Nick: Rasojo Oggetto: Indovinello Data: 25/5/2004 12.27.30 Visite: 94
Mi aveva molto divertito il test di Einstein proposto da MuadDib qualche tempo fa. Nei giorni scorsi mi hanno proposto un altro indovinello interessante. L' ho posto in forma di racconto. La soluzione c'e', davvero. INDOVINELLO C'era una volta, e ancora c'e', ma. Dicevo, c'era una volta un' isola. E l' isola e' ancora li'. E non molto ne e' cambiato. Solo la linea dell' acqua, qualche poco in piu', qualche poco in meno, sulle sue coste. E ora ci sono piante dove prima non c'erano, e viceversa; e lo stesso per gli animali e gli uccelli, come e' nel mutevole stato delle cose soggette a vivere e morire. Ma su quell' isola , c'era uno strano popolo, con uno strano Re. E ci sono ancora. Ma per loro, qualcosa è cambiato. Non moriva mai nessuno, di quel popolo, e non moriva il Re. Sarebbe stata un' esistenza felice, a meno di molti almeno. Se ad esempio, il tempo si fosse per loro bloccato nel tempo della giovinezza. Forse avrebbero avuto sogni, e anche ribellioni, e idee, come e' nello stato delle cose soggette a sognare. Ma per ciascuno di loro, gli anni del corpo si erano fermati in quello stato ingannevole, ai bordi del tempo in cui il sangue scorre piu' veloce. Quando il corpo risponde, ma non proprio come prima, e uno non se ne accorge. E la mente risponde, ma, davvero, non proprio come prima, e uno non se ne accorge. Era un po' piu' anziano, il Re, come devono esserlo i Re. E aveva una lunga e saggia barba bianca. Il fatto che ad essere saggia fosse la barba, e non l' uomo, era proprio il frutto di quella lieve stanchezza del cuore, che finisce per adagiarsi sui colori conosciuti : il bianco della saggezza, l' ocra pallido della sicurezza. E d' ocra pallido era la loro pelle, la pelle di tutti. Ma non erano proprio tutti uguali. Alcuni (pochi) avevano gli occhi azzurri. E qui comincia la storia. Perche', purtroppo, era quella, davvero, l' unica differenza. Le differenze sono fatte di discussioni, e quel popolo non discuteva. Non ne aveva abitudine. Silenziosi i tavolini, sotto i chioschi, dove la gente si fermava a bere un succo d' anice, e nient' altro. Silenziosi i mercati, dove la gente comperava stoffe e archibugi e conigli, e nient' altro. Non si trattava, non si imbrogliava, non si litigava, perche' non si comunicava. Mai. Ciascuno sapeva il prezzo delle cose, e pagava il prezzo delle cose, e incassava il prezzo delle cose, giorno dopo giorno, senza sorprese. L' eternità aveva levigato le competenze e i bisogni, e ciascuno conduceva giorni bene oliati, soggetto solo alle albe, ai tramonti e al volere del Re. Che non voleva molto, ne' spesso, ma. Ma un giorno cominciò ad avvertire qualcosa, una stanchezza sulla stanchezza consueta. E nella consuetudine si rifugiò, prima per trovare ristoro, poi per fuggire , infine per maledire questo sentimento nuovo, che come vanga rivoltava un cuore non abituato ad essere rivoltato. Tra i suoi cibi deliziosi si rifugio'. Tra le sue coltri dorate si rifugio'.Tra le sue concubine. Ma niente. Lui era il Re. Ma non sapeva cosa avesse: Ne' aveva alcuno a cui chiedere, tra i suoi concittadini tutti muti, tutti uguali, nessuno dei quali avrebbe mai sognato il mezzo potere, il pericoloso potere, di un Visir o di un Astronomo di Corte, perche', soprattutto, nessuno sognava. Tranne, forse , un po' il Re. Che per questo , forse, un po', era il Re. E come fanno molti che hanno mezzi sogni, si mise a studiare. Era l' unico che sapesse leggere, perche' chi non ha niente da dire niente ha da imparare. Sperando che nel mezzo sogno di qualcun' altro, lasciato a seccare su su un libro come certi fiori che si vorrebbero, invano, ricordare belli, , ci fosse la spiegazione del suo mezzo sogno; fantasma di sogno, sufficiente a inquietarlo, ma non a farsi afferrare. Che del sogno lasciava la sete, ma non i colori. I colori. Comincio' a capire leggendo vecchi trattati su prismi e vernici e pennelli e lastre ricoperte d' argento. Tossendo per quei tomi polverosi, che giorno e notte si faceva recare da servi ubbidienti (nessuno discuteva, e tutti gli ubbidivano, sempre), naufragati da navi sconosciute (venute dall' infinito oltre l' infinito mare dove nessuno di loro aveva mai saputo andare) secoli addietro e subito portati nella Biblioteca Reale , il Re scopri' dell' esistenza degli specchi. E dei ritratti. E gli parve di avvicinarsi alla soluzione del problema, quando ordino' che i suoi sudditi fabbricassero specchi, imparassero a dipingere. Ma. Ma per quanto pronta, e spontanea, e volenterosa, fosse la loro ubbidienza, e intelligente, dopotutto, la loro natura, questa volta i sudditi fallirono. Perche' di due cose ha bisogno un fabbricante di specchi : di silice e argento. E proprio, proprio proprio, non un granello di sabbia silicea, non un grammo d' argento c'era sull' isola. E fu allora, che il Re scopri' la natura particolare di quella terra; che' pensava che ovunque fossero le terre di quel fango compatto, fertilissimo ma inutile agli specchi; che ovunque avesse l' acqua quell' ombra polverosa, che non la rendeva insalubre, ma le negava la trasparenza. Sali di manganese, forse, e forse d' altro, sottilissimi, che tingevano l' acqua e la pelle degli uomini di quel colore ocra pallido, che fino ad allora il Re, come tutti, aveva considerato normale, consueto , sicuro. Forse , forse con filtri e vasi di porcellana avrebbero potuto qualcosa ottenere; ma fatto sta che non ci riuscirono. Forse e' meno ovvio di quel che pensiamo, lo specchiarsi nell' acqua. Forse l' idea di trasparenza bisogna assorbirla da bambini. E nessuno li' era piu', neanche in parte, bambino. Quanto al dipingere, fu questo il nuovo capriccio del Re. Che tutti i sudditi imparassero a dipingere. Ma. Come puo' dipingere un uomo che non sa sognare ? Come comunicare i propri sogni alla tela, se non si sa comunicare, ne' sognare ? Alla fine : erano negati. ma cosi' negati, perfino al semplice disegno, che dopo qualche poco il Re , disperato, ordino' che fossero distrutti tele e pennelli e carboncini, e mai nessuno piu' vi s' azzardasse. Povero Re, e povere concubine, che in pose faticose seppur consuete ne dovevano placare i crescenti ardori, vapore di una insoddisfazione che non trovava sfogo. E poi, un giorno, capi'. Non tra i libri, che ormai, esausto e deluso, aveva rinchiuso a dormire ancora, per altri ed altri secoli, sugli scaffali brevemente violati. Al mercato, capi', tra i gesti muti degli uomini e delle donne che senza un cenno, tra i banchi prelevavano e lasciavano le cose. Senza un cenno, ma. Ma per un attimo, sotto il cappuccio di uno, vide riflettersi qualcosa che lo feri'.. O che interpreto' male, ferendosi. Negli occhi di un uomo vide riflesso il cielo. E in quell' istante ricordo' gli specchi. Specchi che, comprese, ormai affollavano le sue notti che credeva nere e senza immagini. Specchi che lo chiamavano, lo beffavano, come desideri in fuga. Puo' un uomo avere desiderio di specchi e non saperlo ? A noi risposta si nega. Come tutte le cose che vediamo senza vederle, che pratichiamo senza notarle, diamo , noi cittadini di un mondo distante oltre un mare che non comprendiamo, poco peso alla cosa ; assorbiamo la magia degli specchi come ci fosse dovuta. Perche' sappiamo gli specchi, ma abbiamo gli specchi. E come certe donne insostituibili, li diamo per scontati senza sapere il bene che fanno al nostro cuore. Ma il Re. Ah , il Re. Il Re sapeva gli specchi, ma non aveva gli specchi. E quella vista lo oltraggio', lo feri' cosi' profondamente, lui, leone disabituato alla lotta, alla difesa del dominio che. Che gli prese rabbia e furore, e infine disgusto, un disgusto tanto piu' nauseante e terribile perche' sapeva come mandarlo via. Sapeva di avere il potere di farlo. E lo fece. Ora, non dobbiamo pensare che il Re fosse cattivo. Buono non era, ma nemmeno interamente malvagio, come in fondo puo' dirsi di tutti. E gli dispiacque di essere come era, di fare quel che stava per fare. Ma lo fece. Con piu' di una lacrima agli occhi, tanto per la sua incapacità a cambiare la propria natura che per i sudditi, che alfine amava. Ma li raduno', e disse loro, con voce malferma (il che non conto' perche' sempre e comunque gli uomini e le donne dell' isola gli avrebbero obbedito, anche a voce malferma e incerta come quella volta. Perche' era l' unica voce che conoscessero). Disse loro. "Oh, Popolo mio fedele. Ho da darvi un' ordine che m' addolora, ma devo. Perche' non e' accettabile che qualcosa turbi la felicità del Re, nonostante il porvi fine, infine, lo turbi, questo vostro re. Ma. Sara' dolore di breve durata, almeno, e io so che mi obbedirete. Io non vi spiego perche', perche' dovrei parlarvi di libri e di navi e di argento e di fallimenti, e non c'e' tempo per questo, ne' dovra' esserci mai. Ma. Voglio che quanti di voi hanno gli occhi azzurri ( e sappiate che ve n'e' almeno uno) , carichino il loro archibugio con le pietre piu' preziose, quelle pietre nere e lucenti e pesanti che tanto amiamo. E che, accesa la miccia, si accostino alla bocca dell' arma come a un' amante. E si sparino un colpo. Questo io vi dico, o sudditi amati, che' mi fa male vedere il cielo dove non dovrebbe esserci cielo, e altro non voglio rivelare. Andate ora alle vostre case, e come sempre ubbidite." La folla si disperse, come sempre silenziosa, senza segni di particolare rancore, perche' quella era la natura di quella gente. E la sera si trovarono in piazza, alla luce fortissima dei grandi fuochi che ricordavano il Sole. E si guardarono tra loro. E non si dissero niente. Poi se ne andarono. E la notte fu quieta. La sera successiva, erano ancora li' a guardarsi. Tutti. E silenti, senza aver fatto cenni (che' non avrebbero saputo come) , ancora si dispersero. E ancora la notte fu quieta. Poi, la terza sera si incontrarono, e si dispersero ancora. Ma. Ma come tuono, quella notte, il fragore della polvere da sparo risuono' nella landa dove mai voce o pianto di bimbi risuonava. E la quarta sera, in piazza, furono di meno. Ora. Quanti erano i sudditi con gli occhi azzurri ?
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