Nick: RASTA Oggetto: Confessione di un carabiniere Data: 21/3/2004 17.19.52 Visite: 113
da Reporter Associati: Pubblico il drammatico j'accuse che un > sottoufficiale dell'Arma dei Carabinieri rientrato da Nassirya, in Iraq, > ha inviato alla nostra redazione sotto forma di una lettera-denuncia. Il > sottoufficiale è uno dei militari sopravvissuti al tremendo attentato del > 12 novembre 2003. "Animal House" era soprannominata la Base. Le > difficilissime condizioni di vita dentro la palazzina che verrà poi > distrutta dall'esplosione. La mancanza delle minime norme di sicurezza che > costrinsero gli stessi carabinieri a costruirsi con le proprie mani, e > spesso in modo artigianale, modeste protezioni passive.Quei dispacci > dell'intelligence che a un certo punto non arrivarono più. Eppure sarebbe > bastato così poco per evitare quella strage. > > "Sono un carabiniere, il mio grado non è importante e il mio nome neppure. > E' importante quello che cercherò di scrivere su di noi Carabinieri > inviati a Nassirya, in Iraq. Sono uno di quelli che è sopravvisuto all' > attentato contro la Base italiana il 12 novembre 2003. Ci tengo a dire che > quanto leggerete l'ho scritto perché mi sono sentito in dovere di farlo in > memoria dei miei colleghi deceduti nell'attentato." > > "Lo faccio perché ero convinto che le inchieste amministrative e penali, > aperte nei giorni successivi l'attentato contro il contingente italiano, > avrebbero portato ad accertare manifestatamente responsabilità specifiche, > i nomi e il ruolo dei responsabili sulla mancanza di sicurezza delle > nostre condizioni di vita nella base di Nassirya. Così non è accaduto e, > anzi, mi sembra che si stia procedendo su una strada che porterà > rapidamente a seppellire la verità. Penso sempre di più che tutto quello > che accaduto finirà nel dimenticatoio. C'è stato persino chi ha fatto la > sua bella figura sulla pelle dei miei colleghi morti e di noi > sopravvissuti, elevando così il proprio "indice di gradimento", arrivando > a dichiarare che grazie a quel tremendo attentato è rinato nel nostro > paese "l'amor di Patria". > > "Noi che partiamo, che moriamo, inesorabilmente saremo dimenticati. L'amor > di Patria lo abbiamo sempre vivo nel nostro cuore e nella nostra ragione. > Il nostro "amor di Patria" noi lo portiamo geneticamente nel nostro animo. > Sempre. Ecco, questo è il nostro lavoro in Italia e nelle missioni alle > quali partecipiamo nel mondo. Questo sarebbe dovuto essere il nostro > compito una volta giunti in Iraq". > > "Siamo partiti si perché ci avevano garantito che saremmo stati pagati > bene, a parziale copertura dei rischi ai quali andavamo incontro. Ma > neppure questo si è verificato poiché la nostra diaria giornaliera si è > rivelata di molto inferiore a quella che, non solo ci era stata promessa, > ma che anche qualche ben pensante aveva maliziosamente (o, furbamente?) > fatto circolare nel circuito dell'informazione e dei mass media. Comunque > siamo partiti lo stesso e siamo arrivati in Iraq". > > "Siamo sbarcati all'aeroporto di Tallil per una "missione umanitaria di > guerra", così la definisco io, quasi un controsenso, perché dopo quattro > mesi che eravamo nel teatro di guerra ancora non riuscivamo a capire, né a > sapere, quali erano e dovevano essere esattamente i nostri compiti. Appena > dentro l'aeroporto ci hanno fatto firmare subito un foglio sul quale era > scritto che eravamo sottoposti (qualora si fosse verificato un episodio > contemplato nel codice penale militare) al C.P.M.di Guerra ( codice penale > militare di guerra ). Grande stupore e meraviglia da parte di tutti noi: > eravamo in un territorio dove la guerra era appunto considerata tale, e > non già terminata come ufficialmente proclamato ai quattro venti. E la > nostra presenza era necessaria, quindi, per aiuti umanitari o per altri > scopi che non conoscevamo?. Non l'abbiamo mai saputo". Ci siamo trovati di > fatto soggetti al Codice Penale Militare di Guerra pur essendo considerati > in tutti i sensi, sia professionale che economico, in tutt'altro modo. > Come una Missione in Bosnia o in Kosovo dove almeno lì erano garantiti > livelli di qualità della vita abbastanza decenti". > > "I disagi nell'aprire una nuova missione ci sono sempre stati e sempre ci > saranno. Non è stato questo il problema più importante nei primi giorni di > permanenza a Nassirya. Si dormiva in tende con 50/55 gradi di calore > durante il giorno e senza condizionatori d'aria. Ma questo non era un > problema, siamo Carabinieri e soldati e quindi bisognava adattarsi. Andava > bene così. Non siamo mai riusciti a consumare due pasti completi durante > il giorno. (E nessuno mai ha sollevato questo problema). Ma andava bene > così. Non ci si poteva lavare con acqua pulita perché quella dei lavandini > e delle docce era di colore marrone scuro. Non era un problema, andava > ancora bene così. Tanti sono stati i problemi che abbiamo dovuto risolvere > nelle prime settimane, ma siamo sempre riusciti ad affrontarli con il > nostro spirito militare e con animo sereno pensando che il nostro lavoro > sarebbe servito ai colleghi che ci avrebbero successivamente dato il > cambio". > > "Ma il problema numero uno, il problema che avevamo sotto gli occhi ogni > ora del giorno e del quale parlavamo sempre tra noi era quello della > posizione logistica della Base. Che qualcuno, chissà in base a cosa, > definiva "strategica". Eravamo nel pieno centro abitato, dislocati in due > edifici. Uno era la Camera del Commercio e l'altro il Museo. A dividerci > il fiume. Alcuni di noi andarono al Museo altri invece nella Camera di > Commercio che subito soprannominammo "Animal House", (il perché è facile a > capirsi). L'intera Unità di Manovra, che poi è stata decimata dall' > attentato terroristico del 12 novembre, si trasferì al di là del fiume". > > "La sicurezza non era decisamente il punto forte di queste due basi. Erano > vulnerabilissime. Come poi si è potuto vedere. Io ne sono uscito vivo ma > le ferite che ho dentro di me da quella mattina le porterò per tutta la > vita. Il mio cuore, da quella maledetta mattina del 12 novembre è come se > fosse diviso in 19 piccole parti, ognuna delle quali gronda sangue e > amarezza. Perché quelle morti potevano benissimo essere evitate. Come? > Trasferendoci, ad esempio, in una Base nel mezzo del deserto. Come era > accaduto per dislocare il contingente italiano dell'esercito e come era > stato fatto in precedenza dalle forze armate degli Stati Uniti. E come, > purtroppo, è stato fatto solo dopo. Dopo la strage". > > "Dovevamo essere in mezzo alla gente tra la popolazione civile irachena. > Era questo lo scopo della nostra missione. La popolazione doveva sentirsi > protetta da noi Carabinieri che eravamo di stanza a pochi passi dal centro > abitato. Con la popolazione da subito eravamo riusciti a instaurare un > buon rapporto di collaborazione, ma secondo il nostro parere, avremmo > poturo ottenere il medesimo risultato anche se, con maggior prudenza, ci > avessero fatto prendere Base nel deserto. Non avremmo così dovuto pagare > il tributo di dolore, sangue e morte che abbiamo pagato. Per la > superficialità e l'imprudenza di qualcuno". > > "Io non ci sto alle spiegazioni ufficiali. Io non ci sto a tacere sull' > assoluta mancanza di sicurezza nella quale siamo stati costretti ad > operare. Non può esserci alcuna giustificazione per quello che è accaduto. > Ripeto: la strage del 12 novembre 2003 si sarebbe potuta evitare. E si > poteva evitare". > > "Fin dai primi giorni della nostra permanenza a Nassirya, nella Base > "Animal House", udivamo sempre più frequentemente il rumore inconfondibile > dei colpi d'arma da fuoco. Ci veniva spiegato, per tranquillizzarci, che > si trattava solo di colpi sparati in aria per motivi di festa, in genere > in occasione di matrimoni. E ci rendemmo conto, familiarizzando con i > luoghi e la poplazione, che in parte questa spiegazione era vera. Ma non > del tutto. Presto ci rendemmo conto che molti altri colpi venivano sparati > volutamente contro le palazzine della Base." > > "Allora cosa abbiamo fatto? Autonomamente ci siamo resi conto ed abbiamo > compreso che se quella, proprio in quei luoghi tanto pericolosi, doveva > essere la nostra Base, doveva essere dotata di minime dotazioni di > sicurezza. E così abbiamo fatto da soli, in alcuni casi in modo persino > artigianale, al fine di poter cercare di limitare le conseguenze peggiori > in caso di un eventuale attacco terroristico. Purtroppo, quello che > avevamo costruito con le nostre mani è servito solo a risparmiare la vita > di pochi di noi perché le dotazioni che ci eravamo dati da soli non > potevano far nulla di più di quanto hanno fatto davanti a un attacco > terroristico della portata di quello che abbiamo subìto". > > "Ogni giorno sapevamo che c'erano tre o quattro messaggi di "allerta" per > attacchi terroristici. Ma, ragazzi, eravamo in guerra, (altro che missione > umanitaria!) ed era quindi normale routine ricevere "allerta" di quel > tenore. Tanto è vero che con il passare del tempo, dopo il primo mese di > tensione ed "allerta" continui, non dico che i messaggi provenienti dall' > intelligence non venissero presi con la dovuta considerazione ma, pian > piano, erano diventati, appunto una routine, anche perché molto generici > nei contentuti. Erano diventati una cosa normale. Ad un certo punto i > messaggi di "allerta" non ci arrivarono neppure più. E noi non ci > preoccupammo più di tanto". > > "Noi ci siamo ricostruiti e difesi al meglio la Base da soli, ma e non > finirò mai di ripeterlo quella Base non doveva proprio esistere così > vicino alla strada. E nel dolore che provo per i colleghi uccisi devo dire > che meno male che gli attentatori hanno deciso di attaccare "Animal House" > , perché se avessero deciso di attaccare la base del Museo durante l' > orario ordinario, in quanto la mensa era proprio vicina al muro di cinta > adiacente la strada che attraversa il fiume, di morti ne avremmo contati a > centinaia". > > "Scrivo questo messaggio perché sono assolutamente convinto, conoscendo le > cose delle quali scrivo per esperienza diretta, che quelle morti si > sarebbero potute evitare. E non con una sofisticata strategia logistica, > ma soltanto con un pizzico di buon senso". > > "Scrivo e ho scritto non so neppure io per quale motivo. Perché vorrei > poter gridare al mondo intero tutta la mia rabbia per i colleghi morti. > Perché . perché .. perché . sono tanti i perché. Non riesco ad elencarli > tutti". Tra tutti solo uno è quello che mi sta più a cuore l'aver > ricordato ed aver parlato in memoria dei miei colleghi caduti inutilmente. > Si, inutilemente. Solo così riesco a lenire la mia angoscia per quanto > accaduto quel maledetto 12 novembre". > > "Spero di poter un giorno tornare a dormire sonni tranquilli dopo aver > scritto queste poche righe perché ancora non sono del tutto convinto di > inviarle, perché non vorrei che potessero essere usate in modo diverso da > quello per le quali le ho digitate. Non vorrei che potessero servire in > nessun modo a crare polemiche politiche. Perché questa è l'ultima cosa che > mi interessa. Ciascuno risponderà dei propri comportamenti alla propria > coscienza". > > "Questo è solo lo sfogo di un militare e di un carabiniere, costretto a > rimanere anonimo per motivi evidenti di sicurezza e tutela personale, che > ha perso tanti suoi amici, prima che commilitoni, e che comunque sarebbe > pronto a ripartire anche domani stesso se dovesse essere chiamato e verso > qualsiasi destinazione fosse comandato". > > redazione@reporterassociati.org > > > > www.reporterassociati.org
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