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Nick: Alex
Oggetto: Prodi? peggio di Zidane!
Data: 28/1/2007 14.45.3
Visite: 166

Il premier ha la testa
più dura di Zidane
di EUGENIO SCALFARI

IO LO CONOSCO da trent'anni Romano Prodi. Credo d'averne capito i pregi e i difetti e soprattutto so che è una testa dura, durissima. Lo si capisce anche fisicamente dalla forma: sembra un ferro da stiro o il muso d'un'escavatrice. Perciò non sono stato d'accordo con chi negli scorsi mesi temeva o sperava (secondo le diverse simpatie) che il presidente del Consiglio versasse in uno stato d'incertezza, fosse incapace di decidere alcunché e si fosse rassegnato a galleggiare come un re-Travicello lasciando la barca al furore delle onde, senza timoniere e addirittura senza timone. Di Prodi (scrissi ripetutamente) si può pensare, dire e scrivere il peggio tranne che si acconci a galleggiare. La Finanziaria è opera di Padoa-Schioppa e sua. E' piaciuta a pochi ed è dispiaciuta a moltissimi ma ha avuto sicuramente un pregio: ha riportato in linea i conti della finanza pubblica rispetto ad una situazione difficilissima.
Ormai ne abbiamo la prova definitiva dalle dichiarazioni della Commissione di Bruxelles, della Banca centrale europea e delle giustamente sospettose agenzie internazionali di "rating". Anche il primo e ancora incompleto accordo tra il governo e i sindacati sull'efficienza da raggiungere nella pubblica amministrazione è opera di Padoa-Schioppa e sua.

Si vedrà tra breve fino a che punto quell'accordo sia una vera o una falsa partenza, ma il tema è stato comunque posto e mi sembra difficile che possa essere abbandonato poiché si tratta d'una riforma assolutamente centrale per la modernizzazione del paese. Poi c'è stata la decisione dell'accorpamento di tutti gli istituti di previdenza nell'Inps; opera di Damiano e sua. Ora è arrivata la lenzuolata delle liberalizzazioni, opera di Bersani-Rutelli e sua. Nello stesso giorno è stato approvato il decreto di rifinanziamento della missione militare in Afghanistan. Dall'approvazione della Finanziaria è passato esattamente un mese. Francamente non mi pare che Prodi stia galleggiando. In bicicletta è un passista ma se la cava bene anche in salita. Direi che in politica ha le stesse caratteristiche. Lo si può anche odiare, Romano Prodi, ma chi lo sottovaluta commette un marchiano errore.

***
Il primo effetto della lenzuolata Bersani si è avuto sui "media". Dopo mesi di critiche tambureggianti il consenso e il rilievo sono stati unanimi. Con varia intensità, da chi ha approvato incondizionatamente a chi, pur riconoscendo le buone qualità di quei provvedimenti, ha messo in guardia dall'enfatizzarne l'importanza ed ha avvertito che ben altre sono le liberalizzazioni vere che ancora giacciono sulle ginocchia di Giove.

In particolare: la riforma della pubblica amministrazione, la riforma delle pensioni, il mercato del lavoro, la produttività, la liberalizzazione dei servizi pubblici locali (disegno di legge Lanzillotta da otto mesi all'esame del Parlamento) e nazionali.
Comunque l'effetto mediatico c'è stato. Dire che il governo ne aveva bisogno è un eufemismo. Dopo mesi di cannonate contro, una tregua e addirittura un appoggio dal sistema dei "media" era vitale per Prodi e per il governo, tanto più che il voto unanime del Consiglio dei ministri ha messo in terza fila la polemica tra riformisti e sinistra radicale che era ormai diventata il "leitmotiv" di ogni quotidiana corrispondenza giornalistica.
Quanto alla sostanza politica, le reazioni del centrodestra berlusconiano hanno mostrato un effetto di evidente spiazzamento, come accade sul ring quando il pugile che stava superando ai punti il rivale, lo vede riprendersi all'improvviso e ne riceve un "uppercut" che lo fa cadere al tappeto. Si rialza ma ha perso la sicurezza di prima e comincia a capire che lo scontro sarà lungo assai più del previsto.

* * * *
Dopo l'effetto mediatico e quello politico, vediamo ora la sostanza di queste liberalizzazioni numero due, dopo le prime della scorsa estate. Le associazioni dei consumatori hanno plaudito senza riserve ed hanno anche quantificato i benefici che andranno ai cittadini: da un minimo di 500 ad un massimo di 1.000 euro l'anno. Non è poco. E' vero che le cifre medie sono ingannevoli ma questa lo è meno delle altre: il consumatore è infatti un soggetto sociale a massima diffusione; quale che sia il suo stato civile, l'età, il sesso, la professione, il reddito, siamo tutti consumatori e i prodotti e i servizi coinvolti nelle liberalizzazioni di Bersani coprono un larghissimo spettro di consumi. Quelle cifre medie perciò si avvicinano molto alla realtà di ciascuno. Per di più si tratta di riforme senza spese, altro pregio non indifferente in tempi di ristrettezze.
La montagna ha partorito un topolino, come dice Fini? Diciamo che non ha partorito un bisonte. Ma ha avviato con forza un processo cui seguirà tra pochi giorni un altro gruppo di provvedimenti di crescente importanza: la revisione dei compiti, dei poteri e del funzionamento delle Authority, l'abolizione di alcune di esse rivelatisi ora inutili e infine la fondazione di altre tra le quali una, necessaria, per i Trasporti e un'altra proprio per le liberalizzazioni.
E poi la soluzione, affidata a Padoa-Schioppa, del problema della rete Snam Gas, che ha subito una battuta d'arresto nell'ultimo Consiglio dei ministri ma che dovrebbe tornare a palazzo Chigi entro i prossimi quindici giorni. Qui parlare di topolino sarebbe decisamente azzardato. Prodi ha invitato Berlusconi a portare in Parlamento le sue proposte di ulteriori liberalizzazioni ed ha prefigurato una commissione bilaterale "ad hoc". Finora ha ricevuto solo sprezzanti dinieghi ma sarà questa volta assai difficile per il centrodestra trincerarsi dietro cortine di fumo. Si dicono liberali e liberisti della prima ora; hanno governato per cinque anni senza fare un solo passo avanti in quella direzione; in più hanno infitta nel fianco la spina Casini che, soprattutto su un tema di questo genere, diverrà sempre più acuminata. Sembra perciò estremamente difficile che i berlusconiani si attestino sulla linea del "niet".

* * * *
Veniamo al club Giavazzi, anzi a Giavazzi "tout court". Sul "Corriere della Sera" di ieri, commentando con misuratissima sufficienza le liberalizzazioni effettuate ieri l'altro, Giavazzi ha lanciato un nuovo allarme sullo stato d'opera per quanto riguarda le liberalizzazioni dei servizi pubblici locali e in particolare di quelli affidati e gestiti da aziende comunali, sulla cui volontà liberalizzatrice Giavazzi è estremamente scettico.
Ma ha lanciato anche un nuovo tema: l'irizzazione che sarebbe in corso per raggruppare in un'unica mano la proprietà delle tre grandi reti nazionali: quella elettrica (Terna), quella metanifera (Snam Gas) e quella telefonica (Telecom Rete Italia). Giavazzi chiama quest'operazione capitalismo di Stato, la deplora senza se e senza ma e scioglie ancora una volta l'osanna al mercato, luogo di salvezza e di guarigione di tutti i mali (come le acque di Lourdes).
Personalmente sono anch'io - nel mio piccolo non bocconiano - un fautore del libero mercato senza però attribuirgli quelle virtù taumaturgiche che altri gli riconoscono. Ho sempre pensato che il mercato sia una costruzione artificiale che sta in piedi solo se i pubblici poteri ne difendono con apposite regole e apposite istituzioni le deboli virtù concorrenziali e ne contrastino invece le fortissime tentazioni oligopolistiche e monopoloidi che gli sono connaturali.
Ho appreso a suo tempo dalla sapienza di Luigi Einaudi che quando ci si trova di fronte ad una forma di quasi-monopolio tecnico è meglio affidarne l'esercizio al potere pubblico che lasciarlo in mani private. E proprio per questa ragione fui tra quelli che nel 1962-63 (Giavazzi, beato lui, era ancora bambino a quell'epoca) si schierarono per la nazionalizzazione dell'industria elettrica. Anche allora su quasi tutti i giornali, largamente influenzati dagli industriali elettrici, il mercato veniva invocato ad altissima voce trascurando il fatto che di mercato non c'era neppur l'ombra. L'industria elettrica era infatti nelle mani di quattro o cinque imprese private trustificate tra loro, che finanziavano con fondi neri i partiti di governo nonché la pubblica amministrazione ottenendo tariffe ricavate dai prezzi dell'azienda marginale, con rendite di monopolio di tipo addirittura ricardiano.
La nazionalizzazione si fece, l'Italia non restò al buio come avevano vaticinato l'Assolombarda e la Confindustria, e la politica dell'energia andò avanti senza particolari intoppi procurando al Tesoro cospicui dividendi.
Purtroppo gli imprenditori ex elettrici, con i soldi ottenuti come corrispettivo dell'esproprio, si cimentarono con l'industria manifatturiera, specialmente chimica e petrolchimica, e sperperarono in iniziative fallimentari centinaia e migliaia di miliardi dimostrando così che un conto è gestire un'impresa di servizi in condizioni di monopolio e un altro conto è misurarsi sul mercato concorrenziale.
Le condizioni tecnologiche sono diverse da allora ed è stato, credo, utile liberalizzare di nuovo il mercato elettrico e altri servizi pubblici di analogo peso, anche se le liberalizzazioni procedono assai più lentamente di quanto si vorrebbe.
Ma se c'è un settore che forse meriterebbe di restare in mano pubblica, questo è la rete che è un servizio pubblico propriamente detto, cioè una struttura di trasporto aperta alle richieste dei produttori di energia in concorrenza tra loro. Di rete ce n'è una. O la si dà in concessione ad un privato (possibilmente attraverso una gara pubblica) o si affida einaudianamente alla mano pubblica. Il concessionario privato non è un'opera pia; vorrà trarre profitto dall'esercizio della rete; la mano pubblica invece può (secondo me deve) gestire un esercizio "no profit". E semmai un profitto ci fosse, al netto del necessario autofinanziamento per gli investimenti, dovrebbe riversarlo al Tesoro.
Lo stesso ragionamento si può logicamente estendere alla rete metanifera della Snam e a quella telefonica di Telecom.
Giavazzi avrà certo buoni argomenti per contrastare questa mia opinione. So che chiedo troppo, ma se avesse la cortesia di esporli pubblicamente sarebbe utile per una più completa informazione dell'opinione pubblica.
Faccio un'ultima osservazione. Sulla rete ferroviaria (altro esempio di monopolio tecnico) transitano anche treni privati. E' lecito supporre che gli utenti chiederanno di poter transitare i loro convogli sulle tratte più redditizie; per esempio la Roma-Milano, la Roma-Torino, la Roma-Brennero, la Roma-Napoli-Palermo e poche altre ancora.
Ma il servizio pubblico ferroviario, come del resto quello elettrico, quello telefonico e quello metanifero, hanno l'obbligo di servire anche i cittadini residenti in località isolate, almeno fin dove sia possibile. Non ce lo vedo un Della Valle o chiunque sia che voglia servire con i suoi convogli la tratta Sibari-Metaponto o Potenza-Campobasso o L'Aquila-Ascoli Piceno.
Ne deduco che le Ferrovie dovrebbero gestire le tratte redditizie in concorrenza e le tratte meno appetibili solitariamente. E' un buon sistema? Non andremo ad aumentare quella disuguaglianza di qualità che già c'è e che risulterebbe ancor più evidente?
I miei dubbi saranno probabilmente infondati, ma volete per cortesia controbatterli? Grazie se lo farete.

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