Nick: marco Oggetto: almost you almost blue Data: 3/6/2007 13.38.5 Visite: 79
Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po' di polvere. Quello del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma non umido, secco. Una lingua di plastica. La puntina, strisciando nel solco, sibila pianissimo e scricchiola, una o due volte. Poi arriva il piano e sembrano le gocce di un rubinetto chiuso male e il contrabbasso, come il ronzio di un moscone contro il vetro chiuso di una finestra, e dopo la voce velata di Chet Baker, che inizia a cantare Almost Blue. A starci attenti, molto attenti, si può sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima a di almost, cosi chiusa e modulata da sembrare una lunga o. Al-most-blue... con due pause in mezzo, due respiri sospesi dà cui si capisce, si sente che sta tenendo gli occhi chiusi. Per questo mi piace Almost Blue. Perché è una canzone che si canta a occhi chiusi. Io, con gli occhi chiusi, ci sto sempre, anche se non canto. Sono cieco, dalla nascita. Non ho mai visto una luce, un colore o un movimento. Ascolto. Scandaglio il silenzio che mi circonda, come uno scanner, uno di quegli apparecchi elettronici che spazzano l'etere a caccia di suoni e di voci e si sintonizzano automaticamente sulle frequenze occupate. So usarli benissimo, gli scanner, quello che ho dentro la testa da venticinque anni, fin da quando sono nato e quello che tengo in camera mia, accanto al giradischi. Se avessi degli amici, se ne avessi, di sicuro mi chiamerebbero Scanner. Mi piacerebbe. Io di amici non ne ho. Per colpa mia. Perché non li capisco. Parlano di cose che non mi riguardano. Dicono lucido, opaco, luminoso, invisibile. Come in quella favola che mi raccontavano da bambino per farmi dormire, in cui c'era una principessa cosi bella e con una pelle cosi fine che sembrava trasparente. Ci ho messo tanto, tante notti sveglio a pensare, prima di capire che trasparente voleva dire che ci si poteva guardare dentro. Per me significava che le dita ci passavano attraverso. Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire. L'azzurro, per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali e le volpi sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immaginarlo ma so che è il colore del nulla, del niente, del vuoto. Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono colori che per me significano qualcosa per l'idea che contengono. Per il rumore dell'idea che contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la b, invece, sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo. Ecco, ad esempio, per me una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi. Ma se fosse veramente bella, allora avrebbe i capelli blu. Ci sono anche colori che hanno una forma. Una cosa rotonda e grossa è sicuramente rossa. Ma le forme non mi interessano. Non le conosco. Per conoscerle bisogna toccarle e a me toccare non piace, non mi piace toccare la gente. E poi con le dita sento solo le cose che ho attorno, mentre con le orecchie, con quello che ho dentro la testa, posso arrivare lontano. Preferisco i rumori. Per questo uso lo scanner. Tutte le sere, salgo in camera mia e metto sul piatto un disco di Chet Baker. Sempre lo stesso, perché mi piace il suono della sua tromba, tutte quelle p, piccole e profonde, che mi girano attorno e mi piace la sua voce che canta piano, come se venisse da dietro la gola e facesse fatica a uscire e per farlo si dovesse soffiare con tanto impegno da dover chiudere gli occhi. Soprattutto quel pezzo, Almost Blue, che io punto per primo, anche se è l'ultimo. Cosi tutte le sere e tutte le notti aspetto che Almost Blue mi scivoli lentamente in fondo alle orecchie, che la tromba, il contrabbasso, il pianoforte e la voce diventino la stessa cosa e riempiano il vuoto che ho dentro la testa. Allora, accendo lo scanner e ascolto le voci della città.
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