, indissolubilmente legato alla figura di Pat, per me un eroe, un mito, leggenda. Dire che nutro verso di lui un affetto incommensurabile sarebbe poco. E così, invece di preoccuparmi di avere i capelli lunghi, di comprare miriadi di effettini per la chitarra, e di identificarmi col mondo (con lo status) rock da quattro soldi (perchè era quello che precedentemente m'attirava), suonavo con la chiterra direttamente nello stereo, senza effetti, senza niente. Non avevo un amplificatore, e non mi dannavo più di tanto. I miei problemi cominciarono a diventare "come suonare su quel ciclo così difficile, come ottenere quella sostituzione dal suono così dissonante, come avere un suono ovattato ed accattivante, come far sì che la mia chitarra suonasse come un fiato, e non come una chitarra, ecc..". Andai sempre più dentro al jazz, amando i fiatisti, Parker (che per me, per il resto del "mio" mondo era, ed è ancora, Bird), Coltrane ("Trane"), Paul Desmond, Dizzy Gillespie (Diz), Armstrong (Satchmo), i pianisti, Bill Evans su tutti, Bud Powell, Thelonious Monk, Lennie Tristano, fino ad arrivare a Jarrett, e al grandissimo Brad Meldau. Chitarristi ne seguivo pochi, Joe Pass, Jim Hall, Pat Metheny, Wes Montgomery, George Benson ed altri, ma fondamentalmente ciò che m'attirata era il fraseggio fiatistico. Trascorrevo giornate intere a studiare l'Omnibook di Charlie Parker, e a riprodurre i suoi solos in diverse tonalità. Cambiai maestro, sentivo l'esigenza di studiare il bop approfonditamente, così decisi di rivolgermi a colui che, oltre ad essere un chitarrista assolutamente incredibile, sarebbe poi diventato per me una sorta di padre, un amico, ed un esempio di vita, Pietro Condorelli. Ho sempre creduto, ed ancora lo penso, che noi napoletani, chitarristi appassionati di jazz, siamo molto fortunati ad avere Pietro qui, a Caserta, perché lui fa veramente parte del patrimonio nazionale jazzistico, ed in Europa fa mangiare la polvere ad una moltitudine di musicisti, ma non solo in Europa. Pietro mi insegnò a suonare il bop, ad avere quell'approccio scientifico alla musica che mi mancava, ad analizzare un solo come si deve, a trascrivere, a leggere bene, a suonare Giant Steps a 300 di click. In pratica, mi rese professionalmente competitivo con la massa amorfa di chitarristi jazz popolanti la scena. Studiavo circa 8 ore al giorno, insegnavo, la musica prendeva tutta la mia giornata. Non ce la facevo più a studiare per la scuola, così, con enorme dispiacere della mia famiglia (in gran parte insegnanti) l'abbandonai. A 18 anni circa... davvero non fu una scelta piacvole per i miei. Ma d'altro canto, non potevo andare avanti così, m'avevano già bocciato 3 volte, e alla musica non potevo rinunciare. Mi diedi totalmente alla musica, ed iniziai a formare i primi gruppi "professionistici". Non dimenticherò mai le stupende lezioni avute suonando con Marco Sannini, stupendo trombettista, con lo stesso Pietro, la tourné d'inferno fatta con Salvatore Tranchini (batterista che non ha nulla da invidiare a personaggi come Adam Nussbaum, Roberto Gatto, anzi..., un fenomeno, lo credo ancora, peccato per il suo umore "variabile"...), Vittorio Pepe, ed altri professionisti della musica jazz. Non fui sfortunato come capita a molti, loro mi accoglievano come un figlio, mi pagavano prove, spese di autostrada e benzina, e venivano a suonare con me per quattro soldi. Delle persone stupende. L'insegnamento assunse connotati un più seri ed impegnativi, cominciai ad insegnare in posti un attimo più importanti di casa mia (collaborazione a Spazio Musica, Università Federico II, ed altro), ero completamente preso dalla musica, ma mi stavo esaurendo. La mia testa non ce la faceva più, e spesso, dopo aver suonato, piangevo. Iniziai a bere un bel po', non suonavo senza aver bevuto prima, e dopo i concerti, soprattutto quelli più importanti, mi ritiravo da qualche parte a piangere. Non ero mai soddisfatto di me stesso. Mio padre, qualche anno prima, dopo aver saputo dei miei voti pessimi a scuola, mi aveva telefonato per dirmi che ero un pazzo, che lui non era riuscito a fare il musicista, e che quindi non ci sarei riuscito neanche io. La mia famiglia mi stava col fiato sul collo, voleva che io, in qualche modo, motivassi il fatto che avevo lasciato gli studi scolastici. Voleva della prove concrete, le piccole recensioni sui quotidiano non andavano più bene, dovevo "mettermi a posto". Questo mi spingeva ad essere cattivo con me stesso, a chiedere sempre di più, a voler strafare, mi caricava negativamente, ed io ero arrivato ad un punto in cui non sopportavo più la tensione. Suonavo, e per me le serate andavano sempre male. Così, dopo aver suonato, stavo male. Mi sentivo una nullità. Iniziai a dare la colpa del mio stato d'animo alla musica, poco a poco, iniziai a non sopportarla più. Ogni volta, prendere la chitarra, era una sfida, una prova da dare a qualcuno. La musica non era più un piacere, ma un mostro che mi assillava, e mi torturava psicologicamente. Mia madre volle provare a farmi prendere il diploma alla scuola pubblica, ma avrei dovuto prepararlo a casa, ovviamente senza seguire. Non lo feci, ma nonostante tutto, lei aveva pagato mezzo milione di tasse, mezzo milione per la sua speranza di vedermi con un diploma. Così, il giorno dell'esame di quarta (dovevo fare quarta e quinta), mi disse "va beh, ora ho pagato le tasse, provaci ugualmente..". Io ci andai, mi capitò un tema sull'illuminismo, non sapevo un cazzo, e così inizia a parlare della figura dell'"illuminato" nelle varie culture. Feci un tema lunghissimo, pieno di cazzate che non c'entravano nulla con la traccia. Il prof mi disse "senta, lei dell'illuminismo non sa niente, ma per il tema che ha fatto, metterle meno di 6 sarebbe davvero da infame..". Così passai l'esame di quarta, superando fortunosamente anche le altre prove. E ancora, cosa assurda, superai anche quello di quinta, contro le aspettative dello stesso preside, il quale mi aveva mandato a chiamare per "consigliarmi" di fare la quinta l'anno prossima, che' non era possibile passare l'esame di quarta e quinta assieme. In tutto, avevo studiato 3 giorni, prima della seduta d'esame. E pensare che, a quei poverini dei prof, gli feci anche rimandare una seduta, perché avevo una lezione da fare all'uni, incarico che mi fruttò anche qualche "punto di credito" in più. S'innescò uno strano meccanismo nella mia mente, vedevo la possibilità di lasciare tutto, la mia ansia, la mia depressione, in cambio di una carriera di studi senz'altro più facile, e più soddisfacente (per la mia famiglia). Un mio concerto andato bene era un cazzo di niente, un 26 di mia sorella era complimenti e congratulazioni varie. Si poneva una scelta... avevo un diploma, adesso potevo anche iscrivermi all'università, quel posto dove, avendoci a che fare dal punto di vista lavorativo, avevo visto tante facce felici, ragazze carine... decisi di lasciare tutto. Troncai ogni possibile collegamento coi miei amici jazzisti, e dissi a Pietro che "mi iscrivevo per perdere un po' di tempo, che tanto avrei privilegiato in ogni caso la musica...". Ma sapevo che quello era un addio, e suppongo lo sapesse anche lui. Non mi disse niente, sapeva in che stato fossi, mi voleva molto bene, ero arrivato quasi a vederlo come il padre che non avevo. Così, ora sono all'università, ho una media molto alta, e non studio neanche un quarto del tempo che impiegavo per i miei studi musicali. Pietro da circa 3 anni ha la cattedra al conservatorio, un mesetto fa sono andato a trovarlo, ed abbiamo mangiato qualcosa assieme. Tutto va bene, l'università è un posto magnifico, non sei mai solo, studi con altra gente, e già il fatto che frequenti, per i tuoi è una garanzia. Sono molto lontane le 8 ore chiuso in casa, a sudare con una chitarra che si attaccava materialmente addosso ed un leggio con su qualche parte astrusa di Dave Liebman. Lontani gli affanni per guadagnare 100.000 lire in un locale del cazzo, con gente che parla ed a cui non frega un cazzo di ciò che stai suonando. Sono lontani i pianti per un concerto andato male, lontane le cazziate di Tranchini, lontane le prove da dare ai miei per giustificare la mia "imprudenza". Adesso studiare è bello, c'è la mensa, c'è sempre la luce, e non la persiana della mia stanza mezza abbassata, né gli infissi chiusi per non dar fastidio al vicinato con la musica. C'è aria, si respira, e la gente è soddisfatta. Ma quando penso a Pietro, ai suoi "yeah!", alle battute del cazzo di Vittorio, alle prese in giro a Silvana, dell'Around Midnight, alla puzza di frittura nauseante aspettando di iniziare la serata, alle canne fumate dopo il concerto, a Fabio del Bourbon Street e alla musica di merda che facevamo con Salvatore e i "Digital Drops", alle litigate con lui, ai soli di Marco, agli armonici di Vittorio, mi vengono gli occhi lucidi. A volte mi sento un codardo, altre volte credo che sia stata la cosa giusta. Non so come andrà, non lo so. Forse tornerò a suonare, forse no. Le mie chitarre stanno lì, poggiate al muro, la polvere la fa molto vecchie, o sono io che voglio vederle così. E' una cosa che non ho mai completamente accettato, e neanche rifiutato, ed è un qualcosa che spesso, mi rende triste. Quando capita di ascoltare della buona musica, di pensare alla cappa di fumo che si forma nei jazz club quando si è nel bel mezzo della serata e la gente di "yeah!", e le persone mi chiedono "ehi, a cosa stai pensando? cosa c'è che non va?", beh, io sto pensando a loro, ai miei amici, alla mia musica, e a tutto ciò che ho lasciato.
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