Un caso paradossale è poi rappresentato dalla morte di Domenico Palumbo, che ha visto coinvolti tre agenti di polizia penitenziaria e che però non è avvenuta in carcere, ma all’esterno della scuola di polizia penitenziaria di Aversa. Una storia che ha dell’incredibile. La sera del 31 ottobre Domenico Palumbo, originario di Capua, si trova ad Aversa, in auto, quando con una ruota finisce in un avvallamento frutto di alcuni lavori in corso. L’auto si blocca e Domenico si allontana, alla ricerca di qualcuno che lo possa aiutare a spingere l’auto. Sono le 20.20, la piazza è ancora affollata. La sorte ha voluto però che l’Opel Corsa si sia "arenata" proprio di fronte alla Scuola di polizia penitenziaria di Aversa. Gli agenti di turno insospettiti dall’auto in sosta con motore acceso chiamano la polizia e poi i carabinieri. Temono un’auto rubata, forse anche qualcosa in più. Una circolare interna invita a mantenere alta l’attenzione per possibili attentati. I tre agenti di turno decidono di verificare. Mentre si avvicinano all’auto, con gli sportelli aperti e il motore ancora acceso, ritorna Domenico Palumbo. Infastidito dalla presenza degli agenti di polizia penitenziaria, il giovane ribadisce con veemenza - forse troppa - che quella è la sua macchina. Poi prova a mettere in moto l’auto. Gli agenti pensano di avere a che fare con un ladro d’auto, lo immobilizzano e lo bloccano faccia a terra sul marciapiedi esterno alla scuola. I ragazzi che avevano accompagnato Domenico per aiutarlo a spingere l’auto si dileguano. Una piccola folla assiste alla scena e rumoreggia sia per l’eccessiva veemenza con cui il giovane è trattenuto sia perché Palumbo comincia a non sentirsi bene. Il suo malessere è così evidente che gli stessi agenti si mettono in contatto col 118. Ai medici viene richiesto un intervento "per un giovane tossicodipendente, probabilmente in overdose". Quando siamo arrivati, dice il medico del 118, il dott. A.P., ho visto un’auto in bilico sul selciato; vicino «vi era un giovane in posizione prona, con la guancia sinistra poggiata a terra. Veniva mantenuto nell’occasione da due persone, una lo teneva per i polsi e l’altra per i piedi. Le due persone si sono qualificate quali appartenenti alla polizia penitenziaria e nell’occasione mi hanno riferito di stare attento poiché il giovane era violento. Ho fatto spostare tutti e avvicinandomi al giovane l’ho girato in posizione supina, in tale frangente mi sono reso conto che il giovane era deceduto». I tentativi di rianimazione, defribillatore prima e Narcan dopo, falliscono. La gente si accorge che la scena si è trasformata in tragedia: grida e inveisce nei confronti degli agenti. Il giorno dopo il direttore della scuola, Mario Mascolo, fornisce alla stampa la versione ufficiale dell’accaduto: il giovane si dimenava, sotto evidente effetto di stupefacenti, e appena si è sentito male è stata chiamato il 118. Il tutto si è svolto senza alcuna violenza, appena il giovane si è sentito male gli agenti hanno mollato la presa. E’ la versione che ripeteranno anche al magistrato e che scriveranno nei rapporti. L’ipotesi accreditata e trasmessa alla stampa è quella di una morte per overdose. Quasi due mesi dopo, tra perizie e controperizie, arriva il risultato dell’autopsia: Domenico Palumbo non è morto per overdose, non era sotto effetto di sostanze stupefacenti. Le fiale di Narcan non avrebbero potuto salvarlo perché la sua morte, atroce, è avvenuta per un motivo banale:SOFFOCAMENTO. Per usare la terminologia del consulente medico del pubblico ministero, Mario Ambrosino, Domenico è morto «per asfissia meccanica dalle vie respiratori da parte di materiale alimentare nelle fasi iniziali della digestione». Mentre l’attenzione di tutti è ora puntata sulle decisioni del pm, intorno all’assurda fine di Domenico è sorto un comitato spontaneo. Ma la speranza è appesa a un filo: nonostante l’esito dell’autopsia il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione perché, basandosi sulle testimonianze degli agenti, ha stabilito che Domenico è stato trattenuto solo per pochi minuti. A giorni si attende il pronunciamento del gip. E giustizia per Domenico.
Muore in cella dopo le botte della Polizia
«Prima di morire in ospedale Stefano Brunetti disse a un medico che a ridurlo in quelle condizioni erano state le "guardie" senza specificare a quali forze dell'ordine appartenessero. Lo ha rivelato il garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Marroni è tornato, con un comunicato, sulle ultime ore dell'uomo. «Era stato arrestato dopo il tentato furto di una bicicletta e la colluttazione con il proprietario e portato nel commissariato di Anzio. Qui ha dato in escandescenza distruggendo alcune suppellettili della camera di sicurezza e, per questo motivo, è stato sedato e trasferito, sempre sedato, nel carcere di Velletri, dove è arrivato in precarie condizioni di salute».
«La notizia, se corrisponde al vero, è di gravità inaudita». Lo ha detto l'assessore regionale al Bilancio Luigi Nieri, sottolineando che chiunque abbia un ruolo istituzionale deve fornire chiarimenti sulla vicenda. Secondo l'assessore regionale se i fatti corrispondessero a verità sarebbe evidente il nesso con un clima di violenza e di intolleranza che si respira nell'aria «a causa di irresponsabili opzioni politiche della destra al governo». Nieri ha poi auspicato che si faccia luce sull'episodio, tanto più, ha aggiunto, che la vittima «non pare essere un pericoloso criminale bensì una persona rispetto alla quale era prioritaria un'azione di sostegno sociale».
E l'intervento dei ministri della Giustizia Angelino Alfano e dell'Interno Roberto Maroni affinché avviino indagini sulla vicenda è stato chiesto da Pino Sogbio, della segreteria nazionale del Pdci. «I ministri dell'Interno e della Giustizia avviino un'indagine su quanto denunciato dall'associazione Antigone a Velletri - ha detto Sgobio in un comunicato - Sull'episodio è opportuno che chi di dovere faccia piena luce, nell'interesse della civiltà giuridica del nostro paese».
L'UCCISIONE DI RICCARDO RASMAN Le sue foto sono strazianti. Una specie di bambino troppo cresciuto, con gli occhi grandi e chiari, ingenui, e un perenne mezzo sorriso sulle labbra, lo stesso che aveva da piccolo. Un "ragazzone" triestino di 34 anni (pesava 120 chili, era alto 1,85), per testimonianza di tutti mite e gentile, un po’ goffo, incapace di fare del male. Era afflitto da "sindrome schizofrenica paranoide", che lo aveva colpito dopo il servizio militare nell’aeronautica, e gli scherzi feroci a cui era stato sottoposto dai commilitoni. Da quel momento nutrì un timore folle verso chiunque indossasse una divisa. A posteriori, potremmo dire che aveva ragione.
Era seguito dai servizi psichiatrici, ma viveva solo, tanto si sapeva che non era pericoloso. Il 27 ottobre 2006 è stato massacrato e fatto morire da quattro agenti di polizia, tre uomini e una donna. Per "asfissia da posizione", come nel caso di Federico Aldrovandi.
Quel giorno, per Riccardo, era di felicità, uno dei rari nella sua vita. Era stata accolta la sua richiesta per un posto di netturbino, doveva presentarsi la mattina dopo. Festeggia a modo suo. Accende una radiolina a tutto volume. Esce nudo sul balcone e lancia, nel cortile posteriore, un paio di petardi. Si mette a ballare. I vicini comprensibilmente si spaventano e chiamano la polizia. Arriva una pattuglia che intima a Riccardo di aprire la porta. Le divise tanto temute. L’uomo, terrorizzato, rifiuta, si riveste, va a rannicchiarsi sul letto. La pattuglia, con l’ausilio di due vigili del fuoco, scardina l’uscio dell’appartamento con un piede di porco.
Riccardo cerca di difendersi, getta a terra la poliziotta. Viene percosso sul cranio e sul viso con un manico di piccone e con il piede di porco. I suoi schizzi di sangue imbrattano le pareti della stanza. Alla fine è imbavagliato, ammanettato, le caviglie legate con del filo di ferro. E’ coperto di ferite. Gli salgono sul dorso. Lui rantola, non riesce a respirare. Muore soffocato. Le pareti attorno paiono quelle di una macelleria.
Chi non ci crede, guardi questo video,realizzato da Paolo Bertazza.
Parte 1
Parte 2
Si apre un processo che sembra volgere all’archiviazione, se non fosse per un ripensamento del PM, che di recente ha riaperto il caso. La mobilitazione e la denuncia, malgrado alcune interrogazioni parlamentari e varie controinchieste sul web, sono scarse, e per lo più a livello locale. Eppure è l’ennesimo sintomo di una malattia generalizzata. Come a Genova nel 2001, come nel caso di Federico Aldrovandi, esponenti delle forze dell’ordine si sentono legittimati, dall’uniforme che indossano e dalla quasi certezza dell’impunità (qualcuno ricorderà le centinaia di vittime innocenti della Legge Reale), a scatenare istinti ferini su chi non si può difendere.
MUORE IN CELLA A 22 ANNI
Manuel Eliantonio, aveva 22 anni Ragazzo di Piossasco stroncato dal gas nel carcere di Marassi. La madre: «Assassini»
PIOSSASCO (TORINO) Alla mamma aveva scritto una lettera drammatica: «Qui in carcere mi ammazzano di botte». «Mi riempiono di psicofarmaci». «Mi ricattano», «Sto male». Ieri lo hanno trovato senza vita riverso per terra, con una bomboletta di gas in mano, in un bagno del carcere di Marassi, a Genova. E adesso, la madre si rigira tra le mani quella lettera tremenda, mentre grida le sue accuse e il suo dolore.
Manuel Eliantonio, 22 anni, originario di Piossaco, è morto l’altra mattina nella struttura penitenziaria dov’era rinchiuso da quasi cinque mesi. Ucciso, dicono al Marassi, dal gas butano respirato da una bomboletta di gas da campeggio. Suicidio? «Forse un incidente», lasciano intendere dalla casa circondariale. Spiegando che il butano è spesso adoperato come droga dai detenuti.
Ma la madre di Manuel, Maria, urla: «Mio figlio lo hanno ammazzato. Lo hanno pestato a sangue e lo hanno stordito con psicofarmaci. Lo hanno ucciso, e stanno cercando di coprire tutto». Mostra l’ultima - nonché l’unica - lettera che il figlio le ha inviato dal carcere dov’era rinchiuso per una condanna a 5 mesi e dieci giorni. «Una storia da niente, resistenza a pubblico ufficiale», dice lei.
L’ultimo scritto di Manuel sono due paginette strappate da un quaderno a quadretti su cui c’è lo spaccato di una vita d’inferno. «Cara mamma, qui mi ammazzano di botte almeno una volta alla settimana. Adesso ho soltanto un occhio nero, ma di solito...». E ancora: «Mi riempiono di psicofarmaci. Quelli che riesco non li ingoio e appena posso li sputo. Ma se non li prendo mi ricattano con le lettere che devo fare». E ancora: «Sai, mi tengono in isolamento quattro giorni alla settimana, mangio poco e niente, sto male».
La notizia della morte di suo figlio, Maria l’ha avuta ieri mattina. Una telefonata dal carcere e l’annuncio: «Manuel è spirato stanotte». Disperata, è partita subito per Genova. In tarda serata è di nuovo a casa, dalla figlia più piccola. Ha gli occhi gonfi per tutte le lacrime che ha pianto, è stanca, disperata e distrutta. «Voglio andare fino in fondo a questa storia. Mio figlio era malato. Non avrebbe dovuto assumere psicofarmaci. Doveva essere curato, non sedato. Avrebbero dovuto portarlo in ospedale se stava male, non abbandonarlo in una cella, solo».
In quell’unica lettera ricevuta dal figlio, mamma Maria legge la disperazione di un ragazzo troppo a lungo maltrattato. «Doveva essere scarcerato il 5 agosto», racconta. «Quando la lettera è arrivata gli ho subito risposto con un telegramma: "Resisti, figlio mio. Resisti, è quasi finita". Speravo di rivederlo tra qualche giorno, invece è arrivata soltanto quella maledetta telefonata da Marassi».
Il verbale della polizia penitenziaria racconta che Manuel si sarebbe stordito con il butano di una bomboletta adoperata per un fornelletto da campo che aveva in cella. Prassi assai abituale per detenuti con problemi di tossicodipendenza. Ma qualcosa è andato storto, l'intossicazione gli è stata fatale. Per chiarire i contorni di questa morte la Procura della repubblica ha già aperto un’inchiesta. Ci sarà un’autopsia, che dovrebbe chiarire tutti i dubbi. Anche quelli sollevati da mamma Maria.
La lista è ancora lunga, purtroppo.. Libero pensatore