Nick: insize Oggetto: LAVORARE CON LENTEZZA Data: 27/9/2004 8.49.39 Visite: 96
Il film sul '77 di Guido Chiesa e Wu Ming di Giuliano Santoro Un film per quelli che non vogliono il Potere, ma solo potere»: è uno degli slogan che accompagnano «Lavorare con lentezza», film di Guido Chiesa, scritto dal regista piemontese e dai Wu Ming, scrittore multiplo bolognese. Il film sarà in concorso al Festival del cinema di Venezia [verrà presentato il 4 settembre]. «È la storia, ambientata a Bologna tra il '76 e il ’77, di due ragazzi, Sgualo e Pelo - spiega il regista piemontese - due proletari che vengono assunti come manovalanza per una rapina. Cercano di ‘svoltare’ in questo modo, di non lavorare per il resto della loro vita. A questa, si intrecciano altre storie. Quella dell’organizzatore del ‘colpo’, quella del tenente dei carabinieri Lippolis, che li controlla [Valerio Mastandrea], dell’agente che ha il compito di ascoltare Radio Alice [Max Mazzotta], e di una giovane avvocata [Claudia Pandolfi]». Dopo «Alice in paradiso», il documentario sulla radio bolognese del '77, ti è venuta voglia di fare il film? «È avvenuto esattamente il contrario. È il documentario che è nato dalla voglia di fare il film – spiega Chiesa - Ma prima di scrivere la sceneggiatura, bisognava fare delle ricerche. Poi ho incontrato i Wu Ming. Mi piaceva molto il loro stile e quello che scrivevano, e ci siamo trovati bene, a lavorare insieme. Su Radio Alice è stato scritto molto poco: a parte le elaborazioni teoriche, ci sono pochi racconti. E quindi ho fatto le interviste, anche se mi rendo conto che tutti i ragionamenti sulla comunicazione e le sperimentazioni di quell’esperienza non potevano essere sviluppate dal film». Per quelli che vogliono saperne di più, sul sito del film [che viene costantemente aggiornato e che si trova all’indirizzo web www.lavorareconlentezza.com] ci sono documenti e audio dell’epoca. «Comunque - aggiunge Chiesa - porterò il documentario su Radio Alice a Global Beach [la ‘spiaggia occupata’ al lido di Venezia dai centri sociali del nord est in contemporanea al Festival di Venezia, ndr.] e aspetto che gli Intermittenti dello spettacolo francesi mi vengano a trovare, per portare le loro rivendicazioni dentro il festival. Il film uscirà un mese dopo la partecipazione al concorso, l’8 ottobre. Noi speriamo che sia un autunno caldo, e che chi esce dal cinema non trovi tanta differenza tra la pellicola e la realtà».
Il titolo è preso a prestito da una canzone di Enzo Del Re, cantautore militante che si faceva pagare il minimo sindacale di un metalmeccanico e che cantava: «Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo / Il lavoro ti fa male / e ti manda all’ospedale». Fa pensare al documentario «Non mi basta mai», che Chiesa ha girato nel 1999 e in cui si raccontava la storia di alcuni degli operai reduci dalla sconfitta contro la Fiat del 1980. Col risultato, però, che il licenziamento aveva fatto loro scoprire la vita fuori dalla fabbrica, era stato una liberazione. «Mi fa piacere che si noti la relazione – commenta il regista - Solo dopo aver girato ‘Non mi basta mai’ mi sono reso conto che quel film parla del rifiuto del lavoro. Uno degli operai licenziati mi diceva che a Bali si era reso conto che non è il lavoro ciò che dà senso alla vita, ma l’arte, il linguaggio. Qui ci sono i legami con il movimento di oggi, con quello che Bifo chiama il 'cognitariato', con gli Intermittenti francesi, con la rivendicazione del reddito di cittadinanza e la consapevolezza che anche il tempo libero è produttivo. Prima Radio Alice mi interessava solo per gli aspetti legati all’ironia, allo stravolgimento di senso, alla provocazione culturale». E invece a quell'esperienza si arriva anche seguendo le tracce del rifuto del lavoro salariato. «Non sono mai stato operaista - spiega Chiesa - Nel 1977 avevo sedici anni, abitavo a Cambiano, un paesino a venti chilometri da Torino, e andavo al liceo scientifico. Ho avuto anch’io i miei casini, ma è chiaro che era un’altra cosa rispetto a quello che accadeva nelle grandi città, a Bologna, a Roma a Milano. E la fabbrica era qualcosa di lontano, si aveva una generica solidarietà con gli operai. Il ’77 è stato complesso, diverso da città a città. Per questo, non credo che il mio sia un film sul ‘77. È un film ambientato in quell’anno, con Radio Alice sullo sfondo. E la storia, in verità, inizia nel 1976. Inoltre, siamo molto contenti della colonna sonora. In un primo momento, avevamo cercato artisti che chiedevano cifre stratosferiche. Invece, altri ci sono entrati perché hanno aderito al progetto, hanno visto le immagini e hanno accettato di darci i loro brani a costi accettabili per una produzione italiana [è il caso di Patti Smith]. Poi, avevamo da scegliere le canzoni italiane. Sarebbe stato duro escludere alcuni cantanti, penso a Finardi, agli Stormy Six… Quindi, abbiamo scelto [con l’eccezione di Enzo Del Re] di utilizzare canzoni di artisti che non ci sono più: Rino Gaetano e gli Area di Demetrio Stratos. Poi ci sono gli Afterhours, che hanno interpretato ‘La canzone popolare’ di Fossati, ‘La canzone di Marinella’ di De Andrè, e ‘Gioia e rivoluzione’ degli Area». Sembrerebbe, insomma, che Guido Chiesa sia diventato il sesto Wu Ming. «Proprio così – spiega Wu Ming 1, alias Roberto Bui – Come ogni nostro collaboratore e come il nostro pubblico, Guido è iscritto a Giap, la nostra newsletter, e ci ha contattatati quando stava lavorando ad ‘Alice in paradiso’. Ci ha dato tutto il materiale che aveva raccolto, con tutte le interviste agli animatori di Radio Alice, circa cinquanta ore di girato. A quel punto, abbiamo fatto 'brainstorming'. L’idea era quella di fare come Spike Lee in ‘Summer of Sam’, cioè raccontare un periodo storico [che nel caso del regista statunitense era l’estate del 1977 e l’assassino che spaventava New York] attraverso delle storie collaterali». E poi c’è l’idea, ricorrente nelle opere di Wu Ming, dei coni d’ombra della storia. «Ne ‘I cento passi’ la morte di Peppino Impastato viene oscurata dal clamore del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro a Roma – spiega Wu Ming 1 – Oppure, in ‘Un mondo perfetto’, di Clint Eastwood, si racconta di un evaso che rapisce un bambino il giorno prima dell’assassinio di Kennedy. Allora noi siamo andati a guardare i giornali dell’epoca e abbiamo scoperto di una rapina sventata all’ultimo minuto, di un tunnel lunghissimo che i rapinatori stavano scavando da più di un anno. Erano a un metro dal caveau che conteneva valori per più di cinquanta miliardi di lire dell’epoca, ma un metronotte notò un movimento sospetto. Siamo partiti da lì, e poi abbiamo immaginato questo evento, oscurato dai fatti del marzo bolognese e dall’uccisione di Francesco Lo Russo». E la scelta degli attori? «Claudia Pandolfi - dice Bui - fa l’avvocata-compagna padana, l’opposto della poliziotta romana delle fiction televisive. Un po’ come Castellitto, che ha girato ‘L’ora di religione’ di Bellocchio dopo avere interpretato Padre Pio. Max Mazzotta fa il carabiniere di leva che ascolta Radio Alice e prende appunti, un po’ perplesso. L’avevamo visto interpretare Enrico Fiabeschi in ‘Paz’ di Renato De Maria e ci era piaciuto tantissimo. E poi c’è Valerio Mastandrea, che aveva fatto ‘L’odore della notte’, uno dei nostri film preferiti». «’L’odore della notte’ - ricorda Valerio Mastandrea - si svolgeva nello stesso periodo storico, ma con al centro il punto di vista di un gruppo di giovani emarginati che tentavano un assalto al cielo, completamente impermeabili al subbuglio sociale e politico che li circondava. Questo, invece, non vuole essere un film sul passato o su un grande evento del passato, ma una storia su un frammento di vita che, semplicemente, è per sempre. Una narrazione su una stagione difficile ma affascinante, segnata da un conflitto sociale aspro, radicale, tra scelte di vita, aspirazioni, desideri contrapposti. Un mondo violento, ma non in misura maggiore o minore di altre epoche storiche. Cambia il modo non l’intensità: a Genova, nel luglio del 2001, eravamo armati soltanto di 'fucili' elettronici e il potere ha colpito duramente senza concedere vie di fuga». «Nel 1977 avevo cinque anni e la mia memoria di quegli eventi è costruita sui racconti di famiglia e sulle testimonianze storiche pubbliche: giornali, libri, musica - continua Mastandrea - È stato strano riviverle nel film con addosso la divisa del tenente dei carabinieri Lippolis, ‘un drammatico bastardo’, come mi hanno definito i Wu Ming. Sinceramente, per l’obiettivo che mi ero proposto, avei preferito soltanto uno dei due aggettivi. Si tratta di un personaggio che si definisce per quel poco di potere che esercita. Detiene un’autorità che deriva non da quello che vale ma da quello che indossa. Una persona completamente indifferente a tutti gli stimoli di quelle giornate, che rappresenta benissimo il vero pericolo di un potere ottuso, ignorante, incapace anche di riconoscere un qualche tipo di dignità al nemico».
Non è stato facile, per Valerio, mettersi in divisa: «Dopo la giornata tragica del 20 luglio 2001, dopo la morte di Carlo, Giuliano Giuliani disse una cosa importante, con un carico di umanità straordinario: ‘Occorre andare oltre il modo di vestire delle persone’, impedire che una divisa o un tipo di lavoro determinino il giudizio morale, etico, politico nei confronti di qualcuno. Ecco, un giorno vorrei trovare la forza e la capacità per dirgli che non la penso così, che invece è importante ridare senso pieno alle scelte individuali, ricostruire il peso e gli effetti dei meccanismi di coercizione, svelarne il filo e, certamente, il grado di responsabilità. La rabbia di quei giorni mi ha portato a pensare che è giusto ridare i vestiti alla gente, che ho voluto interpretare il mio personaggio anche per rompere la retorica insopportabile di questa overdose di eroi in divisa senza macchia e paura, una fiction e un cinema che vogliono rassicurarci in tutti i modi sulla qualità e il ruolo delle categorie. Per un attore, recitare un personaggio d’epoca, ‘travestirsi’ in un ruolo rappresenta un gioco meraviglioso, restituisce in pieno il senso di questo mestiere. È come se fosse sempre carnevale, con la differenza che non sei costretto alle parate da strada ma addirittura ti pagano pure». L’attore romano racconta di aver accettato di recitare in questo film per tre motivi: il primo sono i Wu Ming, «che hanno portato la loro attitudine alla destrutturazione della scrittura e del linguaggio, letterario o storico, nell’anima della sceneggiatura, che è molto distante da qualsiasi opera romanzata o saggistica. Non c’è nessuna facile consolazione, non si tirano somme, si percepisce un’anima, si legge quella storia come storia di una impresa umana, collettiva, come un punto di rottura culturale con tutto ciò che lo precedeva. Nella mia esperienza, il loro capolavoro, ‘Q’, ha un posto speciale perché mi ha insegnato a leggere. È stata una scoperta che ha cambiato il mio rapporto con la letteratura e la scrittura». «Questo stesso talento - prosegue Mastandrea - fonda il senso del film, caratterizza i dialoghi, consegnando uno scenario narrativo rigoroso, puntuale e mai retorico». Poi c’è il regista, Guido Chiesa, «che ha contribuito a una struttura drammaturgica più compiuta, attraverso l’inserimento di alcune figure ‘classiche’ [l’antagonista, la crisi] che disegnano una trama indispensabile. Anche la scelta del cast non è stata facile: ci sono così tanti personaggi integrati fra di loro che sarebbe bastato poco per rovinare un quadro d’insieme già così precario». Infine, conclude l'attore, «questo film, pur raccontando un pezzo di quello che storicamente, o almeno per quella generazione, è stato un movimento sociale ‘sconfitto’, dalle armi, dal carcere, dall’eroina, si sottrae alla trappola del vittimismo e della retorica. Grazie, soprattutto, al senso profondo rappresentanto dall’esperienza di Radio Alice, che ha portato con sé una rivoluzione di stili, linguaggi, immaginari, relazioni, che ha trasformato i codici della militanza di fine secolo. D’altra parte, quell’esperienza ha dato molto alla nascita e allo sviluppo del movimento globale. Infatti, se a Venezia, in ocasione della Mostra del cinema, arriveranno gli Intermittenti, me metto 'na parucca e faccio quello che me dicono…». «L’unico antidoto alla retorica è l'ironia – conclude così, dal canto suo, Guido Chiesa – E poi, il film parla anche dei limiti di quell’esperienza: il velleitarismo, lo snobismo, l’inconcludenza. Sono aspetti di alllora che ritroviamo anche nei movimenti di questi anni». Un tratto di «continuità» non certo apprezzabile con la storia di ventisette anni fa e che fa venire in mente un altro degli slogan del film: «A forza di andare all’assemblea, mi è venuta la diarrea». |