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Nick: POMPEO
Oggetto: Appunti su Gomorra
Data: 19/10/2006 10.39.27
Visite: 257



Nella seconda metà del Novecento alcuni autori, ciascuno seguendo la sua via, realizzano una piena, completa fusione tra fiction e giornalismo.
Sia chiaro: questo non significa "inventarsi i fatti", sposare la "finzione" (traduzione bruta di fiction): significa invece usare nel giornalismo gli stilemi, gli espedienti, le retoriche e le costruzioni tipiche della letteratura.
L'espressione "non-fiction novel" (romanzo di cose vere, inchiesta scritta come romanzo) viene usata per la prima volta all'uscita di A sangue freddo di Truman Capote, nel 1967. Ma quell'anno sono già successe molte cose. In Italia si muove da tempo Gian Carlo Fusco, cronista e romanziere senza soluzione di continuità, autore di reportages e inchieste in cui ha un peso inaudito la soggettività di chi scrive. Il 18 dicembre 1955 "L'Espresso" gli pubblica un articolo, "Morte nella nebbia", sulla scomparsa nei campi - e successiva morte per assideramento - di una giovane contadina schizofrenica. Fusco non si limita alla cronaca, ma "entra nella testa" della ragazza, ne ricostruisce gli stati d'animo, descrive azioni che nessuno può aver visto. E' già una short story, pur rimanendo un articolo di giornale: "La temperatura, verso mezzanotte, scese di colpo. Da quattro gradi sopra zero, calò a tre sotto. Caterina, reagendo a rovescio come ogni pazzo, anziché cercar di coprirsi, prese a spogliarsi. Tolse il golf, la gonna, la sottoveste, le calze, le scarpe. Restò con una maglia leggera e le mutandine, vagante nella notte sorda: bellissima, demente e seminuda, tra i fantasmi scheletriti degli alberi, come un'eroina dell'Ariosto..." Fusco ci ha regalato alcuni libri memorabili, di difficilissima catalogazione, tra narrativa, storia e automitobiografia. Uno dei più grandi scrittori italiani, ovviamente ignorato dalla "critica che sa".
Capote, poi, ha molti compagni di strada. Negli Stati Uniti degli anni Sessanta la simbiosi tra letteratura e reportage si realizza in modo clamoroso, con il cosiddetto New Journalism, autori come Tom Wolfe, George Plimpton, Gay Talese, Hunter S. Thompson... Scrivere l'inchiesta-romanzo, reportages iper-soggettivi, addirittura immersivi. I due binari convergono, si uniscono.
Paper Lion di Plimpton (1964), "Frank Sinatra Had A Cold" di Talese (reportage del 1966), Hell's Angels di Thompson (1966) e The Electric Kool-Aid Acid Test di Wolfe (1967), sono le opere-simbolo del New Journalism, le testate d'angolo dell'intera costruzione. In seguito Tom Wolfe passerà al romanzo-romanzo, Talese perderà la verve, Plimpton continuerà a regalare al mondo grandi reportages in tutto simili a romanzi. Thompson, addirittura, fonderà un sotto-genere, il gonzo journalism, in cui l'immersione del giornalista è realizzata grazie a uno stordimento, la lucidità e l'obiettività scompaiono del tutto, si cerca di descrivere la realtà da un punto di vista estremo e alterato. Quasi superfluo citare il libro più importante di Thompson, quello a cui rimarrà legato fino alla morte, Fear and Loathing in Las Vegas (1971).
Nessuno può negare che questi libri facciano parte della storia della letteratura mondiale. Il neologismo "faction" è il frutto di uno dei tanti tentativi di definirli.
In America molti concordano nell'affermare che il miglior scrittore americano degli anni Settanta fu Lester Bangs, che scrisse quasi soltanto recensioni di dischi e reportages su tournées di musicisti. Il suo unico tentativo di romanzo rimase incompiuto. L'incipit suonava come un contrappunto al mitico reportage di Gay Talese su Sinatra: "Dean Martin had a hard-on". Dean Martin aveva un'erezione.
Oggi il reportage soggettivo o addirittura immersivo, realizzato con tecniche di narrazione letterarie, è ovunque moneta corrente. Tanti, anche in Italia, lavorano nell'intersezione tra letteratura e giornalismo. Il primo nome che viene in mente: Paolo Rumiz. Che non a caso torna alle origini della contaminazione, al reportage di guerra (di scontro di civiltà) che diventa travelogue, e viceversa.
Gomorra non è importante perché fonde letteratura e giornalismo, fiction e non-fiction: quello lo fanno in molti. Gomorra è importante per come lo fa. Un ultimo sguardo all'indietro, poi arriviamo al punto.

...Sbandando e sbattendo contro le sponde, Gomorra s'infila con furia giù per questo scivolo. Non è un "Gronchi rosa" delle Patrie Lettere né una bestia chimerica sbucata dal nulla. Si inserisce in un contesto nazionale e internazionale, in una continuità tra passato e presente. A distinguerlo è una sorta di extrasistole che altera il battito della tradizione. Quell'aritmia è il suo contributo a inaugurare un futuro.
Il modo in cui Saviano realizza la simbiosi tra letteratura e giornalismo è talmente straniante da sembrare ineffabile. In realtà è comprensibile, descrivibile, analizzabile, solo che prima occorre liberarsi di alcuni pregiudizi e arretratezze. In Italia, nonostante i tanti esempi di crossover, siamo ancora abituati a distinguere nettamente tra i libri degli scrittori e quelli dei giornalisti, tra il romanzo e il reportage. A dispetto di tutte le chiacchiere sulla "contaminazione", la critica si è disabituata ad affrontare l'ibrido. Tutt'al più sa rapportarsi a un ibrido "endoletterario" (la contaminazione tra diversi generi di fiction), ma si trova in brache di tela di fronte al meticciato tra ciò che è letterario e ciò che non lo è.
Qualche mese fa, in Francia, è uscito Ma cavale di Cesare Battisti, al contempo romanzo picaresco, travelogue e memoriale difensivo di Cesare Battisti. Un'opera ibrida, in cui una parte della fuga di Battisti viene romanzata (anche per necessità, per coprire contatti e amicizie, depistare le autorità di polizia). Su uno dei più importanti quotidiani italiani ci è toccato leggere, con vago tono di lamentela, che "[il lettore non ha] alcuna possibilità... di verificare le parole [di Battisti]". Di fronte a "oggetti narrativi" che sfidano norme e scavalcano steccati, l'intellighenzia italiota si disorienta e recrimina. Spesso fa confusione, e la confusione diventa un maremoto d'idiozia, e si arriva a discutere di un'opera di fantasia (Il codice Da Vinci) come se fosse un saggio storico... denunciandone le "invenzioni".
In Gomorra troviamo la letteratura del viaggio iniziatico, l'inchiesta militante, cucchiai che affondano in madeleines avvelenate, lacerti di bildungsroman etc. Limitarsi a dire che "Gomorra è un reportage" è un grosso errore interpretativo. Sono forse reportage i capitoli sul padre di Saviano, sull'educazione che ha impartito al figlio, sul loro incontro in una piazza romana gremita fino all'inverosimile?
Sull'ultimo numero di Nandropausa ho cercato di spiegare alcune caratteristiche dello stile di Saviano, del suo modo di costruire la narrazione. Non voglio ripetermi. Mi limito a riproporre un quesito, come spunto per il dibattito: chi è che dice "io" in Gomorra? E' sempre e soltanto l'autore? In subordine: non ha forse a che fare con la natura di quest'io narrante la capacità di Saviano di passare da un genere all'altro, anche nell'arco di pochissime pagine? Quest'io narrante raccoglie anche esperienze altrui e se ne fa ambasciatore. Lo si capisce molto bene leggendo le riflessioni di quest'io sulle scene dei delitti, di fronte a cadaveri con le viscere esposte, acquitrini di sangue etc. Invito a rileggere quelle parti. Chi è quest'io che accorre sempre per primo sui luoghi degli omicidi, ed è sempre tra i primissimi a vedere il corpo?
Qual è il merito di questo io? Senz'altro quello di cucire insieme le storie e metterle nella giusta sequenza, quella iniziatica. Quest'io narrante (e il lettore con lui) supera delle prove lungo un percorso che porta alla consapevolezza. E la consapevolezza giunge: terminata la lettura, ci si accorge che qualcosa è cambiato. Ne sappiamo più di prima. E non capita molto spesso.
Come precisavo poc'anzi, introdurre la fiction nel reportage non significa aggiungere "finzione", non significa inventarsi gli eventi. Significa operare con tecniche letterarie sul modo in cui questi eventi vengono collegati l'uno all'altro, messi nello stesso contesto, comunicati al lettore. Per far questo si ricorre a certe retoriche, si usa il linguaggio in modo non "obiettivo". Ben lungi dall'introdurre "irrealtà" e panzane nel testo, tale "sfondamento" finisce per descrivere una realtà in modo più potente. Si tratta né più né meno del saper raccontare una storia nel miglior modo possibile. Una storia che è vera, in questo caso. Bisogna cercare l'equilibrio: raccontarla bene, benissimo, senza farla sembrare falsa. Trovare la lingua e le retoriche giuste. Saviano ci è riuscito.
Pur riconoscendo la fortissima "letterarietà" del testo, pur individuando alcuni stratagemmi, pur rinvenendo le retoriche, nemmeno per un istante ho dubitato che quanto raccontava Saviano fosse vero. Gomorra è costruito su fonti primarie, scritte e orali. Atti di istruttorie, verbali di dibattimenti, carte di polizia, interviste, soggiorni "immersivi" (come certi corsi di lingue) nei territori della camorra. Ma se questo libro fosse stato semplicemente un reportage, non ci avrebbe fatto capire tante cose sul "Sistema", non ci avrebbe comunicato il senso che la camorra riguardi tutti noi e non solo i campani (io vivo in Emilia-Romagna, una delle regioni a maggiore infiltrazione camorristica, come dimostrano gli arresti di qualche giorno fa), non ci avrebbe fatto riflettere sul nucleo criminogeno del capitale e il suo modo di produrre innovazione, non ci avrebbe messo sottopelle l'urgenza di interrogare le dinamiche del mercato e del consumo.
Alla fine dei giochi, non esiste separazione tra il "come" e il "cosa". Senza capire il come, non si capisce il cosa. E' politicamente importante interrogarsi su com'è costruito il libro, a cominciare dalla natura cangiante dell'io che narra. Questo è il mio invito. So long.


tratto da
Appunti sul "come" e il "cosa" di Gomorra
Supplemento a Nandropausa #10

di Wu Ming 1, 24-25 giugno 2006

http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/gomorra.htm



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Appunti su Gomorra   19/10/2006 10.39.27 (256 visite)   POMPEO
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