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Nick: asad
Oggetto: EDITORIALE DI T.CAPUOZZO
Data: 29/10/2004 0.54.37
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Questo editoriale è stato scritto da Tony Capuozzo ed è andato in onda a CAN5 nell’edizione del settimanale "Terra" di domenica 11 settembre.



Noi abbiamo paura. Abbiamo paura di guardare negli occhi il terrore, tre anni dopo. Di guardare questa flotta di aerei piccoli che si abbatte su grattacieli minuscoli come le vite delle persone, nella cronaca quotidiana dell’Iraq.

Noi, che abbiamo negli occhi lo stupore di quell’impatto che entrò nelle nostre case, noi che non riusciamo a dimenticare la traiettoria silenziosa di quei corpi che si lanciavano nel vuoto, noi fatichiamo a riconoscere la stessa tragica spettacolarità nelle autobombe che aggiungono distruzione a uno scenario già distrutto, noi fatichiamo a chiederci cosa faremmo, se i sequestratori ci si presentassero con la loro promessa di odio, di umiliazione fatta di video e proclami, con le loro esecuzioni in punta di coltello: non ci lanceremmo piuttosto nel vuoto, anche noi, sagome sottili e disarticolate che abbandonano la vita che brucia ?

Noi abbiamo paura, per una ingenua convinzione che gli occhi socchiusi tengano lontano l’orrore, per risparmiare a noi stessi le verità. Noi che contavamo sulla simpatia e sulla umanità di Enzo Baldoni – saprà convincerli, scrivevano sui blog - noi, ci siamo chiesti come è stato ucciso Enzo Baldoni ? Lo sappiamo, noi, che un imam che si è limitato a chiederne la restituzione del corpo, è stato minacciato di morte?

E’ la logica del terrore, sempre, come fu persino a casa nostra: uccidevano i Walter Tobagi e gli Aldo Moro, uccidono i Marco Biagi, prima che i nemici in divisa: non c’è spazio per alcuna neutralità, non si calca la terra di nessuno.

Di chi è la terra irachena, oggi, a un anno e mezzo dalla fine della guerra ? C’è un governo nominato per consultazioni e dall’alto, ci sono gruppi vasti e popolari, come gli sciti di Moqtada, che vi si oppongono in armi, che sono riluttanti a entrare nella partita che conduce- che forse condurrà alle elezioni di gennaio.

C’è una galassia di gruppi terroristi, locali e stranieri, e in molte città – Falluja è il modello – godono di sostegno e appoggio, per simpatia e per paura. E c’è una maggioranza di iracheni che sta a guardare, che si lamenta per l’insicurezza, per la metastasi dei sequestri , per la lentezza della ricostruzione, per la disoccupazione, per la presenza sul terreno, di un’ America in divisa spesso dura, implacabile, e comunque più capace di rispondere colpo su colpo – bombardamenti su Falluja – che di mediare, convincere, come è successo a Samarra: truppe americane nel centro della città, dopo trattative con la guerriglia.

Ora noi possiamo guardare al passato in molti modi: dire, eccolo il risultato della guerra, la soluzione del problema si è rivelata peggio del problema, e accontentarci del fatto che il tempo ci abbia dato ragione. Oppure dire: ecco, questo è l’Iraq che sì, non aveva armi di distruzione di massa, che non fosse la distruzione di massa della sua propria gente, ma adesso quel che è in gioco è la costruzione di un paese dove a decidere è il voto, la costruzione di un paese che non sia un vespaio di terrore, e di umiliazione della sua gente.

C’è qualcuno, che a cose fatte, ha qualcosa da proporre meglio di un’elezione ? C’è, e si chiama l’abbandono del ring, il rintanarci a casa propria, lamentando il prezzo che stiamo pagando per scelte altrui, come ha fatto Zapatero, e come cerca di fare una parte dell’Europa.

E’ una condanna certa per l’Iraq, e una salvezza illusoria per noi. Perché quello che sta succedendo, questo 11 settembre iracheno, è figlio, più che della guerra, del vuoto di potere che le è seguito, e che ha offerto un nuovo campo di battagli al fondamentalismo.

Forse è guerra civile, almeno, di un paese diviso, e una platea immensa che soffre. Allora bisognerà scegliere da che parte stare, a meno non si voglia lasciarli al loro massacro, e al contagio nei paesi vicini, e alla tentazione, una volta che ci si sia dimostrati impauriti e deboli, di venirci a colpire a casa nostra. Certo, si può anche parlare di resistenza – se si vuole sporcare la parola- o parlare genericamente di pace, di buona volontà, e magari di ragione e ragionevolezza.

Lo si può fare, a patto di chiudere gli occhi davanti alla natura del terrorismo. E restare sorpresi se uccidono un uomo buono, come Baldoni, e sequestrano due ragazze coraggiose, come le due Simona. Restare sorpresi perché in fondo si è creduto che questa chissà, è una lotta antimperialista, o anticoloniale, e si crede che tutto è cominciato con la guerra e non, di nuovo, con l’11 settembre delle due torri.

Si resta sorpresi se si è accettato che in fondo il sequestro di quattro italiani che facevano le guardie private faceva parte del gioco, era qualcosa che si erano cercati, e a noi spettava solo di cercare se davvero Quattrocchi avesse detto proprio quelle come ultime parole, e se la loro liberazione non fosse strana. Non ci chiedevamo invece, se quei metodi, quei colpi alla nuca, fossero diventati, invece che un mezzo riprovevole e distante, il fine e la natura stessa del terrorismo.

Abbiamo visto una manifestazione, a Roma, grande e colorata, inneggiare alla resistenza irachena. Abbiamo sentito invocare dieci cento o mille Nassirya, ed eccola la Nassirya che ci è toccata. Abbiamo visto i consiglieri comunali incappucciati come ad Abu Graib, ed eccola la prigionia che ci è stata riservata. Non ci dev’essere sorpresa, perché ritroviamo, adesso, dopo Quattrocchi e Baldoni, la stessa incapacità a capire, le stesse melense illusioni. A cominciare dai desideri pii, dal buonismo che trasuda arrendevolezza, che sacrifica i diritti degli individui all’idea che il mondo sia buono come una pubblicità di maglioni. Ci accontentiamo di questo pensiero augurale, e ci basta la preghiera corale di una decina di religiosi per sentirci migliori.

No, finchè non ci sarà rottura, dura e dolorosa, dentro l’Islam, non ci sarà pace. Finché gli ulema continueranno a fare i dottori Sottili, distinguendo tra sequestri inaccettabili e sequestri che in fondo si possono capire, non ci sarà pace. Finché non ci sarà impegno vero – e i meno giovani capiranno se facciamo il nome di Guido Rossa- non ci sarà tregua. E siamo destinati a perdere, per sconfitta demografica e politica e militare, se non capiamo che tutta questa ferocia viene da lontano, non dalle bombe sui palazzi di Saddam.

Viene dai pasdaran iraniani, viene dai kamikaze palestinesi, viene dalle predicazione delle moschee e da inadeguatezze culturali ma viene anche, per quel che ci riguarda, dai silenzi, dalle cecità, dalla scelta, nel mondo, di pensare che il male viene sempre da Bush e da Putin, e l’odio, la crudeltà del terrorismo non hanno la dignità di essere considerati un nemico da combattere, sono solo il frutto maligno di una politica sbagliata.

Sequestrate non è stato un incidente di percorso: è stata una scelta coerente con le prediche, con le bandiere bruciate, con una cultura di odio e di morte, che ha perso il fine – quale mondo nuovo vogliono costruire ? – che sopravvive nei mezzi – le decapitazioni - e che una parte di noi si ostina a considerare con gli strumenti culturali vecchi, cancellati dal tempo: non è anticolonialismo, è la negazione totale dell’individuo, della singolarità insopprimibile dei suoi pensieri e dei suoi diritti – i valori dell’occidente. E’ la persona – sei francese, sei italiano, sei nepalese - ridotta a carne morta. E questo, dobbiamo avere il coraggio di dirlo, ha a che vedere con il cuore di una religione che vuol dire sottomissione.

A Dio, si vorrebbe, ma in assenza di dio, alla sua spada malintesa, millantata, tradita. E’ questo che esprimono i video:l a riduzione in cattività, l’umiliazione di volti spauriti o che nascondono la paura, l’azzeramento della dignità. Lo abbiamo fatto anche noi, ad Abu Graib: ma non era un programma, era un tradimento del programma. Non era qualcosa che veniva diffuso per reclutare, un’esibizione di forza tracotante, era qualcosa che le maglie della libera informazione facevano trapelare, e che ci faceva vergognare. Abbiamo lasciato che l’odio crescesse come una metastasi, e adesso ci culliamo nell’illusione che sia benigna, che tocchi sempre ad altri, e che riguardi poche persone, un complotto da due soldi.

Non illudiamoci: trascurare la natura di questa rivoluzione cupa e sanguinaria, questa mutazione genetica non prevista dal globalismo e dall’antiglobalismo sarebbe due volte sbagliato, adesso. Lo sbaglio, l’unico e fatale, nelle scelte delle due Simona. E’ duro dire, adesso, con loro ostaggio, che la loro visione dell’Iraq era candida e buona come sono loro: per loro contavano i sorrisi, la disponibilità della gente comune, le corse dei bambini, l’illusione che i colpi di mortaio non erano diretti a loro, perché loro avevano fatto solo del bene.

Non abbiamo davanti a noi dei resistenti che sbagliano, dei resistenti che presi dalla lotta contro il responsabile di tutti i mali, l’America, non trovano il tempo di restituire il corpo di Enzo Baldoni. Abbiamo combattenti vili e feroci, che vanno affrontati con intelligenza. Senza dichiarazioni di principio, che adesso non servono. Certo, la partecipazione dell’Italia alla coalizione è un ostacolo, ma la questione va riportata alla innocenza dei singoli, alla autonomia degli individui, alla singolarità dei meriti e delle colpe.

E’ su questo che devono pronunciarsi i musulmani d’Italia e di Sarajevo, e perfino della Cecenia, dove Intersos aveva fatto del bene e sofferto, in cambio,i sequestri. Su questo deve pronunciarsi Arafat inondato di soldi europei. E’ su questo che si combatte il terrorismo e si salva la vita delle due Simona, su un concetto, quello dell’individuo, duro ad accettare per l’Islam. Duro, specie se noi ci ubriachiamo di una formuletta magica – il dialogo, il dialogo - se sussiegosi pensiamo che convinceremo tutti, a patto di far finta che non mettano le bombe davanti alle chiese cristiane, come la notte scorsa, a patto di far finta che se uccidono Baldoni deve esserci uno sbaglio, perché il nemico da biasimare è Bush, qualcosa non torna.

Poi, se come speriamo e preghiamo e aspettiamo, tutto andrà bene, liberi di dividerci di nuovo, con una piccola, amara consapevolezza: i tremila che morirono nelle due torri, schiacciati o soffocati, lanciati nel vuoto o scomparsi, forse non avevano fatto del bene a nessuno. Forse erano solo operatori finanziari, e vigili del fuoco e cuochi e segretarie. Non risulta che avessero fatto del male, del resto, se non il fatto di essere americani: individui, ricordati a uno a uno, una Spoon River pietosa che abbiamo presto dimenticato.

Lo abbiamo dimenticato perché stentiamo a riconoscere la natura del terrore, e abbiamo fiducia nella ragione, e imitiamo maldestramente San Francesco, parlando ai lupi ceceni e iracheni e rampognando i mercanti di Washington, litanie che non cambiano, anche se il mondo cambia. E invece eccolo, lo abbiamo anche noi il nostro piccolo 11 settembre, incarnato in due piccole donne coraggiose, irripetibili. Stavolta non c’è nessuno a spiegarci che in fondo Daniel Pearl era sì ebreo ma anche americano, o che non bisogna ascoltare l’urlo di Nicholas Berg.

Lo hanno fatto, e abbiamo conosciuto l’abisso che separava la mitezza di Baldoni e il disprezzo dei suoi assassini. Stavolta non c’è nessun francese a spiegarci che dietro le stragi c’è la Cia o il Mossad, stavolta non c’è nessun mistero su un convoglio attaccato sulla strada da Najaf, stavolta c’è il tempo, e la fretta, di salvarle. Stavolta – il paese è unito - non c’è la rincorsa miserabile alle responsabilità e nessuno si chiede chi non ha dato l’ordine di rientro alla generosità delle due ragazze, dopo i mortai del 2 settembre, dopo l’avvertimento: non c’è lotta politica, adesso, nessun Scelli da bombardare. Stavolta non c’è campagna elettorale: dipendesse da noi pagheremmo qualunque riscatto per riaverle. Faremmo qualunque cosa, tranne rinunciare a lottare contro il terrorismo, tranne rinunciare a impedire che si ripeta in un grattacielo, in una stazione, in una scuola, nella sede di un’organizzazione umanitaria.

Lo si faccia, con una speranza che non dev’essere alimentata da candele ma da pessimismo, non da tolleranza verso l’intolleranza ma da determinazione a difenderci, non da illusioni, ma da caparbietà, non da slogan, ma da preghiere e abilità mediatrice, non da remissività ma da orgoglio, non da miopia rassicurante, ma da disperata fermezza nel tentare quel che sembra impossibile: restituirle a quell’Italia delle liti da cortile e dei sogni, delle guerre piccine e degli odi resistenti, quel paese che guardiamo impallidire, adesso, davanti all’odio, alla promessa dell’orrore vero.

Tony Capuozzo




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