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Nick: Viola*
Oggetto: Boh
Data: 22/2/2008 15.54.3
Visite: 279

Avvertenza: papiello a tratti delirante.
Ho avvisato, eh.


Avrei voluto leggere il libro di Valeria Parrella "Lo spazio bianco", per curiosità, però non l’ho fatto.
Ho letto delle ottime critiche, però delle critiche non mi fido, spesso sono soltanto dei marchettoni ben confezionati.
In realtà confesso: non l’ho voluto leggere per invidia.
Ebbene sì, questa tipa napoletana come me, giovane (31 anni), che faceva la commessa da Feltrinelli, è riuscita ad avere successo come scrittrice.
Ma non è tanto il fatto del successo, è il fatto che ci ha provato. Cioè, si sarà messa "con la capa e col pensiero" a scrivere un libro. Io l’ho mai fatto? No.
Lo farei mai? Assolutamente no, troppa fatica. Per cui di cosa sono invidiosa? Boh.
Forse del fatto della "capa e del pensiero", vorrei anch’io mettermi finalmente con la capa e col pensiero a fare qualcosa, perché in realtà in qualunque cosa io faccia c’è sempre una parte che resta a guardare e se ne fotte allegramente.
Questo era il motivo meschino, poi ce n’è un altro.
Leggo che il romanzo parla di una donna di 40 anni.
Niente, è che dubito fortemente che una scrittrice di 31 anni possa "essere" una donna di 40 anni.
Non c’è poi molta differenza? C’è, eccome se c’è.
Come una ragazza di 20 anni che cercasse di "essere" una donna di 30.
C’è una differenza enorme. L’arte è simulazione? Ok.
Però il caso della scrittura è particolare, per me questa faccenda dell’età può funzionare al contrario, e cioè uno scrittore di 50 anni può "essere" un bambino in un suo romanzo, perché no, anche un 20enne, un 30enne…
Ma uno scrittore 30enne che scrive di un 50enne per me è improbabile.
Un’età contiene tutte le età che l’hanno preceduta, non quelle a venire, e la nostra mente cambia così tanto nel corso della vita, lascia andare tante cose e ne acquista talmente tante altre, che cercare di "essere" qualcuno più avanti su quella strada, è appunto una cosa improbabile.
E’ finzione, magari di altissimo livello, ma pur sempre finzione.
Sì, certo, ci sono scrittori che hanno scritto di mondi sconosciuti senza essersi mossi da casa, ma è una cosa diversa.
E’ la "percezione", semplicemente. Lo scrittore di 50 anni chiuso nella sua stanzetta può scrivere di un uomo di 30 perso su Marte, e lo fa perché sa come percepisce le cose un uomo di 30 anni.
Una scrittrice di 30 anni chiusa nella stanzetta può scrivere di una donna di 50 anche lei chiusa nella sua stanzetta, ma come percepisce le cose quella donna in realtà lei non lo sa. Lo saprà in futuro, magari, ma in quel momento no, è semplicemente impossibile.
E’ come, citando appunto il romanzo della Parrella, cercare di descrivere cosa c’è in uno spazio bianco.

Non mi ricordo chi un paio di giorni fa chiedeva quale libro vi sarebbe piaciuto avere scritto.
Beh, per me la risposta è facile: "Anna Karenina" di Tolstoj, che per me non è un romanzo, ma è "il romanzo". Per me nella letteratura non esiste opera che possa stargli al pari.
Perché? A parte l’architettura complessa e assolutamente perfetta, a parte una rappresentazione della passione amorosa nella sua essenza come in nessun altro romanzo, a parte il tratteggiare con mano sublime temi come l’etica, la giustizia, la morte, la morale etc… soprattutto c’è la questione della "metamorfosi".
Una metamorfosi spaventosa dello scrittore in una donna, come mai si era vista prima, e mai dopo.
Tolstoj "è" Anna, e resterà per sempre un mistero come sia riuscito a vivere nella sua mente la passione, lo sperdimento e quella follia così femminile, solo femminile di una donna che non si sente più amata (quel tipo di follia al maschile è diverso).
Vabbè, non per niente lui era Tolstoj, dopotutto.
(Sì, ok, Flaubert scrisse "Madame Bovary c’est moi", ma in quel romanzo, pur bellissimo, non c’è alcuna metamorfosi, lo scrittore osserva il suo personaggio, in maniera straordinaria, ma lo osserva e basta).
C’è la descrizione di una battaglia, in "Guerra e pace", in cui lo scrittore "è" contemporaneamente un cavallo, un filo d’erba calpestato, un soldato semplice, un generale.
Lui riesce ad essere i suoi personaggi, e contemporaneamente è al di fuori, "al di sopra".
Dostoevskij ad esempio è "dentro", è posseduto dai suoi personaggi.
Tolstoj "è" i suoi personaggi, ma contemporaneamente è l’occhio che li osserva, riesce sovrumanamente ad essere entrambe le cose.
Quando lo si legge, si avverte sempre quell’occhio che osserva, quello sdoppiamento che sembra impossibile se si cerca di descriverlo, ma che è lì.
Che lo rende, appunto, Tolstoj.
Sì, Dostoevskij mi piace, ho letto quasi tutto di lui, ma non mi incute timore, non mi lascia senza parole e mi fa sentire piccola come ha sempre fatto Tolstoj.
Dostoevskij è uno di noi, Tolstoj è qualcosa d’altro, se un giorno qualcuno scoprisse che era un alieno io non mi stupirei più di tanto.
Poi ho notato che Dostoevskij piace molto ai ragazzini. Ottima cosa, per carità, in un mondo in cui Federico Moccia (che blasfemia parlare di questi scrittori e nominare Moccia, aiuto) sforna best sellers.
Però i ragazzini (intendo gente intorno ai 20 anni) lo amano molto (ripeto: OTTIMA cosa), che amino Tolstoj è più difficile.
E non lo so il perché, io Tolstoj l’ho letto la prima volta a 19 anni e da allora sono sua, ma appunto è difficile che ciò accada. Forse perché Dostoevskij in un certo senso è più "facile", più immediato, e Tolstoj invece parla a chi è capace di sdoppiarsi, di essere "dentro e "fuori" al tempo stesso, di percepire se stesso come l’attore e l’occhio che guarda. E ripensandoci forse alla fine sarebbe meglio che Tolstoj sembrasse una voce estranea; vabbè, lasciamo stare.

Cmq, in ogni caso, avrei detto "Anna Karenina" di getto.
Però ripensandoci no. Cosa comporta il riuscire a scrivere un romanzo così? Cosa comporta il possedere una mente simile, che riesce ad essere "dentro" e "fuori" contemporaneamente, che è capace di operare metamorfosi spaventose, e che alla fine, diciamolo, odia il mondo e gli esseri umani (forse perché era troppa la distanza tra loro e lui) con una tale intensità?
Comporta una sorta di follia, l’infelicità, l’irrequietezza perenne.
Quella che fu la vita di Tolstoj, che non per nulla scappò di casa a 80 anni in cerca di sa solo lui cosa, e morì in una sperduta stazioncina ferroviaria mentre la sua mente sovrumana non smetteva di correre, e alla figlia che lo esortava a "non pensare" rivolse le sue ultime parole: "pensare… come si fa a non pensare, com’è possibile… pensare si deve, sempre…".
Un peso quasi insostenibile, avere una mente del genere.
Quindi no, non vorrei avere scritto "Anna Karenina", e nemmeno un altro grande romanzo come che so… "L’idiota" di Dostoevskij o "Viaggio al termine della notte" di Céline o "Mrs Dalloway" di Virginia Woolf.
Non vorrei per tutto il carico di fatica, di dolore che deve esserci stato dietro.
Ricordo ciò che scrisse Katharine Mansfield, grandissima scrittrice di racconti brevi, morta a soli 35 anni: "Non voglio scrivere, voglio vivere!". Era proprio un grido disperato.
No, non vorrei avere scritto alcun libro, vorrei solo riuscire a vivere. E basta.



"Chi non s'aspetta l'inaspettato non scoprirà mai la verità" - Eraclito















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Boh   22/2/2008 15.54.3 (278 visite)   Viola*
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