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Nick: Peppos
Oggetto: La guerra di Pero
Data: 23/3/2007 20.40.12
Visite: 116

Vi vorrei raccontare una cosa, accaduta nei Balcani durante le guerre jugoslave. Una cosa che ho visto coi miei occhi, perché ero là.



Nessun idealismo: c'ero andato a lavorare. Allora facevo l'interprete e traduttore per una organizzazione cosiddetta "umanitaria" (il che mi ha fatto maturare un odio feroce verso tutte le organizzazioni del genere, e verso l'aggettivo "umanitario" tout court); dietro compenso - ed anche perché ero in una situazione finanziaria non certamente florida - ho accettato di andare quattro volte da quelle parti: Bosnia, Sarajevo, Mostar, Srebrenica. Altrimenti, col cavolo che ci sarei andato. Così per sgombrare subito il campo da ogni possibile fraintendimento.

La storia che vado a raccontarvi è assolutamente vera, nonché testimoniata da dei giornalisti e raccontata anche in un articolo della "Nazione" di Firenze del 25 aprile 1993. Un racconto di guerra, senza aggettivi.

*

Mercoledì 14 aprile 1993, un interprete si trovava assieme ad un giornalista e ad un fotografo di un quotidiano italiano in una parte della ex-Jugoslavia appartenente politicamente alla Croazia, ma da secoli abitata da serbi. Tale zona, nell’entroterra dalmata, veniva chiamata Krajina come se questo fosse un toponimo; ma in realtà si tratta di un comune sostantivo dal significato di "regione", "circondario". Di krajine ce ne erano e ce ne sono in realtà parecchie.



Il lavoro dei giornalisti consiste nel raccontare, e quello dei fotografi nel prendere immagini. Fermare dei momenti, l’uno con le parole e l’altro con l’obbiettivo; l’unione eterna fra il dire e l’illuminare. Il lavoro dell’interprete consiste invece nell’ascoltare, nel prevedere quel che si dirà, nel costante dimensionarsi sull’altro; e così sia.


Tutti stavano facendo il loro lavoro, quel giorno di sette anni fa, senza aver mangiato quasi niente ma con abbondante rakija in corpo. Arrivarono su una specie d’immaginaria linea di confine alle tre del pomeriggio, con una pioggerella sottile, a bordo d’una vecchia Golf scalcagnata prestata, pensate un pò, da un vescovo cattolico.

La strada sterrata si ferma ad un villaggio semidistrutto, nell’ultimo lembo d’una piana sterposa; il villaggio di Stjepancevo, qualcosa che ha a che fare con il nome Stjepan, Stefano. Forse un Santo Stefano, uno delle migliaia di villaggi dedicati a un santo. Cubi di cemento in mezzo a quelli che una volta dovevano essere campi coltivati; scritte sui muri, e dietro ai muri macerie. Macerie dalle quali, ogni tanto, fa capolino il lacerto d’un oggetto; una vecchia scatola di detersivo, una suppellettile, un pezzo di coperta.

Nel villaggio morto c’è però qualcuno. In una casa rimasta in piedi si è sistemata una pattuglia della milizia volontaria croata, l’HVO; il comandante è un uomo di circa 45 anni, di bellissimo aspetto, con la barba, la tuta mimetica, il berretto militare, gli occhi scuri. Si presenta come Ivan, ma avverte che non è il suo vero nome, e comincia a parlare del villaggio.

Lui abitava poco lontano, e con alcuni amici faceva parte di una jazz band. L’interprete crede di aver capito male, e ripete la domanda; sì, proprio una jazz band. Stava parlando un clarinettista in tuta mimetica, e i giornalisti fiutano subito la "storia".

Arrivano gli altri; otto soldati volontari agli ordini di Ivan il clarinettista. Ecco Anton, sassofonista; Jozo, bassista; Dino, batterista; Zvonimir, pianista ("con una passione per Duke Ellington"). Parte un’altra bottiglia di rakija, si fanno le foto e sembra di stare a casa di amici, a una festicciola. Si aspetta da un momento all’altro che la band tiri fuori gli strumenti musicali e si metta a suonare, ed in effetti Anton ha con sé il sassofono. Ma non vuole suonare, non può. Non dice il perché e nessuno ha il coraggio di chiederglielo o di farglielo chiedere.

L’interprete si fa una foto assieme a Ivan, fuori dalla casa; appoggiati al muro ci sono degli strumenti, ma non musicali. Sono gli strumenti della guerra: nove Kalašnikov. Kalašnjikov, Kalašnjikov, come la famosa canzone di Goran Bregovic. Appunto. Musica e guerra, senza aggettivi.

Oltre alla jazz band nel villaggio è rimasto un vecchio contadino. Uno di quelli che ha giurato di rimanere fino all’ultimo a difendere la sua casa e la sua terra (l’interprete giura di non aver mai sentito tante volte in vita sua pronunciare le parole "difesa" (obrana) e "difendere" (obraniti); ne inferì a suo tempo che la guerra è sempre "difesa", ma, forse, anche qui potrebbe sbagliarsi e comunque ha detto d’aver sempre avuto un’autentica capacità di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e che, in certi momenti, le capacità critiche e d’analisi della realtà si fanno evanescenti.

Il contadino fa entrare in casa ed offre rakija ("ma i generali ti rispondono che l’uomo è vino, combatte bene e muore meglio solo quando è pieno"); in casa ha un autentico arsenale, e ci tiene a dire che ce lo aveva da dieci anni e oltre. Già tutto pronto. Un figlio prigioniero in Slavonia occidentale, l’altro non si sa dove, la moglie e le figlie al sicuro a Spalato. "Che vengano!". E chi dovrebbe venire?

I serbi. Quelli di là.

Ma quali serbi? Chi sono i serbi?
Qui non si sente muovere una foglia. Solo la pioggia che comincia a cadere fitta; vengono quasi a mente i famosi versi di Marino Moretti, "Piove, è mercoledì, sono a Cesena..."

In effetti piove. È pure mercoledì. Ma sono a Stjepancevo, villaggio distrutto difeso da una jazz band coi mitra e da un contadino armato fino ai denti.

"Li volete vedere i serbi?"
I giornalisti fanno finta di non credere alle loro orecchie; in realtà non aspettavano altro. Non c’è bisogno dell’interprete, stavolta; i jazzisti capiscono immediatamente e uno di loro va a prendere la jeep. Perché non c’è strada. Bisogna passare in mezzo ai campi. Com’è importante la rakija, con la rakija si passa tranquillamente anche in mezzo ad una povera, dimenticata terra di nessuno di serie Z. Finché non si arriva a una specie di garitta dove c’è un altro soldato col mitra e col binocolo.

“Ehilà!”


“Ciao Pero! Oggi abbiamo visite! Giornalisti italiani! (talijanski novinari)
Pero è un ragazzino, l’unico ragazzino in mezzo a dei quarantenni e a un vecchio, Il binocolo fisso sugli occhi, il mitra alla cintura, non smette un secondo di guardare di là, anche mentre parla.


“Sono venuti oggi?”


"No, ma Serban mi ha fatto cenno che fra poco viene."

Serban?
"Ma non è un nome serbo, Serban?", chiede di propria iniziativa l’interprete. "Serban" vuol dire "Serbo"; un serbo che si chiama Serbo.
"Sì, fra poco viene a trovarmi. Mio amico! (in italiano)".
E infatti dopo cinque minuti arriva un altro ragazzino. Di là.
Come diceva la canzone di De André? Chi era quello che aveva il suo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore? E si chiama pure "Pero". La guerra di Pero.

Pero e Serban si abbracciano come due vecchi amici. Perché sono due vecchi amici.
L’interprete riesce a cogliere qualcosa del discorso che si fanno, in dialetto stretto; si scambiano notizie sulle famiglie, la fidanzata di Serban è a Belgrado, ridono.
I giornalisti tempestano l’interprete. "Che si dicono? Che si dicono?"
Sarebbe questa la guerra, pensa l’interprete?
Pero nota la faccia esterrefatta degli italiani e si sente in dovere di spiegare.

"Serban è di Blizevo, a due km da qui...siamo andati a scuola insieme, una volta mi ha fregato la ragazza (Serban ride), spesso si andava pure a pesca insieme (Serban mima il gesto d’un pesce esagerato e fa "uuuhhhhh"). Lui è serbo, io sono croato, lui deve stare coi suoi e io coi miei.
Però siamo rimasti amici!".
Amici. Prijatelji.
"Scusa Pero, che ore sono?", chiede Serban.
"Dieci alle quattro Serban", risponde Pero.
"Devo andare."
"Ci si vede domani!"
"Domani!"

Domani?
Smette di piovere. Vicino c’è una casa diroccata con un tavolo pieno di bottiglie di birra, piene. Scritte, scritte, scritte.
Cinque alle quattro.
Le quattro.
Parte una raffica di mitra. "Giù tutti!"
L’inferno totale. Granate che scoppiano, i giornalisti vengono invitati a scappare verso dove ci sono le birre e l’interprete non sa cosa fare. Comincia a correre, sente un pazi!!!" (attento!!!) e si accorge d’aver messo un piede su una mina anticarro. Fortunatamente l’interprete non pesa quanto un carro armato; ma da qualche parte ci devono essere anche quelle antiuomo.

Mezz’ora a bere birra e a vedere quelli che si fanno la guerra. Arriva pure il contadino a tirare le sue brave granate, mentre la jazz band di Stjepancevo ci intrattiene con un concertino per Kalashnikov, Uzi e mortaio leggero. Per mezz’ora, forse un’ora, chissà. Viene seppellito il tempo finché non si sente l’ultima granata che scoppia, come al termine d’uno spettacolo pirotecnico, e poi un silenzio terrificante.

Ci salutiamo con dei "buona fortuna". In inglese, chissà perché; good luck.
La Golf è sempre lì. A Spalato il gruppo si getta sul primo chiosco di panini. Non so se qualcuno di voi ha mai provato una fame boia assieme a una voglia immensa di vomitare.
Ecco cosa andavano a fare gli amici Serban e Pero.
Andavano a salutarsi, prima; e a farsi la guerra poi.
Un salutino alle quattro meno dieci, prima di spararsi.
Alle quattro in punto c’è da farsi la guerra.


(Riccardo Venturi)



9 luglio 2006:



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La guerra di Pero   23/3/2007 20.40.12 (115 visite)   Peppos
   re:La guerra di Pero   23/3/2007 20.40.40 (40 visite)   gogo87_Out
      macché   23/3/2007 20.51.29 (32 visite)   Peppos
   re:La guerra di Pero   23/3/2007 21.57.29 (17 visite)   MaNuMeLa^ (ultimo)

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