Nick: frisa Oggetto: Diciassette maggio. Data: 18/5/2004 16.5.7 Visite: 174
Diciassette maggio. 17/05 Erbil, Iraq: La pioggia è venuta, la pioggia è andata via. Le rose nel giardino dell’ospedale sono ancora umide. E la sala della terapia intensiva è ancora piena di bambini. Piccoli piccoli nei lettoni grandi. Al loro fianco, molte mamme siedono cupe in volto. Hanno tutte un identico vestito pulito, quello che l’ospedale fornisce loro. E identico velo, verde. Verde speranza, si dice da noi. Ma questo è verde sala operatoria, lo stesso colore dei camici dei chirurghi. Ahmed sembrava più grande, sul tavolo operatorio. O forse erano i miei occhi ad essere più piccoli. Otto, nove anni, azzardavo. Ne ha solo cinque. La prima operazione è andata bene, e la gamba è ancora dove dovrebbe essere. Ma serve ancora tempo, e altre operazioni, per essere sicuri che si possa salvarla. Nel frattempo abbiamo scoperto che cos’è successo. I bambini stavano giocando in uno spiazzo di cemento. Lì vicino, un uomo stava lavorando. Un lavoro che a noi può sembrare inconcepibile, ma che è molto frequente in posti come questo, reduce da decenni di guerra. Riciclare materiale bellico, smontare ordigni inesplosi per recuperare metallo e polvere da sparo. Cose che poi avrebbe venduto in Iran, a quattro ore di macchina da qui. Non porterà più niente, in Iran: quando il razzo che stava smontando è esploso, quell’uomo è morto sul colpo. E il nostro ospedale si è riempito di bambini. A giudicare dal tipo di ferite, qualcuno di questi cuccioli si era avvicinato a guardare l’uomo al lavoro. Sicuramente lo stava guardando Karwan, otto anni. L’esplosione gli ha sbranato entrambe le mani e i piedi. E’ il più grave. Sicuramente lo stava guardando Rebaz, con la curiosità dei suoi quattro anni. E forse non guarderà più niente, adesso: ha perso un occhio, e il chirurgo oculistico lotta per salvare l’altro. Con poche speranze di farcela. Jamal è stato il più fortunato: era molto lontano, le ferite sono superficiali, fra un paio di giorni sarà in piedi. Questi bambini non sono certo i primi a finire così, e non saranno nemmeno gli ultimi, in un paese che conta milioni di ordigni inesplosi. E non bisogna cadere nella facile tentazione di dare tutta la colpa a chi smontava il razzo. E’ la guerra, la vera responsabile. La guerra che lascia sul terreno mine, razzi, missili. La guerra che ti toglie il lavoro e ti costringe a rischiare la vita per mangiare. La guerra che toglie spazio ai bambini, e valore alla vita umana. La guerra. Odore di carne bruciata, Mohammed ha quattro anni. Facce annerite dal fuoco, Hemin ne ha nove. Corpi pieni di schegge, Watan e i suoi dodici anni, Gailan che va per i dieci, un altro Mohammed che va per i sei. E siamo a nove bambini. L’ultimo non è in terapia intensiva. Non gioca in giardino, non è da nessuna parte. Era vicinissimo al razzo, è arrivato in ospedale in condizioni disperate. E’ morto nella notte. Si chiamava Diar. Aveva sei anni. Cecilia
..parole di una "dottoressa di guerra"ke opera in Iraq.. per la pace ...per la vita...
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