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Nick:  _Roxanne
Oggetto: non ti muovere
Data: 19/9/2004 9.31.52
Visite: 126


La voce spezzata di Vasco Rossi esce dal walkman della ragazzina un attimo prima che il caos della vita la investa senza pietà. «Voglio trovare un senso/un senso a questa storia/anche se questa storia un senso non ce l’ha»... E sulle stesse note rotte e struggenti si svolge la cerimonia degli addii nella quale il passato si immola sull’altare del presente nell’idea salvifica di un accettabile futuro. «È un reclamare speranza in modo ruvido. Vasco l’ha comnposta l’estate scorsa, dopo aver letto il romanzo. Mi è sembrata la colonna sonora perfetta per il film, che infatti con essa comincia e finisce. Trovare un senso, sforzarsi di trovarla.. La sento un po’ come un inno nazionale».
Sergio Castellitto è il regista e l’interprete di Non ti muovere, il successo cinematografico della stagione tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini, premio Strega nel 2002 e bestseller, trenta edizioni da allora, ancora oggi. Nella vita i due sono marito e moglie e forse anche in questo sta la felicità del film, un misto di attenzione, di conoscenza, di rispetto verso la mare ria narrata, di affettuosa, partecipe intelligenza nel renderla visiva. «Margaret ha cominciato a farmelo leggere quando ne aveva scritto un centinaio di pagine e la storia andava prendendo una sua fisionomia. È un romanzo che ci è cresciuto in casa, fra le pieghe della vita privata, nel tempo che lei faceva due figli...
E io mi sono subito accorto del potere che avevano le immagini, c’era moltissimo da vedere, e poi del fatto che ci fosse una drammaturgia. Non ti muovere contiene delle intenzioni morali, delle intenzioni poetiche ma sono al servizio di tuia storia, cosa che nella narrativa italiana accade dì rado: si filosofeggia molto ma si racconta poco. Il film è un distillato di sette versioni di sceneggiatura, in fase di montaggio l’ho ridotto di più di un’ora, ma non mi è costato fatica. Avevo fiducia nei personaggi, volevo essenzialmente mettere in fila i fatti».
Non ti muovere racconta di un chirurgo di successo che per quindici anni ha seppellito dentro di sé il segreto di un amore violento, tragico e disperato, iniziato con uno stupro e finito con un aborto mal praticato miei quale la donna ci ha lasciato la vita. Un rapporto ferino, nutrito di sopraffazione, disprezzo e sofferenza fra un borghese agiato e una che fa le pulizie a ore negli alberghi di una periferia romana squallida e senza dignità. È successo tutto l’anno in cui la figlia venne al mondo e nel momento in cui la vittima di un incidente di motorino, se la trova sul tavolo operatorio dell’ospedale in cui è primario, il passato gli si ripresenta davanti come un conto da saldare: quella vita per questa vita, quella violenza e questa violenza, quel dolore inferto a un’altra, questo dolore inferto a te. È allora che il muro dell’omertà va in pezzi e la necessità di misurarsi con se stesso diventa una sorta di intervento chirurgico eguale e contrarie a quello che nella stanza a fianco ha per protagonista la ragazza. «Timoteo, è questo il nome del protagonista. è il ritratto dell’uomo d’oggi, dei rapporti umani come oggi si sviluppano. La nostra guerra quotidiana è quella dei rapporti umani: nel nostro Occidente relativamente appagato è questa la battaglia da vincere, l’uomo dagli occhi miti, con un universo familiare organizzato: una bella moglie che gli ha pianificato la vita, che un bel giorno incontra il pozzo nero di se stesso, questa miseria che lo atterrisce e che altro non è che la miseria dei rapporti falliti da cui proviene, e che lui stupra sperando così di cancellarla».
Gli «occhi miti» di Timoteo sono lo sguardo di Castellitto. «Sul fatto che quella parte maschile fosse la mia non ho mai avuto dubbi. E poi trovavo interessante interpretare una psicologia maschile scritta da una mano femminile, una sorta di diritto alla fragilità che noi uomini abbiamo dimenticato. Non ho avuto paura di mettere in scena un uomo che piange, che si ridicolizza nel dolore, che mette in piazza la sua anima. Non c’è niente di edulcorato. C’è una scena del film, quando con la moglie incinta va a comprare il corredino e fuori, nella pioggia, vede l’altra, Italia, e, caricata la moglie su un taxi, si mette a cercarla, un palloncino rosso e il pacchetto del negozio in mano, come un bambino che cerca la madre. Ecco, è questa antica inadeguatezza di noi maschi, il bisogno primordiale di rientrare nella placenta materna, l’acqua interna ed esterna che tutto lava e purifica... Lì è racchiuso il senso della storia, di chi non ce la fa a diventare grande, non riesce a saltare sul treno della vita, ha paura, se lo lascia scorrere davanti».
Eppure Timoteo è un uomo arrivato, affermato nella professione, così come sua moglie del resto. Le loro sono viltà funzionali, un modo come un altro per non affrontare la realtà. Cos’è allora il coraggio? «E afferrare la paura, non cementarla, non chiuderla. Abbiamo dimenticato cosa sia il dolore, o meglio, abbiamo sovrapposto al dolore qualsiasi forma di ottimismo, anche il più isterico. Il dolore spreme la parte più forte di noi, quella anestetizzata. Non si è grandi se non si fallisce e non si rinasce, se non devi chiedere perdono. Timoteo è un grande fallito che alla fine questa forza ce l’ha. Io ho fatto un film dolorante ma non doloroso, in cui si passa il guado del dolore ma se ne viene in qualche modo risarciti. Non mi piace l’arte punitiva, che ci schiaffeggia. C’è già la vita a farlo».
Penelope Cruz è Italia, «la piccola maitresse della mia Saigon» come la definisce Timoteo, una su cui la vita passa invece come un treno, schiacciandola e senza che lei neppure provi a ritrarsi. La Cruz è irriconoscibile e bravissima. «Io sono la prova che esistono i pregiudizi. Non la volevo, la vedevo troppo glamour, troppo famosa, non italiana, per giunta, per una che quel nome doveva portarlo come un’eroina leggendaria... Mi ha conquistato con la sua umiltà, che è l’unica cosa che sostiene il talento. Nel film non è doppiata ed è perfetta. Certo, l’ho seguita con martello e scalpello, ma se non c’è il terreno fertile puoi seminare quanto vuoi... La sua copia del romanzo di Margaret era un campo di battaglia, ma chi Io ha letto e poi la vede sullo schermo, il modo di camminare, di muoversi, quel senso psicologico di spossatezza, capisce che Italia è proprio lei, non è possibile un’altra Italia».
Nel film come nel libro Timoteo cerca di salvarla, la opera. Cosa che invece non fa con la figlia... «Perché ha già fallito, perché soltanto una volta ha toccato veramente chi amava e non è riuscito. Lo ha fatto quando ormai era troppo tardi, è stato sempre troppo tardi fra loro due... È per questo che opera sui suoi ricordi, sulla sua vita. Si irride, si apre, rischia, si fa del male, ma alla fine ne viene fuori. È questa operazione riuscita che in parallelo fa riuscire quella della figlia. C’è anche un’altra risposta, a pensarci bene. Quando Margaret stava scrivendo Non ti muovere chiese dei consigli tecnici a un neurochirurgo, un medico molto controllato, distaccato, freddo. Abbassò la guardia soltanto una volta, allorché mia moglie gli chiese come si sarebbe comportato se sul tavolo operatorio ci fosse stata sua figlia. «Non la opererei neanche morto», fu la risposta. Lo terrorizzava soltanto l’idea.

(Da Il Giornale, 27 marzo 2004, di Stenio Solinas)



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