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Nick: Mush^Room
Oggetto: LA BANDA BELLINI
Data: 2/10/2004 9.53.52
Visite: 1774



Marco Philopat - LA BANDA BELLINI
pp. 192, € 10,20

Milano. Anni Settanta. Giusva, nascosto in un'ambulanza, tiene puntato il fucile su un portone. Aspetta l'uscita del suo obiettivo. Molti sono i conti da saldare. L'uomo che deve essere ucciso è Andrea Bellini, biondo, capelli lunghi, alto un metro e novanta, un trench lungo fino ai piedi e gli immancabili Ray-ban. Da anni è alla guida del più temuto servizio d'ordine del Movimento, una banda di quartiere che ha scelto la strada della politicizzazione e della militanza, con l'idea di non essere "servi di nessuno" e le immagini di Il mucchio selvaggio nella testa...

Questo romanzo ricostruisce l'epos della Banda Bellini, un vero mito metropolitano, fatto di scontri con la polizia, di determinazione a mantenere la propria autonomia, ma anche una vicenda di amori, paure, lotte fratricide, lutti, drammi, affermazioni vitali a cui, prima o poi, la storia doveva presentare il conto. Forse in una giornata d'inverno, al quartiere Casoretto, dove un killer in agguato attende che la propria vittima esca di casa.

Marco Philopat è agitatore culturale e scrittore dal 1981, quando iniziò a pubblicare su punkzine fotocopiate. Scrive oggi interventi politico-poetici e saggi su riviste underground e letterarie, quotidiani e siti web. Nel 1997 esce il suo primo romanzo, Costretti a sanguinare. Romanzo sul punk 1977-84, giunto alla sesta edizione. È anche autore di teatro con MIRaMilano e sceneggiatore per il cinema con Forza Cani.



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La Stampa, 12/11/2002
Per la banda Bellini
di Fabio Poletti
Quando Milano era il Far West, cortei e polizia, sanpietrini e lacrimogeni, quelli della "banda Bellini" si riconoscevano da lontano. Per il look, trench verdi e Ray-ban a goccia azzurri, trofeo di caccia ai "fasci". E per quel grido che non era uno slogan, semmai un logo preso a prestito dal film Giù la testa di Sergio Leone, con quel ritornello di Ennio Morricone - scion, scion - diventato urlo di battaglia per le strade di Milano. Trenta anni dopo, la storia della "banda Bellini" finisce in un libro intenso, scritto da Marco Philopat che per ore ha raccolto le affabulazioni notturne di Andrea Bellini: "Cosa credete, che siamo andati in pensione? Ci sono ancora tutti quelli della banda, un po' sparsi per il mondo, o imboscati in qualche buco qui in città, ma pronti a intervenire quando ce ne sarà bisogno". Banda è talvolta una parola nobile. Banda era quella dell'anarchico francese Bonnot. Banda era quella di Ernest Borgnine nel Mucchio selvaggio di Sam Peckinpah: "È un film che fa a pezzi il ruolo dell'eroe buono senza macchia. Loro sono dei selvaggi con tutte le contraddizioni possibili, ma non sono peggio di quelli che pretendono di governare il mondo". Mica male in un'epoca in cui i miti andavano cercati tra le Guardie rosse della Rivoluzione culturale, i Che Guevara del fotografo Korda, i Vietcong e chiunque nel mondo mettesse sotto i piedi l'America stelle e strisce e imperialismo. Dura dieci anni l'epopea della "banda Bellini". Dal Sessantotto al Settantasette, quando per Milano iniziano a girare troppe pistole, troppa droga, troppo di tutto. A modo loro rigorosi, quelli della banda preferiscono sciogliersi senza cadere in tentazione, dopo aver visto i primi amici morire per l'eroina e altri scomparire nel buco nero della lotta armata. Nel '77 c'è l'assalto all'Assolombarda: "Ero completamente circondato da ragazzini armati che sparacchiavano". Dopo, ci sono i nuclei speciali di Dalla Chiesa e la scelta obbligata, o di qua o di là: "Ci sentivamo come topi in trappola". In mezzo ci sono gli scontri con la polizia, la caccia ai fascisti, i lutti e le guerre fratricide, i ribaltamenti esistenziali del "personale che è politico". E ci sono le ragazze del bar Erika davanti al liceo Carducci, dove si bevevano birrette e militanza. Dal Casoretto, quartiere operaio, tradizioni partigiane, il centro sociale Leoncavallo, il primo ad essere occupato a Milano, la "banda Bellini" dilaga in città, guida i cortei, sfiora i gruppuscoli della sinistra extraparlamentare e si impone come la prima esperienza di autonomia, con la "a" minuscola. Il racconto di Marco Philopat è serrato come una sceneggiatura, una di quelle che avrebbe potuto girare Sam Peckinpah: "Mi piace tantissimo ripensare alla prima volta che ho lanciato un sasso e come l'avevo seguito per vedere dove andava a finire, come l'avevo sentito o immaginato colpire un casco, uno scudo... Adesso non lo rifarei, ma quella volta avevo chiuso gli occhi, avevo stretto i pugni esultando più di un tifoso, sapevo di non poter tornare indietro, era scoppiata la mia guerra".



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L'opinione, domenica 17/11/2002
CONTROEDITORIALE Voglia di guerra civile
di Arturo Diaconale
Igor Protti è il centravanti del Livorno. Domenica scorsa è stato insultato a morte dai tifosi della sua squadra per aver deposto un mazzo di fiori presso la curva occupata dai tifosi della squadra avversaria (il Messina) in omaggio ad un ragazzo ucciso tempo addietro da un petardo. Gli insulti non erano per l'atto di pietà. Erano perché gli ultras del Livorno sono dell'ultra sinistra e quelli del Messina sono dell'ultra destra. La faccenda è di per sé scandalosa. Ma la parte più inquietante deve ancora venire ed è rappresentata dalla intervista fatta a Protti da "la Repubblica". Il giornalista chiede conto al giocatore del suo gesto. Ma non per sapere se c'era una qualche ragione in più oltre la solidarietà umana per l'omaggio al ragazzo morto. Al contrario, per inchiodarlo alla colpa di aver portato i fiori di fronte ad una curva piena di ultras di destra senza considerare che i tifosi dell'ultrasinistra del Livorno si sarebbero offesi. La vicenda non è una storia di ordinaria follia in campo calcistico. È il segno di un inquietante segnale di degrado civile in tutto simile a tanti segnali dello stesso genere che anticiparono e prepararono la nascita degli "anni di piombo" dopo il movimentismo del '68. Se un giornale considera anomalo un gesto di umanità solo perché appare come politicamente scorretto, bisogna incominciare a preoccuparsi. Proprio così, all'inizio degli anni '70, incominciò ad instaurarsi nel paese il clima di giustificazione e di avallo per tutti coloro che usavano la violenza nei confronti dei loro avversari. Politici o istituzionali che fossero. Ed il segnale del caso Protti non è isolato. "La Stampa" pubblica la recensione di un libro di Marco Philopat dedicato alle gesta della cosiddetta "banda Bellini", un gruppo di sprangatori dell'ultra sinistra che sempre all'inizio degli anni '70 si distinse a Milano nella "caccia ai fascisti" e negli "scontri con la polizia": Banda, scrive il recensore del quotidiano torinese, "è talvolta una parola nobile". Ed in questo caso evidentemente mobilissima visto che la "banda Bellini" si muoveva come se Milano fosse il far west e gli odiati sanbabilini come degli indiani da scalpare in nome della regola che l'unico indiano buono è quello morto. "Cosa credete, che siamo andati in pensione?" - minaccia Andrea Bellini nella sua affabulazione con l'autore del libro - ci sono ancora tutti quelli della banda, un po' sparsi per il mondo o imboscati in qualche buco qui in città, ma pronti ad intervenire quando ce ne sarà bisogno". E quando si avvertirà la necessità del ritorno in grande stile della "banda Bellini" e, magari, anche di quella "volante rossa" che è l'antenata diretta degli sprangatori tanto giustificati e pompati da "La Stampa"? Se si interrogasse in proposito il filosofo Vattimo, quello che chiede ad Adriano Sofri di rimanere in galera per fare un dispetto a Berlusconi, la sua risposta sarebbe "subito". Ma il quotidiano torinese non ha fissato date in proposito. Il suo entusiasmo nel pubblicizzare il libro ha lasciato chiaramente intendere di stare dalla parte di Vattimo e che non vorrebbe aspettare troppo. Il ricordo di Sergio Ramelli potrebbe svanire.



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la Repubblica, 25/11/2002
Quel mucchio selvaggio finito nella banda armata
di Ernesto Assante
"Milano. Anni Settanta. Giusva, nascosto in un'ambulanza, tiene puntato il fucile su un portone. Aspetta l'uscita del suo obiettivo. Molti sono i conti da saldare. L'uomo che deve essere ucciso è Andrea Bellini, biondo, capelli lunghi, alto un metro e novanta, un trench lungo fino ai piedi e gli immancabili Ray-ban. Da anni è alla guida del più temuto servizio d'ordine del Movimento, una banda di quartiere che ha scelto la strada della politicizzazione e della militanza, con l'idea di non essere "servi di nessuno" e le immagini di Il mucchio selvaggio nella testa...". È questa la storia raccontata da La Banda Bellini, avvincente romanzo scritto da Marco Philopat, storia vera di una leggenda metropolitana, racconto serrato e a suo modo nostalgico, sentimentale e duro, della generazione degli anni Settanta, della politica, della sinistra extraparlamentare, e di un gruppo di ragazzi che si muove tra scontri di piazza, occupazioni, riunioni. Un racconto che si snoda tra il Sessantotto e il Settantasette, quando lo scenario milanese cambia, si moltiplicano le pistole e le droghe e nulla è più come prima. Loro, quelli della banda, non accettano la lotta armata, non vogliono diventare quello che non sono, e si sciolgono nei mille rivoli della realtà metropolitana. Libro curioso e veloce, interessante seconda prova di Philopat dopo Costretti a sanguinare del 1997.



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Il Riformista, martedì 26/11/2002
Milano: anarchici banditi e poliziotti tornano di moda
Tornano di moda banditi, anarchici e poliziotti a Milano: mentre vanno sempre bene, in libreria, i romanzi gialli scritti a quattro mani dal giornalista Piero Colaprico e dall'anarchico accusato della strage di piazza Fontana, Pietro Valpreda, oggi defunto, come quelli di "Sandrone" Dazieri, che ambienta i suoi noir al centro sociale Leoncavallo, è appena uscito il libro di Marco Philopat, "La Banda Bellini" (Shake Edizioni) che narra le imprese di un vero mito metropolitano, un po' meno conosciuto ma simile a quello del "bel René" (Vallanzasca). Mito fatto di scontri con la polizia, amori, paure e lotte fratricide sullo sfondo del quartiere Casoretto nel clima plumbeo degli anni Settanta. Un vero "mucchio selvaggio". Al teatro Litta è in scena (fino all'1 dicembre) "La Banda Bonnot", storia del bandito anarchico Juel Bonnot cantata e raccontata da Giangilberto Monti su canzoni e testi originali dello scrittore "maledetto" Boris Vian. Bonnot era diventato un eroe, in Francia: rapinò banche e tenne in scacco per anni gendarmi e investigatori grazie all'abilità della sua banda, ma soprattutto grazie alla copertura popolare che riceveva: come la Banda Bellini.



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il manifesto, domenica 1/12/2002
La Banda Bellini, la scena dei '70
di Toni Negri
Chiunque abbia vissuto a Milano fra gli anni Sessanta e Settanta, sa che cos'era la banda Bellini del Casoretto: la banda dell'antifascismo militante. Ma chi non sia milanese non sa che cosa fosse l'antifascismo militante di Milano, un fiume forte e umorale, giusto ma spesso feroce, che veniva direttamente dalla lotta di classe, nella sua più genuina tradizione metropolitana. Aveva radici tra le cascine della bassa lombarda e le fabbriche taylorizzate del nord di Milano: tutto era passato attraverso piazzale Loreto. Questo per dire che l'antifascismo milanese era insieme una bandiera universale e la capacità di attaccarsi alle singolarità più locali: universale come la metropoli fordista, e violento e giustizialista come solo la lotta di classe bracciantile e contadina sa essere. Paradossalmente, solo a Parigi ho trovato forme analoghe di antifascismo militante. Non a caso i Gap milanesi furono tanto simili, nelle loro modalità di azione e nelle vicende della Resistenza, all'episodio eroico e cosmopolita del Moi parigino, immigrati da poco divenuti operai di fabbrica. In fondo se si guarda a queste forme di antifascismo ci si accorge come esse nascano, sia in Francia che in Italia, all'interno di un processo di transizione, dalla lotta di classe contadina a quella industriale, fra l'emigrazione e l'insediamento metropolitano: l'odio antifascista si sviluppa sugli spazi di questa transizione che diventano tempi di lotta politica. La banda Bellini, nel romanzo di Marco Philopat, porta molti caratteri della vicenda resistenziale. È tuttavia un brano di storia milanese in un'epoca successiva: anche questa un'epoca di transizione. La transizione che gli anni Settanta hanno registrato, dall'operaio massa all'operaio sociale, dalle lotte di fabbrica a quelle del territorio. La banda Bellini vive interamente questo passaggio: nasce all'Einstein, il grande Istituto Tecnico, ma si nutre continuamente del rapporto con i proletari del Casoretto, il quartiere operaio per antonomasia, ai bordi del centro di Milano. Siamo negli anni che precedono e danno inizio al Sessantotto. La banda, formatasi, come si è detto, sull'antifascismo milanese e resistenziale, dopo alcuni primi esperimenti si organizza sul modello dei servizi d'ordine della Statale. Questa è la scena d'impianto della banda Bellini. Ma questi picchiatori sono tutto tranne che dei subordinati e degli esecutori degli ordini dei burocratelli del movimento studentesco: rivivono, invece, in maniera originale e creativa, lo sviluppo dell'organizzazione di massa del nuovo proletariato milanese. La crisi del rapporto con la Statale dei Toscano, Cafiero e Giani avviene infatti molto in fretta, quando Andrea Bellini e gli altri capiscono quanto ammuffita e intellettualmente vigliacca sia l'ideologia stalinista che li domina. Ecco allora la banda aprirsi all'Unione Inquilini per legarsi al territorio; al servizio d'ordine di Architettura e a Lotta Continua, per aprirsi al sociale; poi all'Autonomia, per intervenire nelle lotte delle nuove generazioni, dell'operaio sociale, del nuovo precariato in formazione. Andrea Bellini e la sua banda vivono questo passaggio, in maniera estremamente contraddittoria e spesso dolorosa: Marco Philopat lo mostra con grande chiarezza. Il passaggio dal fabbrichismo metropolitano (di una classe operaia spesso rappresentata da burocrati stalinisti ma ormai in crisi) al movimento sociale metropolitano è centrale nella storia milanese degli anni Sessanta-Settanta. Anticipa quanto avverrà nelle altre metropoli italiane negli anni successivi. È un passaggio radicalissimo, dall'operaismo e dalla lotta antifascista alla rottura con i sindacati, dalle lotte nei quartieri sulle riappropriazioni alle lotte contro i fascisti della droga, dal radicamento nei quartieri operai alla vita e alla lotta nei quartieri degradati dalla disoccupazione e dalla droga. Marco Philopat ci mostra come la grande trasformazione degli anni Settanta, Andrea e la sua banda la vivano fino in fondo, fino a esserne disorientati e frustrati. Quando la banda Bellini è spinta e assorbita nell'Autonomia, essa è già in crisi: la kermesse di Parco Lambro, l'attacco militare alla Confindustria, il carnevale violento della Scala, ma anche la stessa nascita del Leoncavallo, la guerra civile milanese e i lutti e le esecuzioni che si susseguono attorno al Settantasette - bene, Andrea vive tutto questo ma non lo capisce più. In realtà qui era stato superato - tutti noi lo sapevamo - quel limite che la vecchia composizione della classe operaia poteva ancora sopportare. Qui era generata, nel fango e nel sangue, una nuova vita. Io credo che è attorno a questo punto che la storiografia degli anni Settanta si era bloccata: è di qui che essa va rifondata. A Milano è successo di tutto, allora: il libro di Marco Philopat ci dà il ritmo di quegli anni, quando ogni settimana c'era uno scontro e ogni mese qualcuno moriva, quando un paio di volte all'anno la polizia sparava sui cortei e uccideva, e un altro paio di volte erano i fascisti che lo facevano. Sono gli anni in cui, incapaci di bloccare il movimento delle nuove generazioni, le polizie inventano e diffondono il mercato della droga metropolitana e tutti noi apprendiamo il passaggio "dalla disciplina al controllo", dallo sfruttamento di fabbrica alla corruzione dei corpi. Tutto questo costituisce lo sfondo di una trasformazione della vita e del lavoro di una intensità e violenza inaudite: come far coincidere la vita soggettiva e la storia che ci sovrastava? Marco Philopat scrive un romanzo e per ciò stesso guarda il problema dal punto di vista dei soggetti, delle loro passioni, dei loro affetti. Il romanzo è bello proprio perché sta tutto dentro questo intreccio di una vicenda insolubile e insoluta. Ci rende, con la felicità del vivere e del costruire proletari, la nostra impotenza e il nostro fallimento davanti a una repressione dello Stato, politica e sociale, che ci sovrastò. È andata com'è andata, infatti, tutti noi siamo caduti in uno stato confusionale là dentro: personalmente ricordo risse furibonde con compagni come Sergio Bologna o Primo Moroni (che erano altrettanto amici di Andrea Bellini) motivate da nulla. Dicevamo le stesse cose e ci riconoscevamo tutti dentro quella transizione che stavamo drammaticamente subendo: il fatto era che, quando a essa reagivamo tutti egualmente determinati, eravamo comunque senza il supporto di condizioni adeguate al superamento della crisi. La nostra resistenza non poteva che essere frenata dalla vertigine del nuovo. In realtà, in quel periodo, credo che tutti noi (che vivemmo in prima persona la trasformazione e l'avventura del nuovo proletariato milanese) avevamo compreso due cose. La prima era il passaggio di testimone dalla classe operaia alle nuove generazioni del lavoro immateriale metropolitano: su queste nuove generazioni avrebbe riposato l'egemonia nella lotta di classe. La stessa banda Bellini trasformava (Marco Philopat lo mostra) la sua sensibilità e la vita dei suoi membri in questa direzione. In secondo luogo avevamo compreso (e lo riassumevamo nelle parole d'ordine del "rifiuto del lavoro" e della "autovalorizzazione proletaria") la definitiva crisi della socialdemocrazia, ivi compreso lo stalinismo, e di tutte le forme di organizzazione del lavoro legate all'autorità e alla mistificazione dell'interesse generale. Su questo punto lo scontro con quelli che ancora oggi (dopo le esasperazioni repressive degli anni Settanta e il rimbecillimento ideologico degli Ottanta) si presentano come capi della sinistra, fu da allora radicale. Poi ci fu il problema dell'organizzazione. Il dramma di Bellini e della sua banda si svolse tutto attorno a questo tema, a quella contraddizione e a quella tensione tra battaglie difensive e definizione di obiettivi d'attacco che non riuscivamo a risolvere. Si trattava infatti di difendere il potere declinante della classe operaia fordista, quando ormai i militanti dell'Autonomia si definivano come proletari postfordisti, precari, mobili e flessibili. Andavamo davanti alle fabbriche e gli operai di fabbrica si commuovevano a vederci disoccupati ma non ci sopportavano più quando la nostra mobilità sociale mostrava il loro futuro. C'era nella nostra vita, ormai (Philopat lo mostra bene) l'incapacità di stare agli orari della fabbrica e della metropoli, c'era la volontà di organizzarne il definitivo sconvolgimento. "Poveri untorelli..." disse allora Berlinguer, senza sapere che così sarebbe stato ricordato lui e i suoi storici compromessi. Vicina c'era la tentazione della clandestinità, che ad un certo punto sembrò vincere nel movimento, ma che in realtà era solo sintomo del nostro fallimento: non eravamo riusciti a dare forma a una nuova organizzazione. Bellini, così come noi tutti dell'Autonomia, rifiutò la militarizzazione del movimento. Se perdemmo allora la nostra battaglia, incalzati dalla repressione, oggi possiamo tuttavia rialzare la testa riconoscendo di non aver perduto né l'onore né la capacità di continuare a lottare. Il libro di Marco Philopat è molto bello perché quali che siano le sue conclusioni, quale che fosse la stanchezza di Andrea Bellini alla fine degli anni Settanta, pure ci conferma che la partita allora restava aperta e oggi, nella continuità di quel problema di organizzazione da risolvere, è ancora aperta e probabilmente rappresenta una scadenza vincente.



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L'Unità 12/12/2002
Cocktail Bellini
di Marco Guarella
Quelli della "Banda Bellini" si riconoscevano da lontano, trench verdi e Ray-ban a goccia azzurri, trofeo di ronde antifasciste. In un romanzo, nella Milano dal '68 al '77, la parte di una storia collettiva che ricostruisce l'epos dei "Bellini", il più temuto dei servizi d'ordine del Movimento. Un vero mito metropolitano raccontato come un film, dove figli di partigiani rivendicano la loro autonomia politica rispetto ai padri, alla tradizione, rifiutando la fabbrica e l'obbedienza alle istituzioni. Dei rivoluzionari comunisti postmoderni, vicini più al Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah che a Stalin o le Guardie Rosse, inflessibili e coraggiosi nello scontro di piazza, ma autoironicamente, come urlo di battaglia, accompagnati dal ritornello di Ennio Morricone - scion, scion - preso a prestito, come "inno", dal film Giù la testa di Sergio Leone. Con quel ritornello attraverseranno anni ed eventi che cambieranno la storia di questo paese. Marco Philopat, agitatore culturale milanese e sceneggiatore, arriva al suo secondo romanzo dopo Costretti a sanguinare. Romanzo sul Punk 1977-84, testo sulla Milano edonistica e depressa degli anni 80. L'autore ne La Banda Bellini affresca un racconto diviso in quadri, come una sceneggiatura cinematografica, televisiva. Un romanzo frutto di sedute autobiografiche, affabulazioni notturne nel mitico bar "Rattazzo", con Andrea Bellini, il "capobanda", che rivisita luoghi di movimento e destini individuali di chi ne era stato contaminato e segnato. Lo stile, con una frammentazione espressionistica del linguaggio, ricorda in qualche maniera gli scritti di Balestrini, fatti di innesti e montaggi, ispirati alla tecnica visiva del collage ed accompagnati da una necessità lirica all'interno della centrifuga della Storia. Un libro che rende perfettamente uno dei luoghi centrali degli anni 70, la Milano antifascista, studentesca, segnata da cortei e polizia, sanpietrini e lacrimogeni. Ragazzi che vengono, nella echiana struttura circolare spiraliforme meneghina, dal triangolo Nord-est di Milano, dal Casoretto; cunei che prima di divenire loghi, erano figli di El Lissistzkj: cunei verticali contro i vertici del potere costituito. Un soggetto-massa che in mille rivoli si avvia al sociale, nel romanzo di un immaginario collettivo. Il tentativo di leggere, anche come "storia di uomini", le tensioni culturali della fine di un "decennio eroico", venuto a coincidere con l'esaurirsi della matura modernità neocapitalistica nell'Italia degli anni 60, con il suo carico di conflitti, ed il suo lento declinare negli anni 70 che ha mandato quasi tutti a casa o in galera. Bellini è una figura assolutamente tipica della Milano di quegli anni, impressi in modo indelebile negli esiti della propria vita. La strategia della tensione appare come l'arma più insidiosa, la rottura definitiva di un patto-vincolo costituzionale, messo in atto dal potere "atlantico". Una generazione scavata da profonde amarezze e di odii accresciuti, dal '69 al '74, da cinque stragi, dai molti ragazzi uccisi nelle piazze, dai fascisti e dallo Stato. Il timore di un golpe prima, la legge reale poi, l'impossibilità di uno sbocco politico porteranno intere fasce di movimento verso l'autodistruzione fisica e politica. Ma la banda si scioglie prima di essere inghiottita dai buchi d'eroina e dai buchi neri della clandestinità, quando a Milano, irrimediabilmente, si presentano ai cortei "centinaia di ragazzini armati che sparano". Uomini e donne che a trent'anni sono già vecchi, e che l'emergenza, trasformerà da maggioranza sociale in minoranza politica. Con nessun erede e qualche superstite. "Mi piace tantissimo ripensare alla prima volta che ho lanciato un sasso e come l'avevo seguito per vedere dove andava a finire, immaginando di colpire un casco, uno scudo... Adesso non lo rifarei, ma quella volta avevo chiuso gli occhi, avevo stretto i pugni esultando come un tifoso, sapevo di non poter tornare indietro, era scoppiata la mia guerra". Il libro ci ricorda che i movimenti sono fatti di carne e ossa, di vicende esistenziali, ci sono le ragazze del bar Erika davanti al liceo Carducci, i compagni terroni del servizio d'ordine chiamati Africakorps, i soprannomi: Bongo, Baby Beccandus, Geometria. Anche nella riproduzione anedottica, lontano da ogni retorica prosopopea, si stravolgono gli stereotipi militanti in chiave ironica, "Sventolo una grossa bandiera rossa e con la mano destra abbraccio Giulia - la mia compagna del momento - una comunista miliardaria... poi un lacrimogeno s'impianta sulla mia mano sinistra fracassandola - Aaahh!... Giulia è completamente illesa e ancora in estasi - I ricchi hanno sempre culo!". Nell'incontro con il femminismo, prima culturale, con la critica al Mucchio, "film di maschi, per soli maschi" poi, con lo sviluppo del movimento delle donne, più maturo... materiale, con una boccalata di birra, che lo manderà all'ospedale, presa in faccia dalla fidanzata. Un movimento di trasformazione portatore di una radicale modificazione della percezione del mondo, della cultura, del sesso. Da disciplinati studenti-militanti, a proletari insofferenti, la "Bellini" guida i cortei e dilaga in città, si impone, divenendo poi consapevolmente marginale. Sarà in qualche modo, con la "a" minuscola, la prima esperienza di autonomia. Pur investiti dalla crisi della militanza, che porterà allo scioglimento decine di formazioni extraparlamentari, l'epitaffio dei ragazzi, antieroi del "Far West milanese", sarà l'occupazione del primo centro sociale italiano, il Leoncavallo. Un "bottino seppellito", una ricchezza che, molti anni dopo, altre generazioni, orfane di "padri", ritroveranno per sognare, nell'agire comunicativo, una cooperazione sociale. Un libro intenso, come un grido di guerra, che attraverso una sorta di narrazione fotografica, racconta i tratti dell'identità collettiva in una ricerca di senso sull'esperienza della generazione del '69, in una percezione storica ed esistenziale più profonda. Forse senza bilanci finali. Geografie del desiderio e del rifiuto che provarono a valorizzare il presente, prendendolo, come Ernest Borgnine sul set del Texas, il diavolo per la coda: selvaggi con tutte le contraddizioni possibili, ma che non sono peggio di quelli che pretendono di governare il mondo". Un romanzo in "presa diretta" su una tumultuosa realtà in trasformazione, uno sguardo rivolto al passato con capacità emozionali che nascono dalla rivisitazione di periodi ancora fecondi, scomodi e senza molte verità istituzionali apppurate. Una storia di "poeti premoderni" che rifuggono l'individuo come singolo, diverso e separato dagli altri. Con un immaginario prismatico nonostante le fila (in)quadrate del loro servizio d'ordine. Che incendiò le strade di Milano e dei sogni.



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Liberazione, 20/12/2002
Il blues del Casoretto
di Guido Caldiron
Romanzo nel romanzo, storia nella storia, percorso di soggetti che si fa narrazione collettiva, squarcio su una memoria irrisolta, inquieta, ancora tutta lì, dispiegata, ad interrogarci. Ci sono diversi modi per apprezzare e leggere La banda Bellini (Edizioni Shake Underground, pp. 192, euro 12,00) il romanzo che Marco Philopat ha costruito a partire dai ricordi di Andrea Bellini, il "capobanda" del più famoso e temuto servizio d'ordine del movimento nella Milano della prima metà degli anni Settanta. C'è, intanto, la storia di questa sorta di "mucchio selvaggio", un gruppo di ragazzi cresciuti nel quartiere popolare del Casoretto, tra i racconti della lotta partigiana e le prime esperienze "autonome", come la nascita del Leoncavallo nel 1973. Un gruppo che attraversa le vicende milanesi tra il '68 e il '77, come a dire lo spazio che separa quasi due mondi e che si concluderà annunciando una guerra che nella terribile strettoia tra repressione e lotta armata finirà per schiacciare un'intera generazione. "'Scion Scion' cantano le truppe scelte del Casoretto - cinque file da dieci 'Scion Scion' - davanti ultimo a sinistra - ci sono io che do ordini e lancio slogan - dietro ultimo a destra - ci sta Jack che controlla la situazione - tutti hanno il proprio trench verde – con la spranga- il bastone o la chiave inglese - attaccata alle asole interne". La "Banda Bellini" non passa certo inosservata: capelli lunghi, trench fino ai piedi, ray-ban azzurrati presi ai fascisti durante le discese a San Babila. E poi quel motivo trattò da "Giù la testa" di Sergio Leone e tramutato in un annuncio di battaglia nelle piazze. C'è dunque la memoria di una stagione a un tempo straordinaria e terribile, scandita dalle bombe di stato e dall'omicidio di tanti compagni, ma anche dal progressivo irrompere di una violenza senza volto, di un'arma clandestina che toglierà la voce alle piazze. L'educazione sentimentale dei ragazzi del Casoretto non può che farsi, in quegli anni, tra il fumo dei lacrimogeni e l'antifascismo militante, tra il sostegno alle lotte degli universitari e l'incontro con gli operai. C'è un'estetica dello scontro, che emerge tra i ricordi resi letteratura da Philopat, che non è però mai vuota celebrazione della violenza, quanto piuttosto il segno esatto di ciò che ha contribuito ad alimentare un'intera stagione di movimento: il suo volto metropolitano e sottoproletario, a tratti "militare", certamente machista, ma fondamentalmente ingenuo, quasi con un fondo di innocenza non ancora perduta. "Mi piace tantissimo ripensare alla prima volta che ho lanciate un sasso e come l'avevo sentito o immaginato colpire un casco, uno scudo... Adesso non lo rifarei; ma quella volta avevo chiuso gli occhi, avevo stretto i pugni esultando più di un tifoso, sapevo di non poter tornare indietro, era scoppiata la mia guerra". Uno scenario che si popola poi pian piano dei protagonisti della Milano ribelle, come il ritratto dedicato all'indimenticabile Primo Moroni e al "suo" Ticinese. "Alla sera sono andato alla libreria Calusca di Primo Moroni al Ticinese - per capire meglio cosa succede in quella zona dove c'è la più alta concentrazione di sedi politiche d'Europa... Moroni è un tipo incredibile; sembra Ho Chi Minh - ti mette a tuo agio - ti spiega un casino di cose - la sua libreria è il luogo di incrocio delle esperienze di movimento - incontri gente interessante - ci sono esposti i più bei libri del mondo - sembra fantascienza in questo periodo - un luogo di frontiera – tra centro e periferia - di confine tra le classi - tra normalità e trasgressione o forse tra ragione e follia - come dice Primo...". La "Banda Bellini" accompagna le rivalità tra i "gruppi" e l'annuncio di un nuovo protagonismo sociale e politico a sinistra: dall'Unione Inquilini a Lotta Continua, dal Collettivo di Architettura fino all'Autonomia, dalle lotte studentesche e operaie alla diffusione del lavoro precario e ai primi segnali di quello che diverrà, alcuni anni più tardi, l'esperienza dei centri sociali. Il percorso di questo servizio d'ordine sui generis ricostruisce la geografia mutante della politica di quegli anni, coglie la fase di passaggio, di trasformazione, fissandola in qualche misura nella sua istantanea più drammatica: quella del fuoco degli scontri di piazza. Ma sul fondo, ed è forse l'ultima tra le possibili letture a cui si presta il libro di Philopat, c'è una foto più sfuocata, ma non per questo meno interessante. È quella del terremoto che investirà, travolgendola, un'intera generazione di militanti, la repressione e la morte, ma anche l'immagine che indica già le linee future della metropoli, le grandi innovazioni produttive e il loro portato sociale, costruendo, sebbene in modo contraddittorio, il primo annuncio di un nuovo mondo che, dopo il lungo sonno degli anni Ottanta, ha cominciato a trovare nuovi protagonisti e nuovi ribelli. La "Banda Bellini" l'ha attraversato tutto quell'orizzonte su cui piovevano pietre, per potercelo raccontare oggi. "Ci sono compagni che a furia di strapazzi si sono sciupati, con la pelle raggrinzita e con il sangue che pompa per inerzia. Una pesantezza nel vederli invecchiare senza nerbo, la fine peggiore che si possa immaginare. Ma ci sono altri che sono rimasti dei banditi, banditi dalla società, come la Banda Bonnot. Noi non abbiamo fatto la loro fine e nessuno è passato dall'altra parte.
Non c'è dubbio, ci è andata di culo". La storia di questo servizio d'ordine sui generis, formato da un gruppo di ragazzi della periferia milanese, ricostruisce la geografia mutante del movimento negli anni che vanno dal '68 al '77. Cogliendone la fase di trasformazione, nella sua istantanea più drammatica: quella del fuoco degli scontri di piazza.



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L'Unità, 20/12/2003
di Wu Ming
"Certo non si può dire che i tempi siano particolarmente mansueti", constata Bellini in una Milano di lotte studentesche e operaie, stragi di stato, polizia che spara ad altezza d'uomo, chiavi inglesi che calano su elmetti facendo "Stunk!".
Gli anni Settanta: spauracchio perenne, minaccia sospesa, allusione maligna, riferimento negativo da spendere in qualunque occasione. Gli "anni di piombo", La "notte della Repubblica"... Un'intera stagione letta attraverso lenti deformanti, che rimpiccioliscono le grandi lotte sociali, ingigantiscono i cruenti exploits di gruppi clandestini e corpi separati, rendono mostruosa o patetica la bellezza, "normale" e "democratica" la mostruosità, ineluttabile la repressione.
È possibile finalmente scartare, osare, narrare quella stagione in modo disinibito, niente claustrofobia né spade appese sopra le teste, attingendo a un grande serbatoio di storie singolari e collettive, evitando marchi a fuoco come il sottotitolo imposto nell'87 a Gli invisibili di Nanni Balestrini ("Il romanzo degli anni di piombo")?
Ebbene, sì. In tempi di nuovo "non mansueti", dopo un triennio di radicamento dei nuovi movimenti, di inasprimento del conflitto sociale, con tanto di crisi economica e tentato revival della strategia della tensione, possiamo trovare il miracoloso equilibrio tra immedesimazione (ça va sans dire) e distacco (perché il tempo non è trascorso invano).
In Italia sono già all'opera narratori ninja, che tendono imboscate ai convogli della Storia e affrontano gli anni Settanta in furiosi corpo-a-corpo, usando le armi dell'epica corale, della mitopoiesi pop, della "radicale verosimiglianza" ellroyana, delle suggestioni western. Si avvalgono dell'inatteso "fuoco di copertura" di quei reduci (absit iniuria) che scelgono la cifra dell'autobiografia scanzonata e picaresca, raccontandosi senza trombonate.
Per rendersi conto di cosa sta accadendo consiglio di divorare in sequenza Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo (Einaudi, € 14,50), Album bianco2 di Franco Fabbri (Arcana, € 11,00) e La Banda Bellini di Marco Philopat (ShaKe, € 12,00).
Romanzo criminale racconta, trasfigurandola appena, la storia della "banda della Magliana", delle sue alleanze con l'ultradestra, il crimine organizzato e i mandanti istituzionali della strategia della tensione, ma anche del suo attraversare i percorsi dei movimenti in agonia, in una Roma paranoica, con la "lotta al terrorismo" che fa da cortina fumogena per la ristabilizzazione autoritaria in corso. Esperimento riuscitissimo di "romanzo globale", sovraffollato e bulimico, nel suo espandersi fagocita detriti di gerghi e dialetti, stralci di atti giudiziari e rapporti di polizia, brandelli di film e show televisivi, strofe di canzonette, stilemi di ogni possibile sottogenere narrativo, addirittura pagine di note spese e registri contabili, eppure non indugia mai in pedanti virtuosismi, anzi, mantiene un languido e sincero tono "folk", da raccolta di ballate.
Album bianco2 (riscrittura di un libro uscito nel 2000, da qui l'esponente aggiunto al titolo) è un'autobiografia divagante e carica di aneddoti. L'autore è studioso di popular music, conduttore di RadioTre Suite, collaboratore di questo stesso giornale e, soprattutto, chitarrista degli Stormy Six, che non hanno bisogno di presentazioni, autori e interpreti di canzoni irrinunciabili per la bildung di movimento delle ultime tre generazioni. Fabbri, grande affabulatore, racconta l'epopea on the road della band, dal beat fino allo scioglimento dell'83 e alla reunion di dieci anni dopo, passando per la collaborazione col movimento studentesco (con e senza le maiuscole) milanese. La lettura produce mille echi e riverberi con la situazione degli ultimi due-tre anni: nascita di reti comunicative di movimento, difficoltà e vantaggi dell'autoproduzione e dell'autodistribuzione, percorsi autonomi fuori dai riflettori dell'informazione ufficiale, ricerca di un rapporto il più orizzontale possibile tra emittente/artista e ricevente/pubblico... Tutto molto attuale, oggi che "cento fiori" sbocciano, in Rete ma anche nell'etere (dall'OrfeoTV di Bologna alla Telefabbrica degli operai di Termini Imerese).
La Banda Bellini, esaltante e dolente, racconta l'ascesa e il declino della "banda del Casoretto", non soltanto mitico servizio d'ordine dell'autonomia (con la "a" minuscola) milanese, ma anche vera e propria sottocultura giovanile, "modi bruschi" e retorica vestiaria ispirata a Il Mucchio selvaggio di Peckinpah e Giù la testa di Leone. Come scrisse il "Los Angeles Times" recensendo Bordersnakes di James Crumley: "Un libro talmente saturo di testosterone che ci sorprende non gli crescano i peli". Di certo i fratelli Bellini, "Jack", "lo Sponta", "il Bongo" e tutti gli altri, grazie alla loro capacità di tenere la piazza, salvarono molte vite, coprendo le ritirate di grandi cortei mentre le "forze dell'ordine" cercavano platealmente il morto. Philopat, e la cosa non mancherà di suscitare polemiche, descrive con brutale onestà lo scontro tra l'immaginario della banda (epica combattente, solidarietà maschile nella battaglia) e quello del movimento femminista.
I tre libri, diversissimi tra loro, hanno molto in comune: alla base c'è una grande voglia di capire cosa tiene insieme le comunità e cosa invece le disgrega, di capire come funziona una comunità in una situazione di caotico divenire. I discorsi del Libanese, il welfare criminale della "stecca para per tutti", le tirate di Bellini e Jack sulla "compattezza", i Beatles e "il modo con cui due - guardandosi - si avvicinavano allo stesso microfono, per sostenere il solista di turno" ("Nel giro di pochi anni questo spirito gregario e combattivo sarebbe sfociato nella politica"), i lunghi tour degli Stormy Six, lo sbirro Scialoja che è un personaggio tragico proprio perché non ha una comunità di riferimento...
La lettura consecutiva produce anche inquietanti effetti e rimandi: a un certo punto ci si accorge che tutti (compagni di movimento, neonazisti, mafiosi, poliziotti) si chiamano reciprocamente "compagni", e magari a qualcuno viene in mente che nel mondo reale certi membri della comunità narrata da De Cataldo (in primis "Il Nero", trasposizione letteraria del neofascista Massimo Carminati) sono stati indiziati per l'uccisione di membri della comunità narrata da Philopat (Fausto e Iaio del Leoncavallo).
Album bianco2 e La Banda Bellini raccontano da diverse angolazioni la stessa Milano, tanti eventi combaciano (occupazioni, cortei, sparatorie, anche una prima teatrale), tanto che alcuni aneddoti di un libro potrebbero essere impiantati nell'altro senza alcun rigetto. Ci sono i katanga, con la loro grettezza e la loro violenza; c'è il rattrappimento culturale del Movimento Studentesco, che va di pari passo con un certo dissesto igienico (volete sapere perché Abbado rinunciò a portare la musica classica alla Statale?); c'è il comune, forte riferimento alla Resistenza, a quel Dante di Nanni che Andrea Bellini evoca mentre scampa a un attentato fascista e a cui gli Stormy Six dedicarono una delle loro canzoni più vibranti... Soprattutto, c'è il cinema western come allegoria della cooperazione e del lavoro collettivo: "...Autunno del '68, convocato per discutere del progetto del disco da cantautore, sento la mia voce pronunciare questa frase: 'Ma perché non lo facciamo con gli Stormy Six?'... Non ho fatto il cantautore... perché ero cresciuto a forza di Magnifici sette... Cos", con quest'idea più hollywoodiana che sessantottina che il gruppo sia lo strumento necessario per affrontare e vincere qualsiasi difficoltà, gli Stormy Six entrano in sala d'incisione per registrare il loro primo LP"; "...Quando ci si mette insieme e si resta tutti uniti - se non riesci a farlo sei peggio di un animale... Sei finito... - Vi ricordate...? William Holden - diceva più o meno così - nel Mucchio Selvaggio... - Noi abbiamo deciso di stare insieme - e staremo uniti - dobbiamo farlo vedere a tutta la città - a partire dall'immagine - un'immagine di compattezza..."
Nel fatidico '77 usciva anche il primo numero della rivista "Il Mucchio Selvaggio". Quei riferimenti non erano casuali, il western "crepuscolare" parlava al cuore dei movimenti, descriveva il divenire, raccontava la decadenza, mostrava persone che vivevano passaggi di fase (come nei titoli dei libri di allora: "Dall'operaio massa all'operaio sociale" etc.) Il cinema di Peckinpah e Leone faceva vedere quel che cantavano gli Stormy Six ne "L'orchestra dei fischietti": "Niente resta uguale a se stesso / la contraddizione muove tutto". Non solo: film come Giù la testa o Pat Garrett & Billy The Kid anticipavano la questione cruciale del "pentitismo".
Tre libri pieni di elenchi, elenchi che ipnotizzano e procurano vertigini, elenchi di nomignoli da sonetto del Belli o da reading di Remo Remotti (cfr. pag.615 di Romanzo criminale), elenchi interminabili e suggestivi di accordi, canzoni e concerti (rivendicazione orgogliosa di una carriera trascorsa sulla strada), elenchi di morti ammazzati dalla polizia e dai fascisti, Ardizzone, Franceschi, Varalli, Zibecchi, e dopo un po' "la morte non vale nemmeno il giornale / che leggi e che poi butti via." (Stormy Six, "La sepoltura dei morti"). Tre libri che aiutano a capire la "anomalia italiana", quella per cui si ricorre a metafore come "movimento carsico", "sedimentazione", "laboratorio"... In Italia i movimenti - pur dovendo affrontare repressione, stragi, trame nere, tradimenti e sfilacciamenti - sono riusciti a tramandare saperi ed esperienze, e a riprodurre nuove sintesi di autonomia sociale e "contro-egemonia" culturale, grazie a infrastrutture che hanno fatto da "ponte", come i centri sociali (quel Leoncavallo il cui lucchetto fu tranciato da "Jack" del Casoretto) e le radio di movimento.
"Sedimentazione". Che è poi un altro modo per dire "mitopoiesi", l'atto di una moltitudine che si descrive in un flusso incessante di storia viva, che racconta e usa i racconti come armi, per imporre dal basso un immaginario che cambia lo stato di cose presenti. Un "mito" fatto di corpi, fatto di carne, sangue, merda. Come questi tre libri, che vi consiglio di sbranare, trangugiare, digerire.



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Carta, 12/2002
Memorie di città Milano e la sua banda Bellini
di Edda Pando
"Cara bellissima Milano - questa volta ci torno volentieri Ðmi manca l'aria sporca - quest'acqua acida - la polverina grigia che s'attacca alle macchine - la gente che corre via - che non ha mai tempo [...] Comunque si sta bene a Milano o meglio si sta così male che devi per forza sbatterti per star meglio, devi per forza alimentare il desiderio della trasformazione". Parola di Andrea Bellini, quello col vocione della banda del Casoretto, il servizio d'ordine "senza albero genealogico" che negli anni 70 portava via i Ray-ban ai fascisti come trofeo e faceva scappare i "caramba". Ho visto Bellini al Bar Rattazzo, il giorno della presentazione del libro di Philopat, mentre insieme ad altri si mangiava polenta, si beveva vino. La Milano delle Marco Philopat grandi manifestazioni, degli studenti in lotta insieme agli operai, dei sampietrini, della "esplosione ormonale collettiva"...
Una Milano che oggi non c'è più. Una Milano le cui strade noi immigrati spesso percorriamo senza sapere cosa è successo: Piazza Fontana, Cinque Giornate, Santo Stefano, via Sabotino... e che questo libro in parte ti aiuta a scoprire. Ho scelto di citare quel passo del libro perché, anche se può sembrare strano, io peruviana di nascita dopo 12 anni di vita a Milano mi ritrovo ogni tanto a sentire nostalgia quando mi allontano da questa mia seconda città. Vi consiglierei semplicemente di regalare questo libro a qualcuno che magari ha solo una immagine triste e fredda di questa città: fa bene sapere di un desiderio di trasformazione... così intenso.



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Panorama, 2/1/2003
COME ERAVAMO LA BANDA BELLINI DEL CASORETTO
Mucchio selvaggio a Milano Ray-Ban azzurri, trench militare e molte chiavi inglesi. Quando gli "antifascisti militanti" si sentivano come gli eroi di un film.
di Valeria Gandus
"Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale" recita il distico. Ma basta essere stati giovani a Milano negli anni Settanta per riconoscere luoghi, eventi, personaggi. A cominciare dal protagonista e io narrante, l'unico che si chiama con il suo vero nome: Andrea Bellini, fondatore e capo dell'omonima banda. E che, però, non è l'autore di La banda Bellini (ShaKe edizioni): quello risponde al nome di Marco Philopat e ha al suo attivo un altro romanzo, Costretti a sanguinare. Non sarà tutta realtà quella raccontata ne La banda Bellini, ma ci somiglia molto, anche perché il romanzo non è che la rielaborazione letteraria dei lunghi racconti che il vero Bellini ha fatto all'autore in centinaia di incontri da Rattazzo, mitico locale del Ticinese. Il risultato è la storia, per nulla epica, spesso ironica, sempre appassionata, di un gruppo di ragazzi del Casoretto, periferia nord-est di Milano, figli di genitori che avevano fatto la Resistenza e che avevano passato loro il testimone dell'"antifascismo militante". Nessun "nero" avrebbe più potuto scorrazzare nel quartiere che aveva vissuto da vicino l'orrore di piazzale Loreto: non quello del Duce penzolante dalla pompa di benzina, ma dei 15 partigiani fucilati nella stessa piazza un anno prima. Ad Andrea e ai suoi fratelli, per esempio, il padre non aveva mai raccontato le solite favole ma episodi di vita vissuta, tipo: "Quella volta che abbiamo fatto fuori il moroso nazista della zia Luisa". Non c'è da stupirsi, dunque, se al liceo scientifico Einstein, uno dei primi di periferia, Andrea e compagni subito mettono in condizione di non nuocere i "fascistelli" locali che, per di più, hanno il demerito di insidiare le ragazze più belle a colpi di sigarette d'importazione. Il salto successivo è verso il centro della città: è arrivato il Sessantotto e arriverà anche il Sessantanove, con le bombe e la strategia della tensione. Il piccolo gruppo di liceali viene cooptato dal servizio d'ordine del Movimento studentesco. Ma i metodi stalinisti dei "katanga" non piacciono a Bellini e ai suoi. Nemmeno il sodalizio con Lotta continua è di lunga durata: nell'autunno del '73, i membri della banda disobbediscono alle direttive portando spranghe e chiavi inglesi a una manifestazione. Scoppia una gran rissa e vengono espulsi da Lc. Da allora agiranno sempre in proprio, vicini ideologicamente all'Autonomia operaia eppure autonomi anche da quel movimento. Il loro segno distintivo? I Ray-Ban azzurri strappati ai "fascisti". E il trench militare lungo quasi fino ai piedi imbottito di chiavi inglesi che al momento buono faticavano a uscire dalle tasche cucite all'interno da amorevoli compagne. Le compagne, già. Il romanzo ne è pieno. Tenere, fricchettone, femministe. L'ultima, Livia, l'amore. Perché, per fortuna, La banda Bellini non è la storia militare dei Settanta ma un romanzo che racconta una generazione cresciuta fra sogni di rivoluzione, morti di piazza e l'eterna ricerca del vero amore. "A Milano è successo di tutto, allora: il libro di Philopat ci dà il ritmo di quegli anni" ha scritto Toni Negri in un'entusiastica recensione sul Manifesto. Nel romanzo, quegli eventi appaiono però più folli che plumbei. Come i ragazzi che menavano cantando Scion Scion, si identificavano nei protagonisti del Mucchio selvaggio, vestivano come Gli intoccabili. E oggi raccontano la loro "resistenza" con molta ironia.



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Diario, gennaio 2003
Come un film di Spike Lee: la Banda Bellini
di Rosella Simone
Non è facile spiegare oggi quel tempo di miti rivoluzionari, di film di eroi spacconi e sconfitti, di poeti americani e acidi lisergici, di rodomontate etiche e vigliaccherie amorose, di sogni grandiosi e vino cattivo, di albe rincorse a parlare parlare parlare. E la voglia pazza che tutto cambi, ma proprio tutto, e esserci in quel cambiamento, vivi possibilmente, o morti anche, che tanto gli eroi son sempre giovani e belli e le leggende non muoiono mai. E Andrea Bellini era bello, selvaggio, biondo e furioso. Un macho prepotente che faceva tremare il cuore alle ragazze, capo per destino. Capo banda, perché la banda era tutto allora. La banda degli amici, quella del quartiere, o quella delle affinità elettive. Perché c'erano, anche allora, quelli col sangue agli occhi che venivano dalle periferie metropolitane come Andrea, o dalla provincia come me, all'università, primi della nostra razza che studiava. Razza intelligente e bulimica, pronta a divorare tutto, sapere e vita. Con così tante domande nella testa da fare confusione e così agire e basta. Agire per esistere, per non essere complici di ingiustizia senza neanche aver combattuto. Forse abbiamo letto solo il primo libro de Il capitale, cito da una vecchia canzone di Ivan Della Mea, ma il Mucchio selvaggio e Giù la testa l'abbiamo visto tutti, visto e rivisto ed è un po' come se il trence verde e lungo, da praterie selvagge, divisa storica da combattimento della Banda Bellini, lo avessimo indossato simbolicamente tutti. Fuorilegge sul tramonto del far west contro le ingiustizie del mondo. E Marco Philopat, che di anni ne ha 40, e che nel '68 era un bambino ha colto nel suo nuovo romanzo La Banda Bellini (Shake edizioni, 191 pagine, 12 euro) questo modo di essere e lo ha reso nel romanzo, ha colta quella risata, quella spavalderia, quella innocenza, quella cattiveria, quella passione selvatica e tanto cinematografica e tanto poetica che era il sale e il pane di noi che eravamo ragazzi negli anni sessanta. Per capire quel tempo, breve e furibondo, prima del tempo plumbeo delle bombe di stato, della lotta armata, della paura e del tradimento, ci voleva un romanzo come questo, dove ironia e sentimenti, rivoluzioni e film made in Hollywood, etica e cambiamento si mescolano nel gioco felice-infelice ma appassionato della vita giovane. Che vuole credere all'amicizia, all'onore, alla libertà e, con questa fede, inventa, alla fine del '900, un'epopea tra Far west e banda Bonnot. Scion scion Andrea.
Quando e come hai conosciuto Andrea Bellini?
"Una dozzina di anni fa grazie a Primo Moroni, libraio della Calusca, presentandomelo come una vera e propria leggenda metropolitana. Il suo era stato il servizio d'ordine più famoso degli anni settanta per le vittorie ottenute sul campo. Allora faceva, insieme ai suoi amici veterani delle guerre di piazza, una rivista gratuita che si chiamava n.n., figli di nessuno. La impaginavamo noi della Shake".
Più che in Costretti a sanguinare, il tuo primo romanzo uscito nel '97, qui si vede la struttura a lasse alla Balestrini...
"Ho tentato di portare la ricerca del gruppo 63 su un terreno più televisivo. Un romanzo a zapping. Pur mantenendo la narrazione vera e propria, sempre in prima persona, ho mischiato gli eventi ai pensieri più intimi di Andrea. Ho fatto fatica perché Andrea è uno che tende sempre a raccontare ciò che è esteriore anche se nasconde nel tenero cuore una passione controculturale ".
La sua è un'epopea che dura un tempo breve...
"Inizia a fare politica a 16 anni e a 25 anni, arrivato il 77, lui si ritira. Rimbaud degli aanni settanta ".
Come hai fatto a farti raccontare gli amori...
"Ho fatto sponda con Livia, sua moglie. E poi l'ho seguito da un bar all'altro bevendo drink innumerevoli offerti da lui, per farlo parlare, per farlo cantare".
Veramente Andrea sembra odiare le donne...
"...pensa che siano spie; pensa che i gruppi di autocoscienza femminile siano fatti apposta per inculare il potere dei maschietti, per tutto il libro lui si barcamena con questa tensione ".
Quale altra difficoltà hai incontrato?
"La violenza. Io vengo dagli ambienti anarcopunkpacifisti e affrontare la Banda Bellini che con la violenza aveva a che fare quotidianamente era difficile. Anche se era un tipo di violenza rigorosa, l'assalto all'arma bianca, di piazza. Il manganello contro lo Stalin, la spranga, e la chiave inglese. Odiavano chi spaccava le vetrine, chi portava le molotov, tutti quelli che usavano le pistole. Infatti quando nel corteo c'è troppo di tutto, si sciolgono. Nonostante siano 50 persone, cinque file da dieci, amicissimi. Duri e puri come cemento armato, come acciaio ma, alla fine, vengono disgregati dall'interno dalle logiche della violenza ".
Ma perché propria questa storia?
"Per Primo Moroni e per la battaglia che si porterà dietro dall'82 sino alla morte nel 98: liberiamo gli anni 70. Fondamentale per la storia della lotta di classe in Italia e per non ripetere gli stessi errori".
E poi non si può costruire su degli omissis...
"Il Vietnam vince perché spara, si diceva. Adesso la situazione è diversa; il movimento, da Porto Alegre in poi, ha contatti solidi con tutto il mondo, con i movimenti di liberazione ma anche con l'associazionismo di base, con i semterra, con i gruppi di donne in India. Lotta di base non violenta. Forse la Banda Bellini, nel suo piccolo, può far capire che certe logiche verticistiche e militari non pagano più. Naomi Klein dice che questo movimento è al femminile, che pone la non violenza come questione fondativa di tutto il movimento".
E tu, il narratore, da che mondo arrivi?
"Io? Io sono Philopat vivo nel mondo dei fumetti e quello che racconto è il mondo dei fumetti".



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www.thething.it, 27/01/2003
''La Banda Bellini'', (macho) mucchio selvaggio
di synner
Tra guerriglia urbana e occupazioni, Bordiga e Peckimpah, guerre di classe e d'ormoni, la storia della banda del Casoretto, epico racconto della maschilità militante. L'epico racconto della maschilità militante degli anni Settanta. È La Banda Bellini di Marco Philopat, romanzo che mette in scena la Milano tra il pre '68 e il '77, le gesta dei ragazzi del Casoretto, quartiere di periferia, il servizio d'ordine più efficace della città. Un mucchio selvaggio che cavalca, ha scritto Toni Negri, "la transizione dall'operaio massa all'operaio sociale", dal conflitto di fabbrica a quello metropolitano. E lo fa con i vestiti giusti: lunghi trench verdi e occhiali Ray Ban a goccia, stile inconfondibile, perfetto per dei cultori del western sovversivo alla Sergio Leone e Sam Peckimpah fatto non più di integri eroi alla John Waiyne ma di uomini brutti, sporchi e cattivi.
La narrazione è affidata alla voce tonante di Andrea Bellini, le cui memorie scorrono come un fiume in piena, conservando tutta la potenza dell'oralità grazie al filtro sapiente e discreto di Philopat, già autore del piccolo cult Costretti a sanguinare. Romanzo sul punk 1977-84. Nelle pagine ribollono guerriglia urbana e lacrimogeni, gioioso ardore antifascista e occupazioni, Bordiga, Clausewitz e... dosi massicce di testosterone. L'ormone di Andrea impazzisce quando, nel 68, cresce il tasso erotico della vita quotidiana e ragazze disinibite spiazzano i maschietti con un'inedita disponibilità al sesso che, da affare privato si fa, d'improvviso, pubblico. È roso d'invidia per i capetti del Movimento Studentesco, circondati da "donne scalpitanti - risolini e urletti lascivi". Poi, quando diventa anche lui un leaderino, biondo, capelli lunghi, alto un metro e novanta, è la rivalsa ed il trionfo dell'orgoglio fallico.
Ma l'irruzione del femminismo è uno shock. Rimane di stucco quando apprende che le sue compagne cominciano a vedersi in riunioni separate. Ma di che cazzo parleranno mai in quelle riunioni? "Bevono il tè e si guardano la fika!" suggerisce il fido amico Sponta. La prima femminista che incontra è "Clelia - una spaccacoglioni - che ha iniziato a tirare fuori 'la questione femminile' - noi stavamo parlando di tutt'altro - di scontri del servizio d'ordine dell'organizzazione - insomma robba seria - ed è saltata fuori questa intellettualina di Lc avvolta in una nuvola di patchouli a pontificare sul nulla". Quelle che vengono dopo sono "Galline che starnazzano di identità femminile e separatismo mentre c'è da parlare di cose serie". Insomma, un fenomeno incomprensibile. Così, quando la sua compagna porta il conflitto sotto le lenzuola e lo sottopone a tremende "vivisezioni psichiche", "più tremenda di una dottoressa nazista", come reagisce il Bellini? Vomita e si raggomitola in posizione fetale attorno al cesso. Ecco allora che la maschilità militante, finalmente mostrata senza alcuna ipocrisia, senza nessun velo politically correct, con esilaranti pennellate di ironia feroce, entra in una crisi irreversibile.



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Corriere della Sera, 2/2/2003
Nel nome del mucchio selvaggio
di Enzo Di Mauro
Per Andrea Bellini e per gli altri ragazzi del quartiere milanese del Casoretto fu cruciale la visione del capolavoro di Sam Peckinpah (1969). "II mucchio selvaggio" offrì loro un'andatura morale, un gergo, un linguaggio del corpo e un destino. Il protagonista e la voce narrante del libro di Marco Philopat - un racconto musicalissimo e singhiozzante, onesto e spietato - eppure dimentica l'esperienza di audace gappista del padre, anzi è come se egli, nei corridoi, del liceo scientitico, nella seconda metà degli anni 60, si fosse fatto custode di quella promessa. La "banda Bellini" riuscirà a imporsi, all'interno del Movimento, come il primo seme di ciò che più avanti si chiamerà Autonomia.






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