Nick: Shamal Oggetto: Racconto di Capodanno Data: 30/12/2004 18.9.51 Visite: 58
Un vecchio racconto. IL PASSEGGERE, RIMASTO SOLO Esco dalla morsa impietosa della folla facendomi largo per fuggire. Le voci e gli sguardi mi scuotono la testa, penso alla pace che sola può dare un attimo passato nella solitudine del dormiveglia. Penso alla mia casa sulla collina, con le sue finestre aperte sui campi immobili e squadrati, al monte quieto che frena il mio sguardo proteso verso l’orizzonte. Dove sono le porte dei sogni, che aperte rivelano magie diffuse e miracoli di sole, dove le guance rosse di un bambino che corre? Voglio tornare, a piedi nudi, all’erba umida e scivolosa, ingoiare aria fresca, mangiare il cielo azzurro. Ricordo le parole dette e mai ripetute. Il cielo ora è grigio, la pioggia cade sottile, e lontano sento ancora il grido di quell’uomo che ho abbandonato con il fardello delle mie parole. Forse già adesso non è più un semplice venditore di almanacchi, ma un’anima straziata da verità forti e contrarie, un rovello di miserie. Il trillo di un violino era la sua voce, così vuota, così vuota… Non era che una marionetta senza memoria, un bicchiere d’aria. Quale sofferenza avevano mai conosciuto le sue corde vocali? Non pianto, certo, ma tristezza o vacua allegria sotto i pioppi d’autunno, al canto ebbro dei pestatori d’uva. Ed era il suo cuore semplice come l’acqua del pantano, immoto come la caligine estiva, una canna pronta a piegarsi sotto il peso del vento, come una fine prolungata effusa dalla pazienza allo spirito. Avrà pensato a me come a un folle, ma sono certo che ora non se ne cura già più, che sono passato sulle sue squallide certezze senza scalfirle. E nulla mi è rimasto di lui. Così vado, nel mondo plumbeo nel quale svaniscono i toni, inseguendo gabbiani stanchi del loro volo ripetitivo. I colori senza vita degli alberi che allungano le loro dita verso il dio degli alberi, piccoli uccelli spauriti che si cercano tra le rade foglie, il fastidioso picchiettare delle gocce sull’erba. I miei anni si sovrappongono nella memoria, i gesti si ripetono. Tutto somiglia al nulla dei giorni passati, e i miei occhi si chiudono, e vorrei dormire un lungo sonno, per risvegliarmi nella gioia del cambiamento. Solo, non essere più accecato, muovermi come un vagabondo tra quattro pareti ravvicinate, non avere rimpianti per le vie trascurate e mai riprese, non sapendo se davvero ha scelto sempre le mie vie, o altri lo hanno fatto per me. Spesi in attimi le mie ore, e altre ancora interminabili, di attesa di luci vitali. Alla fine ebbi, e del pari spesi, e mi trovai freddo e saggio. E solo. Mi sono perso nella bruma di questo pomeriggio, e le mie mani sono vuote. Che senso ha tutta questa assenza, rivedersi come un conoscente, dopo tanti anni? Bramo di sapere che cosa ho cercato in questo tempo. Parole, solo parole, giro attorno alla mia anima per trovare una risposta. Ma non so nemmeno più porre le domande, ad ogni nuovo bivio mi trovo spossato, inerte, ad ogni nuovo anno, per ognuno di essi, ho languito nella mia apatia, e ho costruito a me stesso e al mondo un muro di silenzio. Tutti, tutti noi, l’umile e il principe, condividiamo il senso assurdo della vita, tutti in silenzio, ignari figuranti, eppure speriamo che il nuovo giorno sia migliore, che le forme soavi della sera tornino a circondarci quando ci apprestiamo ad uscire. In silenzio mastichiamo la voglia di possedere la ragione ultima, l’illusione di essere non semplici passanti, ma fermi su noi stessi ad ogni attimo. E il tempo passa, e il mio ruolo di passeggere, di oggetto che orbita intorno alla refrattarietà delle cose, è uno con il fluire delle stagioni, una cometa che torna ciclicamente a stupire il mondo. Ma anche il mio fluire non ha scopo. Posso interrogare le rocce immote, definire un cerchio sulla sabbia e includervi la vita, e ragionar con essa. Ma tutto ciò è vanità. Svuotare l’esistente di ogni contenuto e immettervi nuovi contenuti, e magari mutare anche le forme, è impossibile, per l’umile o il principe. E allora, non ho cercato che una mano, che si stringesse alla mia per non andare da nessuna parte? Una mano tranquilla e fedele, che non mi rifiutasse i sogni e mi donasse i suoi? Ho provato, ho cantato sotto le finestre dell’amore perduto, e ho pianto. Mi sono riassettato in bell’ordine, e ho chiuso in un cassetto la mia devozione. Ora non ho altro, solo pensieri che mi destano all’improvviso batticuore, solo carezze che affido al vento amico della distanza perché fuggano al tempo. Ma dolce era invadere rettangoli di pietra, arene di piazze e larghi, svoltare a ogni angolo con dentro la rabbia felice della corsa. Ora vado piano, anche il mio vento è calato, ma ancora, ricordandosi di me, mi invita a piegarmi in avanti e a lottare con esso. Sono i giorni in cui i viandanti perdono i cappelli, i lampioni ondeggiano la notte riempendo di ombre la strada. In quelle notti torno a vivere, il tempo mi regala l’oblio e mi restituisce le forze. Ma in quest’epoca i suoni sono diversi, non hanno l’ovattata dolcezza del mare, si spostano stanchi nell’aria umida. O forse siamo noi che non sappiamo più ascoltare, chissà, ci renderemmo forse conto che l’inverno non è altro che una coltre sotto cui dormire, fino a quando l’aprile non ci riaccenda le guance col suo carico di pollini, fino a quando le spalle si alleggeriscano, e andiamo veloci a struggerci, inseguendo nuovi colori, e alla luna stagliata in cielo confidiamo i nostri segreti. Invece procediamo senza pace, senza armonia, attraversando in fretta la strada che ci separa da un’ora all’altra, sentendoci palpitare battere ansimare tra la gente, incrociamo sguardi fuggevoli e anche noi fuggiamo. Tutto senza pace, senza rispetto, addannati e rapidi ci tocchiamo, ci amiamo, e non ci vediamo più. Ahi, Natura! Non è contro di te che abbiamo lottato, ma contro noi stessi, il nostro differire sempre la questione, spostare sempre l’ostacolo oltre la siepe effimera dell’infinito! No, non è questa la vita, la vera vita! Non sono queste le parole che volevo, non questi i miei sogni irrealizzati! Mentre la sera cala, non distinguendo la linea delle colline, cerco di trovare un sentiero che mi riporti a casa. Dolce estraneità del perdersi! Non avere altro scopo che rincorrersi, amarsi e poi gettarsi, per una banale costruzione dell’anima… Misuro la via con passi lenti e casuali, e penso che domani andrà meglio, che un nuovo vento mi scompiglierà i capelli. Devo ancora attendere, lanciarmi nel mondo e nella convenzione che chiamiamo anno con la fede nel vuoto, e sperare di afferrarlo, di essere anche io un giorno parte cosciente, di divenire creatore di sogni. Perché è mio compito passare, e smuovere, deviare l’inerzia di coloro che in un angolo attendono una nuova vita. Principierà, se tutti i passanti della terra si doneranno alla luce dell’alba. E allora tutti i venditori di almanacchi, adoratori di soli stampati, avranno la forza di concedersi. Tutti, tutti i buoni cuori, che si agitano dietro le porte delle case, vendendosi languidi alle chiacchiere di una scatola senza vita, sapendo solo di attendere, sperare, pazientare. Perché questo è l’anno, questa l’unica salvezza per il venditore di almanacchi. Devo trovare quell’uomo, dirglielo...
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