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Nick: asad
Oggetto: UNO BIANCA
Data: 8/7/2004 0.13.37
Visite: 343

Uccidevano per piacere e senza pietà
Poliziotti killer
I tre fratelli Savi assassini della Uno Bianca

Ventiquattro morti, centodue feriti, centotré azioni criminali, tre fratelli ed un anno: il 2004, ovvero la data in cui Roberto, Fabio ed Alberto Savi potrebbero esse ammessi ai benefici della legge in caso di buona condotta. Questo il crudo bollettino di guerra di sette anni e mezzo di attività criminale della cosiddetta "banda della Uno bianca".

La soluzione del caso si deve soprattutto al lavoro di due oscuri poliziotti di Rimini: Luciano Baglioni e Pietro Costanza. Sono loro che nel novembre del '94 imbroccano, dopo mesi di tentativi infruttuosi, la pista giusta. Eppure la vicenda dei fratelli Savi è ancora offuscata da mille insinuazioni: si è parlato di servizi deviati, di traffico internazionale d'armi, di clan catanesi, di bande sarde, di piccoli boss di provincia. Eva Mikula, la fidanzata rumena di Fabio, c'è diventata famosa, ma di Baglioni e Costanza si è sempre saputo poco. Anzi, oltre ad un encomio solenne non hanno ottenuto nessun riconoscimento, se non quello personale di aver vissuto "un giorno da leoni". Daniele Paci, il magistrato della procura di Rimini che li ha sostenuti e guidati nell'indagine e che ancora oggi è loro amico, è finito sotto inchiesta perché si è dubitato della sua buona fede nelle indagini e si sono cercate ontraddizioni inesistenti e dietrologismi pretestuosi.

Nei primi anni Novanta la banda dell'Uno bianca impazza tra Rimini, Pesaro e Bologna. Rapina con freddezza, professionalità, totale assenza di scrupoli e senza rubare mai grandi cifre. Sono poliziotti, amano le armi, odiano neri e zingari, si divertono a spaventare le prostitute, uccidono anche quando non è strettamente necessario, per il gusto di farlo, non per i soldi.

I tre fratelli Savi erano il nucleo di base della banda. Roberto Savi, 42 anni, padre di famiglia, assistente capo della squadra volanti di Bologna, è la mente della banda. Fabio, 36 anni, è l'unico non poliziotto. Faceva il camionista e vari lavoretti saltuari. Alto, dinoccolato sarà lui a condurre Baglioni e Costanza alla verità. Poi Alberto, 31 anni, anche lui sposato e padre, in servizio al commissariato di Rimini. Con loro, colpo dopo colpo, altri tre poliziotti, Pietro Gugliotta, 36 anni, Marino Occhipinti, 31, Luca Vallicelli, 36.

La banda entra in azione nel 1987. Tre uomini armati, efficienti e decisi, attaccano supermercati, banche, caselli autostradali, distributori di benzina o quantaltro capitasse loro a tiro. A Casalecchio sul Reno non rubarono niente: un furgone blindato aveva già portato via l'incasso, ma lasciano dietro di loro due morti - i carabinieri di pattuglia intervenuti all'allarme, due ragazzi di leva di 22 anni - e tre feriti. Dopo una decina di altre rapine senza senso, in una delle quali viene ucciso un testimone, dopo la sparatoria contro due immigrati arabi, dopo un assalto a un campo di nomadi della periferia di Bologna, c'è l'episodio più sanguinoso: la strage del Pilastro.

Il Pilastro è un quartiere popolare di Bologna. Qui il 4 gennaio 1991 tre carabinieri in normale servizio di pattuglia vengono ammazzati a sangue freddo dai soliti uomini della Uno bianca (l'auto preferita - racconteranno poi i protagonisti - perché molto diffusa, poco vistosa, facile da rubare). Il triplice omicidio, stavolta, viene rivendicato con una telefonata anonima che cerca di attribuire al gruppo una natura terroristica - la "Falange armata" - giustificata con gli assalti agli extracomunitari. La rivendicazione arriva quando la radio ha già dato notizia della strage e viene perciò giudicata inattendibile.

Poi, dopo l'assalto a un'armeria bolognese per impadronirsi di altre armi durante la quale vengono uccise due persone, per mesi è silenzio. Ma qualcuno non molla. Baglioni e Costanza, testardamente, si mettono a ripercorrere le date e gli orari delle rapine e degli omicidi, ricontrollano i ritratti dei banditi fatti in base alle descrizioni dei testimoni. Si comprano con i loro soldi un computer e ci infilano dentro tutti i dati di cui sono in possesso. Che la banda della Uno bianca fosse organizzata quasi militarmente è un fatto al quale quasi subito qualcuno aveva dato importanza. Ma non le indagini ufficiali che si concentrano sulla malavita locale o quella catanese d'importazione. Baglioni e Costanza invece qualche sospetto che potessero essere addirittura dei "colleghi" ce l'hanno. Sparano troppo bene quei tipi. Conoscono troppo bene le strade e i viottoli. Non incappano mai nei posti di blocco. Qualcuno aveva ipotizzato - come accade sempre di fronte a un mistero sanguinoso - l'intervento di quelli si che definiscono "spezzoni deviati di istituzioni dello Stato", cioè i servizi segreti. C'era andato vicino, ma non abbastanza.

La mattina del 3 novembre 1994 in uno dei loro controlli di fronte a una banca di San Giustina nel riminese - dopo nove mesi di tentativi senza successo - Baglioni e Costanza si imbattono in una Uno bianca con la targa talmente sporca da risultare illegibile. E quindi sospetta. All'interno c'è un uomo alto e che corrisponde vagamente all'unica immagine esistente dei killer: quella incisa sul video della telecamera di una delle banche rapinate in precedenza. Allora ancora non lo sanno, ma hanno davanti Fabio Savi che sta facendo un sopralluogo di fronte a un possibile obiettivo. Lo seguono, lo perdono, lo ritrovano a Torriana che sale le scale della sua abitazione, al numero 29 di Piazza della Libertà. Poi se lo vedono sbucare davanti in un bar del paese in un primo, casuale, teso, incontro. Fabio Savi - pur confessando fior di omicidi e rapine - negherà sempre di essere andato a fare quel sopralluogo, di aver guidato quella macchina, di essere stato in quel bar, di aver visto Baglioni e Costanza. Il perché neghi resta un mistero.

Il sospetto diventa certezza. Cinque poliziotti, il fratello "duro" di due di essi. Attrezzati, armati, preparati, senza scrupoli. Che con le palette di servizio e i tesserini potevano muoversi a piacimento lungo le strade della Romagna, senza destare sospetti. I loro telefoni vengono messi sotto controllo, cominciano i pedinamenti di Fabio Savi. Si scopre chi è a muovere i fili. Il colpo è forte. I Savi vengono catturati insieme ai loro complici. Confessano, poi ritrattano, ma le prove sono talmente schiaccianti ed evidenti da non lasciare dubbi. I Tribunali di Rimini, Pesaro e Bologna li condannano all'ergastolo il 6 marzo 1996.


Il perché dei delitti della Uno Bianca
Tale padre…
La vita dei fratelli Savi tra odio, violenza e razzismo







Nemmeno le sbarre del carcere riescono ad arrestare la violenza dei tre fratelli Savi - Roberto, Fabio, Alberto -, autori dei crimini della "Uno bianca". Al primo incontro dopo l'arresto, dopo essersi guardati in silenzio per qualche secondo, gli assassini si sono abbracciati ed hanno rievocato i loro delitti, quasi con passione e rimpianto. "E quella volta al campo nomadi? Te la ricordi? Te c'avevi il revolver, l'essepì tre cinque sette… io il fucile, l'aerre settanta…. E abbiamo cominciato a sparare e quelli scappavano come matti…"

E se Fabio, detenuto nel carcere fiorentino di Sollicciano, riesce a contenersi, il fratello Roberto dà riprova della sua indole violenta. Ha aggredito un secondino che aveva infilato la testa nella cella e poi si è informato su quale fosse la pena prevista nel caso lo avesse ucciso. Ma ha anche tentato la fuga. Staccata una delle molle del letto l'ha trasformata in uno strumento per scavare una via di fuga. Nascondeva la polvere frutto del suo paziente lavoro di scavo nelle tasche e se ne liberava disperdendolo nelle ore d'aria. Una telecamera piazzata in un angolo del cortile l'ha però smascherato. "Se avessi voluto avrei potuto farvi fuori tutti.Non l'ho fatto perché siete amici e colleghi", ha detto Roberto Savi, la mente perversa della banda, parlando ai suoi carcerieri. E' il suo desiderio di avere ancora un'arma in pugno, di uno scontro epico da Far West, con il sangue che schizza da ogni parte così come gli piace, "the last man standing" nella giungla metropolitana. I suoi occhi guardano fissi e sicuri tutti. La sua voce è tranquilla. Addirittura sorridente, cordiale ed educato. Diverso dal fratello Fabio, più debole, una vittima in casa prima di essere un carnefice nella vita. "Fai quello che devi fare", gli ordinava con il walkie-talkie il fratello tiranno, lo stesso che in tribunale lo ha accusato di essere uno "dal grilletto facile". "Era mio fratello a sparare senza motivo", ha dichiarato al processo, cercando di accreditare l'immagine di sé del rapinatore puro. Il fratello a lungo ritenuto "il buono" e poi scoperto complice. E poi Alberto, impassibile agente in servizio al commissariato di Rimini, che addirittura ha affiancato Luciano Baglioni e Pietro Costanza, i due poliziotti che hanno risolto il caso Savi, in un'indagine.

Uniti, più da un legame di forza che da un sentimento famigliare. Arrabbiati contro i neri, gli zingari e tutti "i diversi". Privi di ogni forma di rispetto per gli altri e per le loro vite. Cresciuti nell'odio e per l'odio dal padre, un uomo che al cancello della sua casa a Villa Verrucchio aveva esposto un cartello sul quale era scritto "attenti al cane ed al padrone". Un uomo che possedeva venti fucili da caccia "per sparare ai gatti che disturbano e per tenere lontani i negri, gli ebrei e gli zingari". Un violento che sosteneva a voce alta che "con il fascismo tutte ste' robe non succedevano", che allora "chi valeva veniva fuori". Giuliano Savi, il capostipite dell'odio, faceva parte delle squadre punitive che durante le ronde rasavano "i nemici" per incidere sulla loro testa una croce con la pece e la cera. Il suo carattere turbolento, di un uomo che non riusciva a mantenere a lungo un mestiere e che metteva i figli in collegio quando non era in grado di mantenerli e che cambiava spesso abitazione, è stato l'esempio, l'educatore, la guida dei tra fratelli Savi fino al giorno della sua morte, quando, all'interno di una Uno bianca, si è sparato un colpo di fucile in bocca ponendo fine alla sua inquieta vita.


Laura Coricelli/Grandinotizie.it



Il nostro,come disse Sciascia,è un paese senza memoria e verità,ed io per questo cerco di non dimenticare.











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