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Nick: KillBoy
Oggetto: Intanto Brindiamo con Feltri
Data: 22/2/2007 15.41.1
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INTANTO BRINDIAMO di VITTORIO FELTRI
Prima o poi doveva succedere. Questo lo sapevano tutti. Ma che succedesse proprio ieri sulla risoluzione di D'Alema in materia di politica internazionale non osavamo sperarlo, anche se la speranza è l'ultima a morire. Per ora l'unica certezza è che il governo al Senato ha dimostrato di non avere una maggioranza. Da notare che non è caduto su un emendamento a una leggina marginale, bensì su questioni fondamentali, il ruolo dell'Italia sullo scacchiere mondiale. Prima di pensare al domani, scusate cari amici, vogliamo brindare. Non tanto alle disgrazie altrui, quanto alla conferma delle nostre tesi: non si può governare neanche un condominio con due voti di scarto a proprio favore e contando sul precario appoggio di sette senatori a vita, per nulla intimoriti dalla prospettiva di andare a casa, perché loro a casa ci vanno solo per le esequie. Perdonate la brutalità, ma il problema è tutto qui. Lo abbiamo detto fin dal primo giorno di legislatura: dura minga, non dura. E conoscendo il pollaio di centrosinistra, eravamo consapevoli che l'incidente sarebbe accaduto o in campo etico o in campo internazionale. I due campi si sono sovrapposti ed è scoppiata la mina. Da giorni e giorni si discute di Dico (Pacs) e di base americana a Vicenza. E la spaccatura nell'Unione, subito evidente, si è fatta via via più profonda con grave pregiudizio per la stabilità di Romano Prodi. Il quale, bisogna riconoscerglielo, ha fatto miracoli nel tenere insieme l'armata Brancaleone. Ma un miracolo al dì non rientra nelle capacità umane. Scontato il patatrac. Un'avvisaglia si era avuta recentemente, ancora in Senato, quando il centrodestra appoggiò il ministro della Difesa, Parisi (abbandonato dai suoi), con esiti paradossali: il governo sostenuto dall'opposizione e sconfessato dalla maggioranza; non si era mai visto. Non c'è nulla di peggio, per un esecutivo, che coprirsi di ridicolo. Il nodo vicentino non si è sciolto neppure dopo la pacifica manifestazione caricata di significati che andavano ben oltre l'allargamento della base militare Usa. Chi ha sfilato in corteo - la gran parte - non aveva a cuore l'impatto ambientale del casermone statunitense. di Puntava ad altro. Ossia ad esprimere con forza un proprio sentimento vecchio e insopprimibile: l'antiamericanismo. La sinistra massimalista non è molto cambiata dai tempi della guerra fredda quando incassava rubli dall'Unione Sovietica, nemica dell'Occidente e quindi anche dell'Italia (aderente al Patto Atlantico). Non è cambiata né culturalmente né psicologicamente, e soffre se si tratta di dire sì, benché in forma indiretta, a Bush, considerato un gendarme più che il presidente di un grande Paese democratico. Non scopriamo niente di nuovo, ma conviene ricordarlo: a breve si dovrà votare il rifinanziamento della missione in Afghanistan. Come potrebbe Prodi confidare nel voto compatto dei compagni? Ecco perché il premier, valutata la batosta, non aveva alternativa alle dimissioni. Questa (ex) maggioranza non è in grado di rimanere unita. L'Unione è una finzione, anzi, un auspicio e nulla più. Occorre inoltre osservare un dato: il centrosinistra ha deluso i suoi stessi elettori e non si percepisce un loro desiderio di incoraggiare il ministero a proseguire in una esperienza giudicata disastrosa a causa di: una Finanziaria punitiva per i ceti mediobassi; un accanimento fiscale nei confronti di tutti; una serie di liberalizzazioni farsesche e sfottitorie; un disinvolto ricorso al ticket; una politica avvilente riguardo alle buste paga e alla casa. Quadro desolante. Una depressione cosmica non mitigata da un solo provvedimento capace di stimolare un pizzico di ottimismo. Insomma, esecutivo impopolare. Tempestivo e abile nel consolidare il potere finanziario, delle banche amiche, soprattutto, ovvero di quei ricchi a cui era stato garantito che avrebbero pianto. Qui invece piangono soltanto le famiglie già in bolletta e che attendono con angoscia le addizionali regionali e comunali, tra cui l'Ici aggiornata su valori di mercato e non più catastali, un autentico incubo per i proprietari di immobili. Questa è la situazione. Poi abbiamo un sospetto. Lo esprimo come di consueto senza giri di parole. Per addolcire la pillola uso il francese: "Qui mange du pape en meurt". Il senso è chiaro: non conviene toccare il papa, ci si lascia le penne. Mussolini ne era persuaso e avviò la pratica del Concordato. Questi signori viceversa hanno addirittura minacciato di gettarlo, il Concordato, nel cestino della carta straccia, insofferenti come erano e sono alle prediche di Ratzinger, al punto di volerlo zittire, lui e i preti. Porta male. Molto male. Pretendere che la Chiesa sia d'accordo sui Dico è di una tale ingenuità da meritare una punizione, puntualmente giunta sulle capocce dell'esecutivo. Non crediamo sia casuale il voto contrario di Andreotti al documento di D'Alema. L'Immarcescibile, l'Eterno, è notoriamente legato a filo doppio col Vaticano. Un rapporto mai interrotto. Giulio è il massimo esperto mondiale nell'arte di tirare a campare e ha capito al volo. Se facciamo cadere il governo in Senato sui Dico, apriti cielo: l'attacco alla Chiesa sarebbe tremendo. Molto meglio farlo stramazzare sulla politica estera. Così è stato. Di conseguenza Romano Prodi se ne va in Pacs. Magari tornerà, ma sarebbe soltanto un prolungamento dell'agonia. Perché i numeri a Palazzo Madama sono quelli che sono e non assicurano buona durata. La domanda che ci si pone è: cosa accade adesso? Avendo dimestichezza con la politica italiana non escludiamo alcunché. Siamo abituati a governi istituzionali, tecnici, ammucchiate. Compromessi. Bizantinismi. Pur di non sloggiare prima che siano trascorsi due anni sei mesi e un giorno dall'insediamento, i parlamentari le tentano tutte. Non rinunciano alla pensione e cercano di non spendere quattrini in campagne elettorali, dopo averne spesi parecchi lo scorso anno. Immagino perfino un Prodi bis, un ripescaggio di Dini, la cooptazione di un Mario Monti. Quello che preferiamo è Draghi, il governatore della Banca d'Italia. Però è troppo intelligente per accettare il ruolo antipatico di rincalzo. Vada come vada. Non ci stanchiamo di augurarci elezioni anticipate. Subito. Sia pure con una legge elettorale comica come l'attuale.





Grazie ancora, Massimo
È la seconda volta che Massimo D'Alema fa cadere Romano Prodi. E questo, oltre alle sue riconosciute qualità politiche, basterebbe già a rendercelo simpatico. La prima volta era stata nell'ottobre del 1998. Quella volta il Professore era caduto alla Camera e per un solo voto (anche allora venuto meno dai banchi di Rifondazione comunista), questa volta al Senato e per due voti. A succedergli a Palazzo Chigi, però, fu proprio Massimo D'Alema, non con uno, ma con due governi che si susseguirono: il primo dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999, il secondo dal 22 dicembre 1999 al 25 aprile 2000. Nel frattempo, il povero Romano fu costretto ad espatriare a Bruxelles, alla guida della Commissione europea e, per questo, molti, nei palazzi della politica, identificarono in Baffino il killer del primo governo Prodi. Probabilmente non era vero, e forse anche questa volta non è stata colpa sua, anche se, per dovere di cronaca, bisogna registrare che questa seconda esperienza del Professore bolognese si chiude per il voto su una mozione sulla politica estera voluta da D'Alema. Sarà un caso, esattamente come quasi nove anni fa. Un bellissimo caso. Perciò: grazie ancora, Massimo.

Scherzo da prete È la vendetta di Ruini
Ne mancava uno ieri, ma c'era, eccome se c'era. Non ha mostrato sorrisi, non una parola. Uno che ha vinto, ma non lo farà capire: il cardinal Ruini. Questo ecclesiastico di Sassuolo ha avuto un peso assoluto nel crollo del governo ieri a Palazzo Madama. Non ha manovrato, non ha tramato. Che bisogno c'è, non siamo in un film di Dan Brown. Il Vicario di Sua Santità ha lasciato che fosse determinante il voto dei politici più navigati e più cattolici. Ci si intende al volo, quando si è a certi livelli di rapporto con Dio e almeno con i sacrestani. Non si doveva colpire al momento dei Dico, le conseguenze di una vittoria avrebbero lesionato la Chiesa. Per cui Andreotti e Cossiga (nella molto opportuna latitanza di Scalfaro) hanno tolto lo sgabellone a Prodi quando non se l'aspettava, senza trasformarlo in eroe della libertà di coscienza. Si chiama scherzo da preti. Il loro voto era un po' annunciato un po' no. Andreotti era dato pochi minuti prima favorevole alla mozione pro D'Alema. Lo aveva ribadito il martedì, sostenendo che c'era continuità con governo precedente in merito all'Afghanistan. Aveva proposto anche una sua mozione accolta da tutti, a proposito dei soldati israeliani rapiti in Libano. Chi si aspettava che avrebbe drizzato la vela dall'altra parte? Cossiga ancora lunedì mattina era propenso ad uscire dall'aula per dissentire da D'Alema, in tal modo prestando ancora la sua stampella al governo. Il no di Cossiga (78 anni, un ragazzo) è stato come da temperamento: un no con la kappa, anche se non si sa dove metterla. L'astensione di Giulio (88 anni) è stata squassante, conteggiata - per il regolamento del Senato - come un no. E Scalfaro (87 anni)? Disobbediente sul referendum per la procreazione assistita, deve essersi sentito tirare i piedi se non dall'angelo custode almeno dal direttore spirituale dopo essersi dichiarato favorevole ai Dico. Tutto questo rigirio di coscienza gli ha causato un malessere poco provvidenziale per Prodi (non si è presentato). Un vero miracolo politico
Siamo certi: le motivazioni di Andreotti e di Cossiga sono squisitamente politiche, attengono alla sfera estera, come no? Ne sanno più del diavolo. Giulio, popolano romano, più propenso ad accomodamenti con gli arabi, senza mai rompere con l'America. Cossiga orgoglioso di Gladio e dei missili antisovietici. Entrambi con diversi amori tra i santi, ma papalini. Cattolici infanti. Prodi si è vantato di essere adulto. Loro, che ne sanno mille volte più di lui, fanno come i bambini del Vangelo e obbediscono. Andreotti ha cambiato idea sul referendum per la procreazione assistita, accettando le richieste di Ruini, in limpida coscienza, da bravo chierichetto. Cossiga ha digerito tutto di questo governo sciamannato ma sui Dico ha spinto Ruini a prendere posizione. E il miracolo politico di Ruini è stato di esporla senza esporsi. Dicendo solo che l'avrebbe presa: e tutti hanno capito quale sarebbe stata. Un no a qualsiasi legge che avesse per tema le unioni non matrimoniali. A prescindere dai contenuti. Dico no, punto. Andreotti e Cossiga smentiranno, ma hanno agito con un'intelligenza politica che nessuno, tranne gli imbecilli, può negar loro. Hanno premuto il pulsante per chi non poteva né votare né esporsi: lui, Ruini. Il quale non poteva certo permettersi di far cadere il governo su una questione al centro dell'insistenza di Benedetto XVI. Sarebbero piovute accuse di interferenza. E questo ci poteva anche stare, non lo preoccupava, si può rispondere. Quello che proprio avrebbe segnato la sua sconfitta, comunque fosse andata in Parlamento, sarebbe stata la divisione dei deputati cattolici e dei rispettivi elettori più o meno praticanti. Una frantumazione definitiva. Peggiore di quella del divorzio e dell'aborto. A quel tempo a dire no furono (ufficialmente) una minoranza di dissenzienti. Stavolta dalla parte dei disobbedienti ci sarebbero stati cardinali come Martini e forse Tettamanzi oltre a vescovi cosiddetti "spiritualisti", in realtà prodiani. Un disastro.Questa caduta di Prodi a Palazzo Madama è la migliore delle vittorie, perché non fa schizzare neanche un po' di sangue dal corpo già provato del cattolicesimo italiano. Ruini è troppo politico? Bisogna intendersi. Non è che il Vangelo si deve predicare a tutti meno che ai musulmani e ai politici. Papa Ratzinger ne ha fatto il centro del suo messaggio ai governanti: non si può estromettere Dio dalla vita pubblica. Si ha un bel dire che la Chiesa non deve occuparsi delle cose di Cesare. Giusto. Ma se il potere civile molesta la gente imponendo leggi su cui la saggezza del Papa si è pronunciata, allora bisogna opporsi proprio usando la democrazia che Cesare si è data. E la regola del «rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare» (Matteo 22,21), quando ci sono di mezzo scelte di civiltà, viene subordinata al principio formulato da San Pietro dinanzi al Sinedrio: «È più importante obbedire a Dio che agli uomini» (Atti 4,19). Così stavolta. Prodi aveva accettato compromessi su quanto la Chiesa cattolica giudica «insindacabile»: la famiglia. Non ha mai perso una partita

Ruini sta per lasciare. Ha 76 anni. Se qualcuno tira il fiato, eccependo su di lui per un interventismo che giudica eccessivo, rifletta su quanto gli deve questo Paese. Ieri si parlava di politica estera. Una nazione può farla se è compatta sul sentimento di sé. La Chiesa italiana ha fatto la sua parte e anche di più quando il 12 novembre del 2003 sono stati ammazzati 22 tra militari e civili italiani a Nassiriya, in Iraq. I terroristi puntavano sullo squagliarsi della nostra tenuta morale. In Spagna, Aznar si è liquefatto quando gli hanno ammazzato cinque militari dei servizi segreti dalle parti di Bagdad. Un vescovo di seconda fila celebrò il funerale in un hangar dell'aeroporto di Madrid, si vergognavano tutti. Da noi, il cardinal Camillo Ruini, con la casula pontificale, diede una sepoltura gloriosa ai caduti, mostrando l'unità di questo popolo nel segno del cattolicesimo. Senza di lui, non si sa come sarebbe andata. Finora quest'uomo non ha perso una partita politica. Anche questa mano se l'è aggiudicata. È l'ultima. In marzo abbandonerà il posto di comando dei 320 vescovi italiani (la presidenza della Cei), ma resta una bella soddisfazione. I suoi possibili continuatori, con diversi temperamenti, restano due cardinali: il patriarca di Venezia Angelo Scola e l'arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, preferirebbe un uomo con meno curriculum, per evitare confronti meno aspri che negli ultimi tempi tra governo e presidenza episcopale. Ma, a quanto pare, Ruini la sa più lunga. Ora la partita a cui Benedetto XVI annette un'importanza drammatica - quella dei Pacs o Dico - torna in saccoccia a chi l'aveva proposta. Non se ne parlerà più per un bel po', comunque si risolva la cambiale che ieri, tramite uomini di provata fede e fedeltà, Ruini è andato a riscuotere al Senato.

Il capolavoro di Schifani per arruolare Pininfarina di GIANLUIGI PARAGONE
«Lasciate stare il senatore Rossi. Lasciate stare il senatore Rossi». Sbraita il presidente del Senato, Franco Marini. Invita alla calma e intanto lascia aperta la votazione nella speranza che qualcosa cambi. C'è chi sfila - o cerca di farlo - la scheda che ne registra la presenza in aula. Così come Stalin cancellava dalle foto Trotsky, i comunisti di oggi vorrebbero cancellare le tracce dei dissidenti rompiballe dal Senato. «Almeno vattene, esci dall'aula». «Chiudi! Chiudi!», urla il segretario Pasquale Viespoli a Marini. «Un momento, qual è il problema», gli risponde nella speranza che quelle cavolo di lucine sul tabellone cambino colore. La senatrice intanto s'abbatte come un ciclone sul ribelle, Nando Rossi. Qualcuno gli tira in testa la rassegna stampa. La schiva e finisce in testa al compagno di banco. Il voto resta aperto. «Vota. Vota», gli intimano. «Calma» gli ribatte Rossi, facendo segni con la mano. «Tanto non cambia nulla». E ha ragione lui, perché dall'altra parte dell'aula, tra i banchi di Forza Italia, sta andando in scena il capolavoro di Schifani. Sergio Pinifarina ha infilato la sua scheda: presente e astenuto. Bingo. «Ma cosa fai!?!». Chi capisce il guaio è Valerio Zanone che s'appella alle radici e al passato nel partito liberale per fare cambiar idea a Pininfarina. «Non farlo!». Il faccione di Zanone si gonfia ancor più, diventa rosso peperone. Vorrebbe piombare su di lui, se non fosse che i senatori di Forza Italia gli fanno da scudo. Aveva ragione Rossi: anche se lui e Turigliatto avessero votato sì alla relazione di D'Alema, lo scherzetto preparato da Renato Schifani si stava compiendo. Non avete capito niente? Non importa. Neanche D'Alema e tutta la sinistra hanno ancora capito cosa diavolo sia accaduto. Allora tanto vale riavvolgere il nastro e ripartire dall'inizio. Ore undici. «Come va a finire?». Il ministro Mastella forse è perfino stanco di sentirsi ripetere la stessa domanda. Lui e tutti gli altri, ovviamente. «Va bene. Incrociamo le dita». A quell'ora sembra che tutto fili liscio: D'Alema è stato schiscio. «Certo, l'influenza al presidente Scalfaro non ci voleva», dice un peones che s'intrufola nel capannello di giornalisti. Riparla D'Alema: nella replica è meno ingessato. Lingua tagliente e ghigno stampato in volto, rispedisce al mittente la polpetta avvelenata di Calderoli. Come due settimane fa, il leghista ci riprova a spezzare il fronte ulivista con una mozione all'insegna "della continuità con la politica estera del governo precedente". «Non c'è nessuna continuità», gli fa eco il vicepremier, sciorinando le diversità sull'Iraq e sul modo in cui si resta in Afghanistan. Accetta la sfida della sinistra radicale e parla persino di Vicenza. «Sto con Prodi ma bisogna saper ascoltare anche la popolazione locale. E noi dialogheremo». Sciambola, se lo merita proprio l'Oscar alla Politica che il Riformista gli vorrebbe consegnare - ironia dei premi stasera. D'Alema alza la posta, si gioca tutto. Rigetta l'aiuto del centrodestra e chiede la conta a sinistra: c'è chi dice che l'abbia fatto apposta a forzare i toni. All'ora di pranzo, D'Alema se li è mangiati tutti quanti. Almeno così sembra. La faccia di Nicola Latorre, dalemiano di ferro e leale, si rilassa. Forse anche lui vede la discesa dopo la curva. «D'Alema ha giocato bene la sua partita: mica è colpa sua se il governo è caduto», commenteranno a sera dal quartier generale di Forza Italia. Eppure se tutto va bene, perché Piero Fassino fa avanti e indietro, perché si agita così tanto? Gli interventi dei capigruppo scivolano via nell'indifferenza generale: sembra che ogni tassello stia al posto giusto. «Anche nel '98, ogni tassello stava al posto suo», mi ricorda sottovoce Schifani, prima del patatrac. Ahi. Torna l'incubo del pallottoliere. Ma perché? Tutto sembra così tranquillo sotto il cielo unionista. Anche sui dissidenti ci sono voci di un malessere combinato: usciranno dall'aula, abbasseranno il quorum e D'Alema passerà indenne. Alle due del pomeriggio c'è persino chi comincia a raccontare di un centrodestra diviso sull'utilità della mozione Calderoli. «A questo punto che la votiamo a fare? D'Alema ha detto che non c'è nessuna continuità con Berlusconi: lasciamo perdere». L'Udc si sfila dal centrodestra. «Sulla Calderoli ci asteniamo». Alla fine si asterranno anche nella votazione finale, tanto che D'Onofrio, mentre tutta la Cdl esulta per il risultato, tenterà di metterci una pezza: «Ci siamo astenuti ma siamo contro il governo». La pezza però è un po' bruttina. «Roberto, dammi retta: ritiriamola. Andiamo a vedere il loro gioco». Schifani convince Calderoli: la sua parte, il leghista, l'ha fatta bene anche stavolta. Schifani sa che c'è un asso che balla. E ce l'ha in mano lui. «Era da qualche giorno che lavoravo a un'ipotesi: far partecipare Pininfarina alla seduta», ci racconterà a caldo e sofferente per i postumi di un intervento chirurgico di pochi giorni fa. «Con la mozione su Vicenza avevo capito che la strada per far cadere il governo era giusta, tutto era cominciato lì». «Ieri (martedì, ndr) ho avuto la certezza che Pininfarina sarebbe venuto e che non avrebbe sostenuto la posizione di D'Alema. Ma non l'ho detto a nessuno». Persino a Berlusconi l'ha detto solo in nottata. La sorpresa infatti è stata generale quando il senatore a vita è entrato in aula e l'hanno visto accomodarsi tra i banchi forzisti. Lì, Mastella ha capito. Prendersela con i dissidenti a quel punto non aveva più senso: l'opposizione li aveva superati a destra. «Mi asterrò dal voto», dichiara Rossi. Ma la bomba ormai è un petardo. Mastella sembra non curarsi più di loro: si fa due conti e poi confabula con D'Alema. De Gregorio è di là. Cossiga vota contro. «Andreotti che fa?», domanda il Guardasigilli. Si asterrà. Così come Pininfarina. Patatrac: le astensioni al Senato valgono come voto contrario. Il governo va sotto. Calderoli ritira la sua mozione: non c'è più bisogno di sparigliare un bel niente. Anzi, più tempo si perde e più sale il rischio di far saltare il trappolone. Parte la votazione. Il tabellone luminoso si muove. Verso il disastro. Nostra Signora dell'Ulivo, la bella e brava Finocchiaro perde aplomb e stile e inveisce contro Rossi. Manuela Palermi e Loredana De Petris fanno quota rosa a sé e insultano i poveri dissidenti comunisti. Su cui s'abbatteranno le ire di tutti. Persino di quelli che facevano i fighetti a Vicenza, con la bandiera della pace.

Il Massimo simbolo della sinistra perdente di MARCELLO VENEZIANI
Il governo Prodi è caduto per due voti, quello di Bush e quello di Ratzinger. Più il voto contrario di qualche decina di milioni d'italiani. Pretendere di galleggiare contro l'America e il Padreterno non è umanamente possibile; senza i Signori del cielo e della terra non si va da nessuna parte. E salvarsi con la doppiezza non è un rimedio duraturo. Alla fine lo Spirito Santo e il Gendarme del mondo si mettono scuorno e pregano contro. All'antipatia verso la Chiesa e gli Usa, aggiungete il disprezzo meticoloso e militante mostrato verso gli italiani, maltrattati e tartassati come bestie da soma; tutto è tornato al mittente. Se fossi premier a questo punto mollerei e non mi renderei più disponibile per un governicchio bis, di quelli che sono la brutta copia di una brutta esperienza. Cioè brutti al quadrato e malati ereditari. Ma per dimettersi sul serio ci vuole un briciolo di coerenza, dignità e forse anche di lungimiranza; e queste non sono qualità che circolano in questi giorni (onore al compagno Turigliatto che invece si è dimesso sul serio). Cinico stratega o ingenuo temerario
Se fossi Prodi, io mi gratterei alla sola vista di D'Alema, lo vedrei come il principale impresario di pompe funebri dei governi di centro-sinistra. Le sue parole pesano come piombo e fulminano i governi appena le pronuncia. L'altra volta, alla fine dell'altro millennio, fu lui ad annunciare la caduta di Prodi, propiziandola, a quanto dicono gli stregoni: questa volta pure, è stato lui il giorno prima del disastro a paventare il crollo, mentre Prodi borbottava contro la previsione, come se fosse la profezia sciagurata di uno iettatore. Alla fine aveva ragione lui, lo iettatore presunto, con la sua disperata coerenza; quando era presidente del consiglio disse che si sarebbe dimesso se le elezioni regionali del 2000 non fossero andate a buon fine e così fece. Entrò da brigante a Palazzo Chigi ma ne uscì da galantuomo, fedele alla parola data. Adesso più o meno ha fatto la stessa cosa: aveva detto che se non avessero avuto la maggioranza sarebbe crollato il castello e tutti lì a dire che D'Alema era evidentemente sicuro di sé, sapeva di poter portare a casa il risultato, conosceva i suoi polli e perciò si sbilanciava in quel modo. Invece non era così. E allora le ipotesi che restano sono due: che D'Alema non sia quel cinico stratega che si dice, ma abbia una dose di temeraria ingenuità che lo porta a esporsi incautamente con dichiarazioni sadomaso. O ancora peggio, che sotto sotto D'Alema non amasse questo governicchio, detesti Prodi, Rutelli e soci, si sia legato al dito la vicenda del mancato Quirinale e alla fin fine preferisse il terremoto per rimescolare le carte. Ma queste supposizioni le lasciamo ai dietrologi, che come dice la parola, studiano il didietro cioè sono esperti del gluteo. Io mi fermerei al davanti, alla figura di D'Alema. C'è qualcosa in lui che suscita rispetto, oltre che umana simpatia, come se interpretasse un ruolo perdente da tragedia greca: come se portasse in scena l'impossibilità del comunismo di farsi normale e dunque il destino fatale del naufragio. Lo vedi sorridente sotto i baffi e beffardo, come se volesse ostentare sicurezza, ma non è così: D'Alema incarna la sconfitta e sublima il dolore nel sarcasmo. La legge del contrappasso

Fu lui, venuto dal comunismo, il primo premier a dover fare la guerra ai vicini yugoslavi e ad assecondare, lui venuto dall'Urss, il volere degli Usa, precipitandoci per la prima volta in una guerra a due passi da casa e da Vicenza. Fu ancora lui a dover affrontare l'Albania uscita dal comunismo. Fu lui, lo scorso anno, il montone sacrificato dai suoi compagni sull'altare della patria, quando pensava di traslocare al Quirinale. Ed è sempre lui a rappresentare con la sua aria da generale di Caporetto, la sconfitta di un partito a pezzi, con i Mussi che schizzano da tutte le parti, con le primarie che registrano sconfitte per i Ds, con un futuro di nuove sanguinose fratture e due fratellini minori, attaccati al nonno comunista, che spingono verso il passato: se dovesse nascere in reazione al partito democratico, un partito comunista targato Dilibertinotti oggi rischierebbe di essere il partito leader del centrosinistra. A farne le spese sarebbe proprio lui, D'Alema, che non è abbastanza light per veltroneggiare nel partito democratico e non è abbastanza hard per capeggiare la sinistra dura e pura. E se si volta dall'altra parte, il povero D'Alema non ha di che gioire: si ritrova lui, il pupazzo di gomma, la mortadella riciclata, che sorride quando ci sarebbe da piangere e che proprio ieri ha presentato con enfasi da balanzone una specie di organo evirato o un molare estratto, non so come definirlo, ed ha detto che quel coso appeso è il nuovo logo dell'Italia. Che schifo. Quel simbolo irriconoscibile che voleva essere la t di Italia a forma di stivale ed appariva invece la caricatura di un salume deformato, appare ora il logo della sua caduta. Schiacciato tra Vicenza e Bologna, lacerato tra i qui lo Dico e i qui lo Nego, il povero D'Alema incarna, come una specie di Pandora, l'icona della Disfatta. Una figura tragica, che rischia di finire appesa a un palo di nome fassino. A voler bene a D'Alema siamo rimasti in pochi, Silvio, Giuliano, Vittorio ed io. Tutti suoi nemici a quanto pare, ma bendisposti per un'adozione a distanza.

La coerenza di D'Alema ha fatto esplodere l'Unione di OSCAR GIANNINO*
Caro direttore e cari lettori di Libero, c'è una lucida ironia della storia, per la quale il governo Prodi cade e rassegna il mandato per un voto negato dal Senato a Massimo D'Alema. Ed è la riprova che ciò che gli uomini ritengono di sventare con la propria astuzia, spesso ha un senso profondo che invece aggira e raggira i loro artifici. Tutti avevano pensato che era uno dei capolavori di Prodi, infatti, esser riuscito senza spendersi in prima persona a evitare che Massimo D'Alema salisse al Quirinale, dove sarebbe stato troppo temibile per l'agenda istituzionale e politica che il candidato premier anelava a controllare, e al contempo averlo comunque compreso nella lista del governo, impedendo che restasse a mani libere sulla scena politica, e per di più affidandogli il portafoglio degli Affari esteri, in modo da tenerlo lontano dai fronti più scottanti, quelli della politica interna, economica e istituzionale. E invece ecco la vendetta. Sono i voti di Turigliatto e Rossi per la sinistra radicale e dissenziente negati a D'Alema, sono i voti di Cossiga, Andreotti e Pininfarina mancati a D'Alema, a portare dritto dritto Prodi alle dimissioni. Il copione del '98, quando Prodi cadde per la reazione di D'Alema e Marini al tentativo del premier di stringere un accordo con Rifondazione sulla testa dei riformisti, ha uno sviluppo imprevisto ma pieno di significato: questa volta Prodi non si era impegnato in prima persona per riacchiappare Pdci, Rifondazione e Verdi dopo i voti mancati a Parisi al Senato, e si era affidato proprio a D'Alema per ritessere la tela con la sinistra antagonista. Prodi, con ogni probabilità, avrebbe concesso anche di più: ma si dimette per lo stesso problema di allora, a ben vedere, e cioè per il fatto che le posizioni massimaliste e quelle riformiste non riescono proprio a trovare una maniera plausibile e numericamente sostenibile per conciliare posizioni che sono e restano molto diverse. Da questo punto di vista, il D'Alema che si è visto ieri è per molti versi la sintesi della contraddizione esplosa. La sua relazione d'apertura al dibattito, per molti versi, era impeccabile, e rispecchiava abilmente quella convinzione di aver ormai la soluzione in tasca che il giorno prima aveva ispirato al ministro l'arcinota dichiarazione «senza maggioranza al Senato, si va tutti a casa». Un discorso pacato e levigato, la cui premessa è stata la richiamata continuità con gli indirizzi di fondo della politica estera italiana: l'Europa, l'Onu, l'Alleanza atlantica. Una premessa apprezzatissima dai senatori a vita, e in particolare da Giulio Andreotti, che alla discontinuità crede pochissimo. Tutte le successive cartelle erano zuccherini per la sinistra antagonista. Ma senza offrire alcuna pietanza, tipo giudizi impegnativi sulla riconsiderazione della base americana a Vicenza o sui tempi dell'exit strategy dall'Afghanistan. Insomma, D'Alema nell'intervento iniziale si era predisposto a incassare i voti dei senatori a vita, senza concedere troppa trippa all'ala radicale. È nella replica, che al ministro è slittata la frizione. Sull'Afghanistan e sulla base di Vicenza, sono venuti giudizi che a Rossi e Turigliatto hanno fatto prudere le mani, convincendoli che no, non si sarebbero uniti alla dissenziente Franca Rame che si alzava in aula per dire che non era d'accordo ma la crisi di governo a Berlusconi lei non la regalava. E al contempo, ancora più grave, la formula usata da D'Alema per negare il gradimento del governo alla mozione Calderoli, che apprezzava proprio la continuità nelle linee di politica estera tanto cara ad Andreotti, è stata assai diversa da quell'elogio della continuità con cui aveva egli stesso iniziato il dibattito: chi parla di continuità mente, ha detto papale papale D'Alema, consapevole che su Vicenza e Kabul si era allargato un po' troppo. E a quel punto ha perso il consenso di Andreotti, e di Pininfarina che ad Andreotti si è adeguato. Il dibattito è aperto, se D'Alema abbia mosso questo passo in apparenza incauto sol per aver dato troppo spago alla propria lingua e al proprio carattere proverbialmente orgoglioso, o se invece non abbia consapevolmente scelto di sfidare apertamente i dissenzienti, poiché il metodo della mediazione sfinente alla Prodi proprio non corrisponde al suo Dna. Personalmente sposo la seconda tesi: a differenza di Paolo Mieli, che ieri ha subito chiesto che nel nuovo governo Prodi di transizione non rientri il ministro degli Esteri, al quale muove una guerra personale e risoluta da anni. Non scherziamo, per chi della politica ha un'idea alta D'Alema e Prodi non potranno mai stare alla stessa altezza. E, per quello che mi riguarda, boutade per boutade un nuovo esecutivo dell'Unione sarebbe preferibile mille volte con D'Alema dentro e Prodi fuori, perché per quanto non si sia d'accordo con D'Alema su cento se non su mille cose, almeno di lui si capisce perché e che cosa pensi, a differenza della gelatina galleggiante in cui Prodi eccelle. Con tutto il rispetto, sull'Afghanistan come su Vicenza D'Alema ha retto assai meglio della media dei dirigenti dell'Unione, e lo ha fatto mentre palazzo Chigi ha sempre tenacemente evitato di esporsi con parole e giudizi impegnativi. Certo, il destino vuole che il D'Alema ministro degli Esteri ripeta a proprio danno lo scacco che lo portò a mettere il mandato di premier in forse, se il centrosinistra avesse perso le regionali del 2000. E oggi il copione si ripete. Ma non è la stessa cosa. Il D'Alema di allora, da palazzo Chigi tentava una scorciatoia decisionista a ciò che l'informe irreattività del centrosinistra slabbrato gli aveva impedito da segretario dei Ds, porre un nuovo fondamento all'irriformabilità del postcomunismo italiano su basi diverse da quelle del puro antiberlusconismo. Un D'Alema in chiave personalistica che è esattamente la cifra per la quale è odiato da metà della sinistra, mentre l'altra metà non riuscirà mai a non sentire nei suoi confronti il brivido alla schiena dell'unico vero leader carismatico che faccia battere i cuori, a differenza dell'onesto lavoratore Fassino e del trasvolatore mediatico di ogni ideale, l'inafferrabile Veltroni. Il D'Alema di ieri era il politico della sinistra che intendeva più giocare la sua personale faccia all'Onu per confermare la nostra presenza in Afghanistan, non per negarla. Il D'Alema in continuità e non in rottura coi bombardamenti ordinati da premier sulla Serbia. Tutta roba che a Prodi importa poco, se non un fico secco, in cambio della continuità di governo. Sarà poco, senza dubbio, ma quel po' di decisioni concrete di operante solidarietà occidentale nella lotta al terrorismo da parte della sinistra italiana le dobbiamo più a D'Alema, che non a Prodi o a chiunque altro dell'Unione. Sarebbe un grave errore, dimenticarlo solo per l'avversione che anche in buona parte del centrodestra suscita l'ultimo dei togliattiani e il migliore dei postcomunisti, il sostenitore della "razza padana" e anzi, come ha scritto in un bellissimo libro appena uscito un suo ex collaboratore come Andrea Romano, «un mesto incrocio tra don Chisciotte e don Abbondio, tra la velleità di chi proclama cambiamenti che non è in grado di portare avanti, e il cinismo di chi lascia le cose come stanno». È grazie a D'Alema, che il giochino dell'incompatibilità tra dissenzienti e politiche occidentali trova compiuta espressione nel voto negato dal Senato. Da oggi con le consultazioni al Quirinale mille ridde di ipotesi diverse entrano in gioco. Ma credere di fare i conti senza D'Alema è un grave errore. Il suo giudizio sprezzante sulle menzogne americane relative alle armi di distruzione di massa in Iraq lo rende inviso a molti, nel centrodestra. Ma è davvero quanto dice oggi più di metà del Congresso americano. Non abbiamo avuto un Blair in Italia. Ma l'approssimazione meno lontana dal fabianesimo occidentalista britannico di cui disponiamo, non viene certo da Prodi o dall'aleatorio Veltroni. Sta tutto nella tenacia irriducibile dell'ex segretario della Fgci. Anche se la rivoluzione liberale che lanciò come parola d'ordine quando era segretario, a metà anni '90, era più un omaggio della necessità alla virtù, che un nuovo abito mentale dopo aver dismesso quello precedente, ormai non più indossabile. Grazie dunque D'Alema, che ci hai dato per coerenza e irriducibile fiducia in te stesso, la crisi di Prodi premier che di quelle virtù non è dotato. * Oscar Giannino vicedirettore Finanza&Mercati LUNGA MARCIA GLI INIZI Massimo D'Alema è nato a Roma il 20 aprile 1949, ha un diploma di maturità classica e ha studiato Filosofia all'Università di Pisa. Il suo impegno in politica inizia quando è ancora giovanissimo, nel 1963. IL PARTITO La sua prima tessera del Partito comunista italiano (Pci) è del 1968. Alla nascita del Pds, nel 1990, assume la carica di Coordinatore politico. Il primo luglio 1994 è eletto Segretario nazionale del Pds LE ISTITUZIONI D'Alema entra per la prima volta alla Camera dei deputati nel 1987. Dal 21 ottobre 1998 all'aprile 2000 ricopre la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, primo ex comunista nella storia della Repubblica. Il 17 maggio 2006 diventa vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri del secondo governo Prodi (fonte: www.massimodalema.it)

La fatwa: con me, a casa tutti di PAOLO EMILIO RUSSO
Come nel 2000, l'anno della scommessa alle Regionali e delle sue dimissioni da premier, Massimo D'Alema ha scelto di giocare da solo. Lui e i suoi collaboratori, pochi ma buoni, che tengono le file dell'Unione al Senato: Anna Finocchiaro, Nicola Latorre, Livia Turco. Si è presentato puntuale, poco colore addosso, completo grigio e cravatta scura, certo soltanto delle sue capacità di incantare i senatori, del suo carisma. Ieri, come allora, non è finita bene. Bocciato ai voti, scaricato da chi non si aspettava. Alla fine, di fronte a quelle - troppe - lucine blu sul tabellone, ha avuto un attimo di sconforto e si è ritirato dall'Aula. «A terra», lo ha definito Gavino Angius, primo a raggiungerlo dopo la débâcle. «Bisognava togliersi il dente prima, mettere le missioni all'estero nella Finanziaria e chiudere lì la questione, io l'avevo detto», si è sfogato laconico il vicepremier. Ma si è ripreso subito. «D'Alema non gioca da solo, è un problema del governo, dobbiamo dimetterci e non prestarci più ad alcun ricatto». Poi si è consultato con Piero Fassino, ha raggiunto Romano Prodi a Palazzo Chigi e giocato d'attacco: bisogna prendere atto che la maggioranza traballa. E così, ha detto chiaro e tondo, «non si può andare avanti». E pensare che in Aula, complice forse l'adrenalina del rischio, aveva fatto sfoggio di tutta la sua retorica. Ha corteggiato i dissidenti comunisti rivendicando il suo essere «uomo di sinistra», ha citato furbescamente la Russia e la Cina, Paesi simbolo nell'immaginario degli ex comunisti, parlato dei palestinesi e dell' «interposizione» delle truppe italiane tra Israele e Libano «sotto la guida dell'Onu». Pure Roberto Calderoli gli ha riconosciuto di «avere incantato il Senato». Il vicepremier ce l'ha messa tutta. Ha parlato di «pace», dell' «articolo 11 della Costituzione», rivendicato con forza la «discontinuità con le coalizioni dei volenterosi», ricordato che il ministro degli Esteri afgano «è stato consigliere comunale dei Verdi a Bologna». Si è goduto gli applausi e si è prestato a fatica, solo dopo la sollecitazione del presidente Franco Marini, a indicare «la posizione del governo» sulle tre mozioni parlamentari. Avrebbe preferito continuare a «volare alto». Ma ieri non si poteva. D'Alema, così come gli aveva riferito la Finocchiaro, si aspettava il voto a favore della sua relazione di Giulio Andreotti e Sergio Pininfarina. «Hanno sempre votato in politica estera», spiegherà poi la capogruppo. Ma, visto che non si sa mai, il vicepremier si era speso nel discorso per conquistarsi i loro voti. Nella relazione il capo della Farnesina aveva rivendicato la «continuità del governo con la tradizione della politica estera italiana», quella dei «governi socialisti e democristiani». La politica di Andreotti. Ma il senatore a vita ha marcato visita. Nessun rancore e nemmeno nei confronti del suo amico Francesco Cossiga, anche lui "dissidente". Lo ha raggiunto prima della sconfitta per un saluto che l'ex Capo dello Stato definisce «caloroso». A sera, nel corso del consiglio dei ministri, il vicepremier si è schierato col suo partito dalla parte dei "falchi". Niente soluzioni «pasticciate», meglio rimettere l'incarico al Presidente della Repubblica: «Basta coi ricatti», ha tuonato. Il vicepremier non si è prestato a fare la vittima sacrificale, a dimettersi da solo come alcuni alleati avrebbero voluto: «D'Alema non gioca da solo». E di Prodi che, subendo i diktat della sinistra radicale, non ha mai voluto tentare l'allargamento della maggioranza. Si è beccato le critiche del premier che lo ha accusato di aver drammatizzato il voto, ma non ha fatto autocritica. Questa volta D'Alema ha vinto. E il governo si è dimesso nelle mani di quel Capo dello Stato che poteva essere lui, D'Alema.

Mediaset festeggia dopo il ko al Senato. Sale il rendimento dei Btp
In Piazza Affari a brindare lo scivolone del governo al Senato è stata in pratica solo Mediaset, società legata alla famiglia Berlusconi. Gli altri titoli più importati dei listini, e con loro gli indici, hanno invece messo la testa sotto la sabbia. Mediaset non solo ha chiuso in rialzo dell'1,4%, ma ha registrato un vero e proprio balzo alla notizia del voto in Parlamento che poi ha portato alle dimissioni di Prodi. Evidentemente il mercato scommette che la caduta del governo possa portare al blocco del progetto Gentiloni di riforma del sistema radio televisivo. Il ddl prevede la migrazione di una rete Rai e una Mediaset dall'analogico al digitale e stabilisce una soglia del 45% nei ricavi pubblicitari. Il ddl Gentiloni è stato definito «un atto punitivo per Mediaset» dal presidente di Mediaset Fedele Confalonieri nel suo intervento di martedì alla Camera. Per Mediaset le nuove norme significheranno «danni» per 7-800 milioni, legati al tetto pubblicitario del 45%, all'inserimento delle telepromozioni negli affollamenti pubblicitari, al trasferimento anticipato di una rete sul digitale. Confalonieri inoltre non ha negato la possibilità di tagli occupazionali pur non volendoli quantificare. Tutto questo potrebbe saltare. Gli indici di Piazza Affari hanno invece chiuso in calo: il Mibtel ha ceduto lo 0,71%, lo S&P/Mib lo 0,81%, il TechStar lo 0,81% e l'All Stars lo 0,23%. Anche i titoli di Stato sul secondario hanno registrato una reazione immediata alla notizia della bocciatura della politica estera del governo. Dopo un avvio di giornata all'insegna della stabilità, il divario di rendimento (spread) tra i Btp a 10 anni e i bund tedeschi - nostro riferimento - si è allargata di un punto, salendo a 24 dai 23 punti che si registravano in precedenza.







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Intanto Brindiamo con Feltri   22/2/2007 15.41.1 (161 visite)   KillBoy
   re:Intanto Brindiamo con Feltri   22/2/2007 15.44.4 (67 visite)   Haran
      ma serio...   22/2/2007 15.47.40 (72 visite)   KillBoy
         re:ma serio...   22/2/2007 16.2.19 (54 visite)   Aiace753
            re:ma serio...   22/2/2007 16.9.8 (46 visite)   KillBoy
   Non ho capito   22/2/2007 16.8.45 (69 visite)   Forssell
      re:Non ho capito   22/2/2007 16.10.1 (105 visite)   KillBoy
      re:Non ho capito   22/2/2007 16.25.35 (53 visite)   Aiace753
   feltri   22/2/2007 16.11.59 (76 visite)   Awip
      re:feltri   22/2/2007 16.14.18 (64 visite)   KillBoy
         re:feltri   22/2/2007 16.27.14 (62 visite)   Awip
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      re:feltri   22/2/2007 16.26.39 (78 visite)   Aiace753
         re:feltri   22/2/2007 16.27.17 (90 visite)   KillBoy
         re:feltri   22/2/2007 16.35.45 (65 visite)   Awip

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