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Nick: nodoubt
Oggetto: De Gregori e il luogocomunismo
Data: 8/12/2004 1.30.6
Visite: 128

CANTO LIBERO – DE GREGORI FA DE PROFUNDIS DEL LUOGOCOMUNISMO DI IERI: "FINORA MI SONO RICONOSCIUTO NELLE POSIZIONI DELLA SINISTRA. NON ESCLUDO DI FARLO IN QUELLE DELLE DESTRA…"


Aldo Cazzullo per il Corriere della sera

Ci sono davvero molte cose che Alice non sa. A Francesco De Gregori, ad esempio, è accaduto di suonare la chitarra per la rivoluzione e per le riforme di struttura, per Lotta continua e per il Pci, e pure per Nando Adornato («siamo rimasti amici, l'ho incontrato di recente in treno, non condivido quel che fa ma non giudico») e per Nanni Moretti («ogni volta penso: non lo faccio più, non suonerò più per la politica e spero sia vero»). In realtà, Francesco De Gregori custodisce le idee di quand'era ragazzo, e anche la curiosità per il campo altrui, trasmessagli all'università dal suo maestro.

«Renzo De Felice era un uomo delizioso. Il contrario del barone. Disponibile, puntuale, attento ai suoi allievi. Ne ho un bellissimo ricordo, con il toscano sempre in bocca, mentre parla, e talvolta balbetta. Arrivai alla Sapienza nel '69, a diciotto anni, e all'inizio finii in braccio a Marcuse. Sociologia. Ferrarotti, Statera. Si parlava male degli storici, di chi studiava le differenze tra le rivoluzioni francese, americana, russa; l'importante era studiare come la rivoluzione andasse fatta. Dopo un anno e mezzo passai alla storia. E trovai De Felice. Diedi due esami con il suo assistente Paolo Mieli, conobbi Giovanni Sabbatucci. Con De Felice preparai la tesi di laurea, sulle biblioteche popolari del fascismo, un interesse che mi aveva comunicato mio padre, bibliotecario. Ricordo che il primo a sollevare la polemica contro il "revisionismo" fu Amendola. De Felice rispose: faccio lo storico, è il mio mestiere. Peccato soltanto che scrivesse in quel modo insopportabile. Non è il caso di Pansa. Ho trovato assurde le polemiche sull'opportunità politica del suo libro sul "sangue dei vinti". Inopportuno? E' un lavoro doveroso e necessario. Non è detto che debba essere solo Pisanò a farlo».

«Studiare con De Felice mi ha reso familiare la figura di Mussolini. Mi ha trasmesso una sorta di affettuosità verso il Duce. Mi sono come abituato a quest'uomo, dalla straordinaria intelligenza e dalla straordinaria capacità di doppiezza. Sia ben chiaro, sono consapevole di quanto fosse privo di scrupoli morali, non lo sento né amico né consonante. E' un personaggio dalle diecimila sfaccettature, che in certi momenti appare come un eroe shakespeariano». De Gregori tiene a non essere frainteso. Ha badato a mettere le cose in chiaro anche nella sua canzone più straziante e coraggiosa, "Il cuoco di Salò", dedicata ai "quindicenni sbranati dalla primavera". «Non è un canzone politica, non attenua la condanna morale, tanto da sentirsi in dovere di dire quasi didascalicamente che il cuoco di Salò si trova "dalla parte sbagliata". E' una canzone sull'innocenza. Riguarda il sentimento, l'estetica. Racconta un dramma».

Un altro dramma, stavolta familiare, non ha lasciato segni nei suoi versi, ma nel suo nome. Francesco De Gregori si chiamava uno dei fratelli maggiori di suo padre, «aveva pochi anni più di lui», partigiano della brigata Osoppo, «nulla a che vedere con Salò, faceva la guerra ai fascisti e ai tedeschi». Ma furono altri partigiani ad assassinarlo, a Porzus. Gappisti. Insieme con il fratello di Pasolini (cui ha dedicato una canzone). E' una storia di cui non ha mai parlato, «per non dare risonanza pubblica a una tragedia che riguarda la mia famiglia, e in particolare una vedova, degli orfani. Non sarebbe giusto violare questa dimensione privata come uomo di spettacolo, come cantante». Non è detto però che anche queste cose non contino, per chi le sa.

La famiglia di De Gregori non era di destra, non era di sinistra. «Al liceo, il Virgilio, leggevo Paese Sera. Non L'Unità, che mi pareva troppo schierata. Non andavo ai cortei, solo un paio di volte, mi imbarazzava il rituale, i pugni chiusi, il canto di Bandiera Rossa. Poi arrivò il Sessantotto e mi trovai scavalcato a sinistra da gran parte dei miei coetanei. Alcuni mi avrebbero riscavalcato a destra negli anni a venire». E' sempre stato vicino al Pci, «anche se mi sono iscritto all'ultimo momento, l'anno prima che cambiasse nome. Sezione Mazzini». Ma nel '73 Lotta continua gli chiede di partire per una tournée di autofinanziamento al Sud.

Concerti gratis, alloggi di fortuna, tranne una notte in hotel, a Bari, nello stesso letto con l'organizzatore, Sergio Martin. «Eppure contestavano anche me. Ogni sera spuntava qualcuno, in sala o in camerino, che cominciava a chiedere: "Ma Pablo è morto o vivo?". Una persecuzione. Però mi divertivo, perché quello era il mio pubblico. Contestavano l'autorità, e in quel momento sul palco ero io». Nulla rispetto al Palalido di Milano, tre anni dopo. «Un episodio di microterrorismo. Suonare a Milano voleva dire mettersi nelle mani dei vari gruppuscoli. Quella sera contro il cantautore "ricco e famoso" si organizzò un'imboscata. Il concerto fu scandito dalle grida di 400 persone e dal lancio di oggetti di ogni tipo. Fui costretto a far salire i "proletari in divisa" che lessero un proclama. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Vennero a prendermi nei camerini in dieci, uno aveva una pistola, e mi fecero tornare sul palco, dove venni sottoposto a una sorta di processo popolare. Per tre anni rifiutai di suonare in pubblico». Venne il '79, e fu Banana Republic con Lucio Dalla. Un trionfo. «Il Paese era molto cambiato. Finiva la politica di strada e di piazza. C'era stato il caso Moro».

Con i colleghi De Gregori ha sempre lavorato volentieri. «Un tempo era più facile, le case discografiche erano una sorta di cenacolo, al bar della Rca incontravo Baglioni, Renato Zero, Cocciante, Pappalardo, talvolta Battisti». Il più importante è stato De André, conosciuto al Folkstudio. «Facemmo anche un disco insieme, Volume VIII. Lui dormiva di giorno, io di notte. Fabrizio stava sveglio sino all'alba, a leggere, bere, comporre musica. Prima di andare a letto mi svegliava, e io proseguivo il lavoro dal punto in cui l'aveva interrotto. Il primo album però l'ho fatto con Venditti nel '72, ha un titolo presuntuoso, Theorius Campus. Convinti entrambi di essere dei geni, eravamo un po' rivali, ma siamo sempre stati amici. Con Guccini ho passato un bellissimo pomeriggio a casa sua, e poi basta. Con Dalla invece c'è stata una consuetudine che si è perduta, ma della tournée di 24 anni fa ancora si parla. Quella dell'estate scorsa con Ron, Fiorella Mannoia, Pino Daniele mi sembra invece un'esperienza remota, finita». Poi c'è stato un altro viaggio musicale, con Giovanna Marini. E lo scambio di cortesie con Vasco Rossi, che canta Generale, mentre De Gregori ripropone Vita spericolata. «Vasco mi piace molto. E' figlio della sua epoca, i primi Anni Ottanta, e pur essendo un uomo di sinistra per comportamenti e dichiarazioni, i suoi testi esprimono suggestioni individualiste, superomiste, futuriste; categorie considerate patrimonio della cultura di destra. E' una riprova che le canzoni non devono passare attraverso i filtri della politica».

«Non mi direi "di sinistra", così come dico che sono della Roma. Non si mette un timbro su una sensibilità. Non è un'appartenenza, ma una scelta continua. Finora mi sono riconosciuto nelle posizioni della sinistra. Non escludo di farlo in quelle delle destra. Certo finché ci sarà Berlusconi sarà difficile. Si vede che è in buona fede, ma anche che gli mancano le basi: un corso di educazione civica, la lettura precoce di un giornale, Paese Sera o anche il Secolo d'Italia». Non che De Gregori abbia qualcosa da rinnegare. Da evitare, semmai. «Quando ho suonato per una causa politica mi sono sempre pentito, perché alla fine ci si sente usati. Resiste un'attitudine togliattiana: l'artista viene percepito come utile idiota. Colui che si presta. Quando i socialisti si appropriarono di "Viva l'Italia" per uno spot elettorale pregai un amico di farli smettere; però non avrei mai fatto causa al Psi. Avevo scritto una canzone su Craxi, "L'uomo ragno", non mi piaceva la loro arroganza, ma era pur sempre il partito di Nenni, Lombardi e Brodolini».

A Sanremo non è mai andato né mai andrà. Brucia ancora il ricordo del '73, quando il suo capolavoro (che torna nel nuovo album "Mix"), la canzone con cui si sono addormentate generazioni di bambini, in cui passano Lili Marlene, lo sposo impazzito e un misterioso mendicante arabo con "un cancro nel cappello" che la censura ha guarito e trasformato in "qualcosa", partecipò al Disco per l'estate. «Arrivò ultima». Questo perché le cose sono più complicate di quanto si pensi, e sono infinite le cose che Alice non sa.


Dagospia 6 Dicembre 2003





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