Nick: Marione Oggetto: Isabel Allende... Data: 16/10/2004 3.52.23 Visite: 125
LA PICCOLA HEIDELBERG Per tanti anni ballarono insieme il Capitano e la Bimba Eloisa, che raggiunsero la perfezione. Ciascuno sapeva intuire il movimento susseguente dell’altro, indovinare l’istante esatto della prossima giravolta, interpretare la più impercettibile pressione della mano o deviazione di un piede. Non avevano perso il passo una sola volta in quarant’anni, si muovevano con la precisione di una coppia abituata a far l’amore e a dormire abbracciati stretti, perciò risultava così difficile immaginare che non si erano mai scambiati nemmeno una parola. La Piccola Heidelberg è una sala da ballo a una certa distanza dalla capitale, situata su un monte circondato da piantagioni di banane(…) I tavoli, disposti in un ampio cerchio che lascia al centro uno spazio libero per il ballo, sono coperti da tovaglie a quadretti verdi e bianchi (…) Il sabato, verso le nove di sera, quando già tutti hanno assaporato la loro razione di intingolo afrodisiaco e si sono abbandonati al piacere del ballo, compare la Messicana e si siede da sola. E’ una cinquantenne provocante, una donna dal corpo galeonesco – chiglia alta, panciuta, ampia di poppa, volto da polena – che sfoggia un busto maturo ma ancora turgido e un fiore all’orecchio. Non è l’unica vestita da ballerina flamenca, naturalmente, ma in lei risulta più naturale che nelle altre signore dai capelli bianchi e dalla cintola triste che neppure parlano uno spagnolo decente. La Messicana ballando la polca è una nave alla deriva su un mare in tempesta, ma al ritmo del valzer sembra scivolare sull’olio. Così la intravedeva a volte in sogno il Capitano e si svegliava con l’inquietudine quasi dimenticata della sua adolescenza. Dicono che il Capitano provenisse da una flotta nordica il cui nome nessuno riuscì a decifrare. Era esperto in navi antiche e rotte marine, ma tutte quelle conoscenze giacevano sepolte nelle profondità della sua mente, senza la minima possibilità di essere utili nel caldo paesaggio di quella regione, dove il mare è un placido acquario d’acque verdi e cristalline, inadatto alla navigazione degli intrepidi piroscafi del mare del Nord. Era un uomo alto e magro, un albero senza foglie, la schiena dritta e i muscoli del collo ancora saldi, vestito con la sua giacca dai bottoni dorati e avvolto in quell’aura tragica dei marinai in pensione. Non lo sentì mai dire una parola in spagnolo o in qualche altra lingua nota. Trent’anni prima don Rupert disse che il Capitano era sicuramente finlandese, per il colore di ghiaccio delle sue pupille e la giustizia irrinunciabile del suo sguardo, e poiché nessuno potè contraddirlo finirono per accettarlo. Del resto alla Piccola Heidelberg la lingua non ha importanza, perché nessuno ci va per conversare. (…) La più anziana frequentatrice della sala, che in mezzo secolo non mancò neppure un sabato alla Piccola Heidelberg, era la Bimba Eloisa, una signora minuta, molle e soave, con una pelle di carta di riso e una corona di capelli trasparenti. Per tanto tempo si era guadagnata da vivere fabbricando confetti nella sua cucina che l’aroma di cioccolato l’aveva impregnata totalmente, e olezzava di festa di compleanno. Malgrado la sua età serbava ancora qualche gesto della prima gioventù, ed era capace di passare tutta la notte volteggiando sulla pista da ballo senza scompigliarsi i riccioli della crocchia né perdere il ritmo del cuore. (…) Don Rupert l’accoglieva sulla soglia con grande deferenza e l’accompagnava fino al suo tavolo, mentre l’orchestra le dava il benvenuto con i primi accordi del suo valzer favorito. Ad alcuni tavoli si alzavano i boccali di birra per salutarla, perché era la persona più anziana e senza dubbio la più amata. Era timida, non si azzardò mai a invitare un uomo a ballare, ma in tutti quegli anni non ebbe bisogno di farlo, perché per chiunque costituiva un privilegio prenderle la mano, allacciarle la vita con delicatezza per non infrangerle qualche ossicino di cristallo e condurla alla pista. Era una ballerina graziosa e aveva quella fragranza dolce capace di restituire a chiunque la fiutasse i migliori ricordi dell’infanzia. Il Capitano sedeva solo, sempre allo stesso tavolo, bevevo con moderazione e non dimostrò mai alcun entusiasmo per l’intingolo afrodisiaco di donna Burgel. Seguiva il ritmo della musica con un piede, e quando la Bimba Eloisa era libera la invitava, mettendosi sull’attenti di fronte a lei con un discreto batter di tacchi e un leggere inchino. Non parlavano mai, soltanto si guardavano e sorridevano tra i galop, le fughe e le diagonali di qualche danza stagionata. Un sabato di dicembre meno umido degli altri arrivarono alla Piccola Heidelberg un paio di turisti. Stavolta non erano i disciplinati giapponesi degli ultimi tempi, ma degli scandinavi alti dalla pelle abbronzata e dai capelli pallidi, che si installarono a un tavolo a osservare affascinati i ballerini. Erano allegri e rumorosi, urtavano i boccali di birra, ridevano di gusto e chiacchieravano a voce alta. Le parole degli stranieri raggiunsero il Capitano al suo tavolo e da lontanissimo, da un altro tempo e da un altro paesaggio, gli giunse il suono della sua lingua, intero e fresco, come appena inventato, parole che non aveva udito da vari decenni, ma che rimanevano intatte nella sua memoria. (…) Infine si alzò e si avvicinò agli sconosciuti. Dietro il bancone, don Rupert osservò il Capitano che stava dicendo qualcosa ai nuovi venuti, leggermente chino, con le mani dietro la schiena. Presto gli altri clienti, le cameriere e i musicisti si resero conto che quell’uomo parlava per la prima volta da quando lo conoscevano e si zittirono per ascoltarlo meglio. Aveva una voce da bisnonno, fessa e lenta, ma metteva una grande determinazione in ogni frase. Quando finì di metter fuori tutto il contenuto del suo petto si fece un tale silenzio nella sala che donna Burgel uscì dalla cucina per vedere se fosse morto qualcuno. Finalmente, dopo una lunga pausa, uno dei turisti si scosse via la sorpresa e chiamò don Rupert per dirgli in un inglese primitivo che lo aiutasse a tradurre il discorso del Capitano. I nordici seguirono il vecchio marianio fino al tavolo dove la Bimba Eloisa aspettava, e anche don Rupert si avvicinò, togliendosi nel frattempo il grembiule con l’intuizione di un evento solenne. Il Capitano disse alcune parole nella sua lingua, uno degli stranieri le tradusse in inglese e don Rupert, con le orecchie rosse e i baffi tremanti, le ripetè nel suo spagnolo contorto: "Bimba Eloisa, il Capitano chiede se lo vuole sposare." La fragile vecchina rimase seduta con gli occhi arrotondati dalla sorpresa e la bocca nascosta dietro il fazzoletto di batista, e tutti attesero trattenendo il respiro, finchè lei riuscì a farsi venir fuori la voce. "Non le sembra un po’ precipitoso?" sussurrò. Le sue parole passarono dal taverniere ai turisti e la risposta fece lo stesso percorso in senso inverso. "Il Capitano dice che ha aspettato quarant’anni per dirglielo, e che non potrebbe aspettare ancora che si presenti qualcuno che parla la sua lingua. Dice che per favore gli risponda adesso." "Va bene," fiatò appena la Bimba Eloisa, e non fu necessario tradurre la risposta perché tutti la capirono. Don Rupert, euforico, alzò entrambe le braccia al cielo e annunciò il fidanzamento, il Capitano baciò le guancie della promessa sposa, i turisti strinsero le mani di tutti quanti, i musicisti si scatenarono sugli strumenti in un putiferio di marcia trionfale e gli astanti fecero cerchio attorno alla coppia. Le donne si asciugavano le lacrime, gli uomini brindavano emozionati, don Rupert sedette davanti al bancone e nascose la testa tra le braccia, sconvolto dalla commozione, mentre donna Burgel e le sue due figlie stappavano bottiglie del miglior rum. Poi i musicisti suonarono il valzer del "Danubio Blu" e tutti sgombrarono la pista. Il Capitano prese per mano quella donna soave che aveva amato senza parole per tanto tempo e la condusse al centro della sala, dove ballarono con la grazia di due aironi nella loro danza nuziale. Il Capitano la sosteneva con la stessa amorosa cura con la quale in gioventù afferrava il vento con le vele di qualche nave eterea, guidandola per la pista come se si cullassero nell’acqua tranquilla di una baia, mentre le diceva nel suo idioma di tormente e foreste tutto ciò che il suo cuore aveva sempre taciuto fino a quel momento. Ballando e ballando il Capitano sentì la propria età indietreggiare e ad ogni passo erano più allegri e leggeri. Una giravolta dietro l’altra, gli accordi della muscia più vibranti, i piedi più rapidi, la vita di lei più sottile, il peso della piccola mano nella sua più leggero, la sua presenza più incorporea. Allora vide che la Bimba Eloisa stava diventando di trine, di spuma, di nebbia, fino a rendersi impercettibile e infine a svanire del tutto, ed egli si ritrovò a volteggiare con le braccia vuote, senza altra compagnia che un tenue aroma di cioccolato. Il tenore indicò ai musicisti di disporsi a continuare a suonare quello stesso valzer per sempre, perché capì che con l’ultima nota il Capitano si sarebbe destato dal suo sogno e il ricordo della Bimba Eloisa sarebbe sfumato definitivamente. Commossi, i vecchi frequentatori della Piccola Heidelberg rimasero immobili sulle loro sedie, finchè la Messicana, con la sua arroganza mutata in caritatevole tenerezza, si alzò e avanzò discretamente verso le mani tremanti del Capitano per ballare con lui. Davvero bellissima.  |