Nick: Coatlicue Oggetto: La mia Budapest Data: 10/1/2005 13.29.35 Visite: 125
Ho ancora tantissimo sonno. Tutto quello che vorrei fare è dormire e possibilmente sognare che sono notti che non sogno. Spesso mi chiedo se il sogno sia solo un palliativo ai mali di quella che chiamiamo realtà. Tuttavia, al di là di ogni argomentazione esistenziale, praticamente fuori luogo, oggi ho sonno perché in queste notti non ho dormito per nulla e mi sono ritrovata sull’aereo del ritorno completamente collassata che non ho avvertito il decollo, le perturbazioni, i vuoti d’aria, l’atterraggio. Peccato perché io adoro volare e godermi ogni momento del volo. Tutto ciò che ricordo invece è solo una mano amica che mi scuoteva. "Mari, siamo a Fiumicino, svegliati". No amica mia non svegliarmi proprio adesso che stavo sognando, finalmente. Sognavo di quella bellissima serata al ristorante medievale seduta al tavolo con quei ragazzi di Budapest mentre il mangiafuoco e i lottatori con le spade giravano tra la gente e noi assaggiavamo piatti squisiti dai nomi impronunciabili e bevevamo vino tokaji a fiumi. Trovo sia meraviglioso "scontrarsi" per caso a una fermata della metro mentre la piantina della città ti scivola di mano e dire "I’m sorry I’m sorry" a uno conosciuto e poi ridere e farsi spiegare la strada giusta e ritrovarsi la sera con lui e i suoi amici e condividere la stessa tavola, lo stesso cibo, pensieri, aspirazioni. Nei loro occhi ho intravisto voglia di rinnovamento e paura del totalitarismo. Ho ascoltato i racconti che sapevano di tempi e spazi lontani e ho chiuso un poco gli occhi per immaginare la loro landa sconfinata, la Puszta, e immaginare accampamenti nomadi e fuochi nella notte. Ho scoperto un popolo bellissimo pieno di grandi passioni. Con loro ho conosciuto la vera Budapest, che a prima vista mi aveva un po’ delusa perché sembrava il negativo di una foto fatta a una delle tanti capitali europee. E invece al di là delle insegne luminose della Samsung, della TDK e della Nokia connecting people, ci sono angoli che sanno di est, di magiari, di unni schierati in posizione di attacco, di Mitteleuropa. Meraviglioso il pomeriggio in una caffetteria dei primi del Novecento, raduno dei vecchi e nuovi intellettuali ungheresi ed io ero proprio lì, di fronte a una cioccolata calda e ad un dolcetto yiddish a parlare di nuovi sogni non così distanti dai sogni che un tempo avevano riempito quelle stanze e che si riproponevano in maniera preponderante tra la stoffa dei divani o le pieghe delle tende. Ho rivelato al mio affascinante interlocutore che era un po’ che non sognavo, e lui nel suo perfetto inglese mi ha risposto che parlare di sogni era un po’ come sognare davvero. Il suo sogno più grande è restare nel suo paese e migliorarlo dopo i Russi e il Comunismo. Riportarlo ai fasti di un tempo. Le persone intorno a me sono giovani, sono belle, di una bellezza che nasce dalla passione e dagli occhi che brillano, e piene di buone speranze. Le pulsioni che animano la loro vita non sono così distanti dalle stese mie pulsioni. Le uniche distanze sono i chilometri. Mi guardo intorno, ci sono ragazzi che si scambiano tenere effusioni sui divanetti, per la strada giovani coppie entrano a teatro e nei ristoranti gruppi di amici siedono ai tavoli. Io stringo il suo braccio nel freddo che fa fuori e per alcune notti mi lascio inghiottire dalla favola dell’Est.
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