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Dottor Tosel, in base a cosa decide il Giudice sportivo? «Premetto che per ragioni deontologiche parlerò solo in linea teorica. Comunque il Codice di giustizia sportiva (Cgs) mi impone di esaminare i fatti così come mi vengono refertati dall'arbitro o dal collaboratore della Procura federale (l'ex ufficio indagini, ndr). In alternativa posso utilizzare la prova televisiva solo se espressamente richiesta dal Procuratore federale e solo per alcuni casi particolari o di estrema gravità e sempre se non siano stati messi nel referto dell'arbitro».
Insomma il Giudice sportivo non deve guardare la televisione. E come si stabilisce se dei fatti violenti riguardano o meno la punibilità delle società? «Questo rientra nella sfera della responsabilità oggettiva. E mi lasci parafrasare Churchill dicendo che è un pessimo istituto, ma non ne hanno inventato uno migliore per contrastare gli eccessi dello sport. Comunque, per tornare alle sanzioni, in questa materia è sufficiente richiamare l'articolo 14.1 del Cgs che recita "Le società rispondono per i fatti violenti commessi in occasione della gara, sia all'interno del proprio impianto sportivo, sia nelle aree esterne immediatamente adiacenti, quando siano direttamente collegati ad altri comportamenti posti in essere all'interno dell'impianto sportivo, da uno o più dei propri sostenitori se dal fatto derivi un pericolo per l'incolumità pubblica o un danno grave all'incolumità fisica di una o più persone". Ed è questo lo spartiacque».
«Mi brucia dentro la decisione del Gip secondo la quale fossero da ritenere responsabili solo coloro che avevano nello zaino machete e coltelli, quasi che gli altri fossero lì solo per prendere parte a un picnic». Così il ministro dell'Interno Giuliano Amato, durante l'audizione in commissione parlamentare Antimafia, ha ricordato l'episodio dei 66 ultras laziali fermati prima di una trasferta a Bergamo. «I tifosi della Lazio - ha spiegato il ministro - si erano dati appuntamento per dividersi i machete e i coltelli che quattro di loro avevano negli zaini prima di partire per Bergamo. Il progetto era di incontrare in un autogrill gli ultras del Napoli che si stavano recando ad Empoli. Noi - ha confermato il ministro - lo sapevamo. Saremo forse troppo curiosi, ma lo sapevamo e infatti la polizia gli è saltata addosso». Ed è per questo che la decisione del giudice del Tribunale di Roma, Adele Rando, che ha convalidato per soli 5 tifosi su 66 l'obbligo di firma in occasione della partite della Lazio, gli «brucia dentro». La Digos e i carabinieri di Roma avevano bloccato all'alba del 23 settembre i 66 tifosi della Lazio, tutti appartenenti ad un gruppo minoritario della curva chiamato «Army», che stavano partendo per Bergamo armati di bastoni, coltelli, tirapugni e persino cinque machete. Il gruppo, composto da uomini tra i 25 e i 30 anni e da due donne, anch'esse armate di coltello, era stato fermato in piazza Vescovio, dove si era dato appuntamento per poi partire. «È una mia grande soddisfazione il fatto che sia stata preventivamente fermata un'operazione di pestaggio di tifoseria ultrà», aveva commentato quel giorno proprio a Napoli il ministro dell'Interno, il quale aveva anche aggiunto di avere però l'amaro in bocca per la denuncia a piede libero poiché la legislazione vigente non aveva permesso il fermo degli ultras.
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