Nick: Aragorn84 Oggetto: Kazakistan, i Gulag dimenticat Data: 2/6/2004 6.44.37 Visite: 41
Kazakistan, i Gulag dimenticati La tolleranza del "male assoluto" di Alberto Rosselli ..................................................................... "Per la fame molti mangiavano le dita dei morti" Sui gulag siberiani molto è stato detto, ma assai meno è stato raccontato circa il destino delle decine di migliaia di prigionieri che, prima e durante la Seconda guerra mondiale, i sovietici deportarono nei 22 campi della regione di Karagandà (Kazakistan) e in quelli situati in Kirghisistan, Uzbekistan e Tagikistan. La storia di questo spaventoso sistema di prigionia organizzato, abolito soltanto all’inizio dell’Era Gorbaciov, risale all’epoca delle "grandi purghe" staliniane degli anni Trenta, allorquando i vertici del Cremlino decisero di creare in queste remote ed estese regioni asiatiche strutture nelle quali dovevano essere sperimentati "nuovi ed efficaci metodi di rieducazione di soggetti socialmente e politicamente inaffidabili". Tra il 1933 e il 1939, in questi lager cintati venne infatti rinchiuso un numero imprecisato (si parta di almeno 350.000 individui) di cittadini ucraini, baltici, russi, bielorussi, tartari, armeni, azerbaigiani, calmucchi e caucasici, ed appartenenti a svariate religioni (ebraica, mussulmana, ortodossa e cattolica), ai quali poi si aggiunsero, dopo l’invasione sovietica della Polonia (17 settembre 1939) e l’inizio della guerra russo-tedesca (22 giugno 1941), altre decine di migliaia di prigionieri dell’Asse. La porta di entrata della "scuola rieducativa" (come venne chiamata dalle autorità sovietiche) di Karagandà era la stazione di Karabàs, punto di arrivo dei convogli ferroviari carichi di prigionieri provenienti da tutto l’impero sovietico. Una volta sbarcati dai vagoni, i deportati venivano disinfestati e subito smistati nei vari "recinti attrezzati": un insieme perfettamente geometrico di baraccamenti privi di luce elettrica, acqua, servizi igienici e riscaldamento, circondati da alti reticolati di filo spinato elettrificato intervallati da numerose torri di guardia dotate di mitragliatrici e riflettori. La gran parte dei 22 lager di Karagandà era situata nelle immediate vicinanze delle grandi miniere di carbone ancora oggi presenti in questa regione. Nell’estate del 1941, a Karagandà iniziarono ad affluire i primi prigionieri tedeschi e romeni che, per motivi di sicurezza, vennero tenuti separati da quelli russi già presenti e sistemati in altre sezioni di più recente costruzione, come quella di Majkoduk. Il primo convoglio con a bordo 1.436 soldati della Wehrmacht giunse a Karagandà nell’agosto del 1941. E successivamente, tra il settembre 1941 e il novembre 1945 (cioè a guerra terminata), altri 40/50.000 prigionieri di guerra, tra cui 8.113 militari germanici, oltre ottomila italiani e ben 11.608 soldati giapponesi (catturati in Manciuria dall’Armata Rossa tra l’agosto e il settembre del 1945) varcarono la soglia del campo per rimanervi (almeno quelli che riuscirono a sopravvivere) per parecchi anni. Basti pensare che non pochi soldati tedeschi e giapponesi vennero liberati e rimpatriati soltanto nel 1955, cioè 10 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. A Spassk, località ubicata a 30 chilometri da Karagandà, i sovietici, oltre ai lager veri e propri, avevano allestito anche uno speciale "campo-lazzaretto" dove venivano ricoverati i prigionieri malati. Inizialmente, nei baraccamenti di questo curioso e lindo ospedale privo di letti, medici e infermieri, andarono a morire alcune centinaia di reclusi russi affetti dai più svariati malanni. Il 24 luglio 1941, su decisione del vice-capo della NKVD Cernisjov, Spassk venne però sottoposto ad una ristrutturazione e trasformato in un normale gulag per soli prigionieri di guerra, mentre gli ultimi cittadini russi ancora in vita vennero trasferiti in un altro campo situato nella non lontana Koksu. I malati finirono invece nelle infermerie dei campi. La vita nei recinti di Karagandà era simile se non peggiore (almeno per certi aspetti) a quella dei più noti gulag siberiani. I reclusi venivano impiegati soprattutto nell’estrazione del carbone o nelle cave di pietra. La giornata lavorativa invernale iniziava alle sei del mattino e terminava alle sei di sera. Per recarsi alle miniere i prigionieri erano costretti a percorrere a piedi una media di 15 chilometri, con temperature che non di rado scendevano a meno 25 gradi. La durezza del lavoro e l’esiguità delle razioni (ai reclusi venivano concesse, due volte al giorno, una ciotola di brodo di miglio con qualche rapa o patata marcia e un tozzo di pane nero) causavano ovviamente frequenti crolli fisici e frequenti decessi. Senza considerare che le operazioni scavo nelle miniere (profondi antri privi di sistemi di sicurezza e quindi soggetti a frequenti frane) provocava settimanalmente decine tra morti e feriti. Durante il 1945, ben 4.643 prigionieri incapparono in infortuni sul lavoro che causarono il decesso di circa 950 uomini. Ma a parte gli infortuni, in tutti i campi del Kazakistan la situazione sanitaria era comunque globalmente molto precaria. Il tasso di mortalità per malattia (soprattutto polmonite e tifo intestinale) era elevatissimo. Ciononostante, soltanto agli internati con 39 di febbre veniva concesso qualche giorno di riposo e, molto raramente, un paio di gavette di miglio in più come supporto terapeutico. Anche perché i medicinali erano quasi del tutto assenti. Secondo dati recenti, ma probabilmente incompleti, resi pubblici negli anni Novanta dalle autorità kazake, tra il 1942 e il 1946, nei gulag di Karagandà morirono di malattia e stenti oltre 6.000 prigionieri (2.430 dei quali nel solo 1945). E particolarmente alti, a questo proposito, risultarono i decessi tra i deportati giapponesi. Tra le cause di morte certificate dai medici sovietici distaccati presso i campi, furono - oltre la polmonite e il tifo intestinale – anche altre patologie come la tubercolosi, la meningite, l’iperdistrofia muscolare e la disvitaminosi cronica. Senza considerare i non rari casi di suicidio e la morte per percosse o colpi d’arma da fuoco. Per esempio, tra il 1941 e il 1945, seicento prigionieri, appartenenti a diverse nazionalità, accusati di avere sottratto cibo o vestiario, vennero eliminati con un colpo alla nuca e sotterrati in anonime fosse comuni. E’ interessante notare che, sempre tra le cause di morte, vennero registrati anche 50 casi di "congelamento nelle baracche": costruzioni che essendo prive di stufe, d’inverno si trasformavano in vere e proprie ghiacciaie con temperature oscillanti intorno ai meno 15 gradi centigradi. Fu soltanto verso la fine degli anni Quaranta che Mosca incominciò il graduale rimpatrio di una parte dei circa 20.000 internati dei campi del Kazakistan, anche se nel 1951 dietro il filo spinato se ne contavano ancora 8.650. Alcuni scaglioni furono infatti liberati soltanto dopo la morte di Stalin, tra il 1953 e il 1955. Tra i prigionieri di guerra detenuti a Spassk c’era l’artigliere alpino, Andrea Bordino di Castellinardo (Cuneo) che nel dopoguerra, dopo essere rientrato in Italia, prese l’abito talare diventando fratello Luigi e prestando servizio presso l’Istituto Cottolengo di Torino. Qualche anno fa è iniziato il suo processo di beatificazione durante il quale sono state raccolte molte testimonianze sulla sua vita esemplare, comprese quelle relative al periodo da lui trascorso dietro il filo spinato di Spassk. E queste preziose memorie, minuziosamente vagliate e confrontate con i ricordi di alcuni suoi compagni di prigionia sopravvissuti, hanno consentito di ricostruire alcuni degli aspetti della vita in questo ed altri campi del Kazakistan. "Degli 8.000 italiani (soldati del CSIR e dell’ARMIR, ndr) trasferiti tra il 1941 e il 1943 nel campo Ievetnot Sodieved 99 di Spassk, soltanto 200 fecero ritorno in patria", annotò un compagno di Bordino, il soldato Pietro Ghione. "Le nostre condizioni fisiche e psichiche erano talmente disastrose che stentavamo a reggerci in piedi. Eravamo tutti distrofici e non potevamo sopportare lavori troppo pesanti. I prigionieri ancora sani venivano spediti nelle miniere o, più raramente, se si trattava di un tecnico o di un operaio specializzato, in qualche fabbrica… A chi lavorava all’aperto venivano dati dei vestiti di pelliccia grezza… Ma all’interno del campo eravamo ricoperti di stracci. Noi malati eravamo talmente prostrati che facevamo fatica perfino a parlare. Tutte le notti qualcuno di noi ci lasciava la pelle. "Giunsi al campo 99 verso la fine di aprile", racconta un altro scampato, il soldato Giovanni Mana, anch’egli rinchiuso a Spassk. "Vivevamo nel buio. Durante l’inverno ci cacciavano nelle miniere per uscirne che era notte. Non veniva mai giorno, e mai primavera. Ricordo che il ghiaccio cominciò a sciogliersi a maggio inoltrato". A Spassk la giornata iniziava con la conta dei prigionieri che poi erano costretti a lavare con secchi di acqua ghiacciata i pavimenti della baracca. Verso le otto, le guardie passavano una ciotola di ciai (una specie di tè) e qualche volta un pezzo di pane nero, e alle dieci e mezza una scodella di miglio. Poi, intorno alle quattro del pomeriggio, quando ormai era buio, era la volta della seconda scodella, accompagnata qualche volta da un pizzico di farina o da una patata. "Ogni giorno ci era concessa un’ora di riposo, che era solitamente dedicata all’indottrinamento politico. Qualche volta ci lasciavano cantare, ma era d’obbligo l’Internazionale… Più raramente ci permettevano di intonare motivi alpini o pezzi d’opera. I russi amavano la musica italiana. La sera, invece, si pregava, ma in silenzio". Nell’inverno 1943/1944, come conseguenza diretta della drastica riduzione del cibo destinato agli internati "fascisti" dell’Asse, a Spassk si verificarono numerosi casi di cannibalismo. Come raccontò Pietro Ghione: "vidi con i miei occhi un prigioniero ungherese cibarsi delle carni d’un soldato italiano morto". Testimonianza è avvalorata da quella del soldato di fanteria Bruno Borettini, della Divisione Pasubio: "la fame era tale che molti arrivarono a tagliare le dita dei morti e a mangiarsele". "Nel novembre 1941 fui preso prigioniero a Stalino e spedito in Kazakistan, a Karagandà, Campo n. 99", racconta Borrettini. "Un giorno, tormentato dalla fame, andai a raccogliere dell’erba che purtroppo si rivelò velenosa. Fui ricoverato al Lazzaretto dove mi fecero una lavanda gastrica. Dopo qualche mese di fame e freddo mi beccai una pleurite bilaterale… Ma i russi non vollero ricoverarmi perché dicevano che ero un piantagrane. Un ufficiale medico tedesco mi visitò e con una rudimentale siringa mi aspirò due litri di acqua dalle pleure. Passai sette anni di prigionia. Poi, quando venne il giorno del mio rimpatrio, mi ammalai nuovamente: era malaria. Due miei commilitoni napoletani mi presero sotto braccio e mi accompagnarono fino alla stazione di Paktaral. Se i russi si fossero accorti del mio stato non mi avrebbero lasciato partire e sarei rimasto in Kazakistan per sempre. Tornato in Italia, al mio paese, il sindaco, che era un comunista, mi promise un lavoro dignitoso. Ma siccome un giorno venni sorpreso in un’osteria a parlare male dell’Unione Sovietica, si rimangiò tutto. Io sarò anche un povero contadino, ma quella fu proprio una bella carognata". BIBLIOGRAFIA: Il grande terrore, di Robert Conquest, Edizioni BUR (Rizzoli), 1999 Gulag, il sistema dei lager in URSS, di Marcello Flores e Francesca Gori (a cura di), Edizioni Gabriele Mazzotta, 1999 I racconti della Kolyma, di Varlam _alomov, Edizioni Adelphi, 1999 Arcipelago Gulag, di Aleksandr Solzenicyn, Oscar Mondadori, 1990 "Le peculiarità dell'universo concentrazionario sovietico" (estratto) di Giovanni Gozzini, giugno 2000. "Memorie di Viaggio" (estratto) di Franco Marchi, 2002. Omonimo sito internet. "Resoconto del viaggio in Kazakistan, Agosto 2002" (estratto), di Aldo Giordano, Segretario generale CCEE.
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