Nick: Lee_cina Oggetto: MAMMA Data: 28/1/2005 23.3.13 Visite: 67
«Jatevenne»: l’urlo delle donne e un’idea sbagliata di famiglia «Jatevenne»: un grido di battaglia, un lamento, un segnale di guerra, o una maledizione. Pronti a combattere le vedette della camorra, pronti a infrangere inferriate abusive, fortificazioni, bunker di guerra mimetizzati nel degrado, i carabinieri si sono trovati di fronte l’immagine arcaica di un coro tragico alla rovescia: un manipolo di donne scarmigliate, vestaglie sgualcite al posto delle tuniche, figli branditi come scudo e baluardo della disperazione. « Jatevenne », grida il coro con quella sonorità della voce napoletana che incanta il mondo e che qui si rivolta in urlo viscerale. Andatevene, andate via, levatevi di torno. Ma è davvero questo che vogliono le donne dei camorristi, madri, mogli, sorelle e figlie di una famiglia dagli incerti confini in cui, a cicli regolari, la guerra contro lo Stato si trasforma in lotta di tutti contro tutti? Ieri mattina, a Napoli, al «rione dei Fiori», le forze dell’ordine hanno dovuto fronteggiare la più tremenda delle resistenze, quella di chi non ha più niente da perdere perché ha già perso tutto. Anche se alcune di loro sono ricche dei soldi assassini della droga, quante fra queste donne hanno ancora quel minimo comune sentimento della civile convivenza che dà forza e fiducia alla vita? Gli affetti sono legami intinti nel sangue e nella violenza, tutt’intorno nient’altro che ostilità, il rischioso vincolo dell’omertà, la morte. C’è una retorica della malavita che trasforma la donna del bandito, meglio se del boss, in una figura del folclore noir. Qualche volta nelle fotografie di feste e cerimonie di clan che scivolano tra gli articoli di cronaca e nei resoconti dei processi capita di vederle in questo ruolo. Abiti costosi, gioielli pesanti, trucchi vistosi e volti sorridenti. Il travestimento si perde quando seguono la parentela maschile nelle aule dei tribunali, ma allora è la maschera della durezza che si è messa a lutto, il viso tirato, l’espressione immobile di chi non può avere pietà di nessuno, neppure di se stesso, e deve continuare a stare al gioco che ormai è finito male. La faccia vera di queste donne è invece quella che hanno visto i carabinieri ieri mattina, il viso stravolto dal furore e dalla paura di vestali di un ordine rovesciato, che vedono nella giustizia l’ultima delle persecuzioni. Qualcuno potrebbe dire che è la voce del sangue, una voce più forte dei vincoli della legalità; che il sangue per queste donne, per le madri e per le figlie di quest’universo così pericolosamente contiguo al nostro eppure separato, è l’unica legalità possibile. Qualcuno potrebbe ricordare le «leggi non scritte» che, come nella tragedia greca, regolano la parte oscura, viscerale dell’umanità. Cioè la parte femminile. Invece Antigone non c’entra affatto, non c’è un tiranno da abbattere, e bisogna stare attenti alla direzione che prende la nostra pietà. E’ vero: queste donne sono vittime. Ma non dei carabinieri che rischiano la vita per riportare, se non la legge, la speranza della legge, un suo possibile avvenire. Sono vittime certo delle colpe delle amministrazioni, dell’oblio delle autorità, della speculazione edilizia, del degrado urbano, di tutti quei mali di abbandono e incuria che gravano da sempre sul mezzogiorno e sul bellissimo golfo di Napoli. Ma sono soprattutto vittime degli uomini che tribalmente le onorano e che civilmente le disonorano con l’efferatezza dei loro reati, col sangue di cui si lavano le mani tra le pareti domestiche, con la complicità ottenuta con l’unica legge che conoscono, la legge della violenza che è il contrario esatto dell’amore. A Scampia, a Secondigliano, nel famigerato «Terzo Mondo» napoletano, la battaglia per la legalità passa anche, se non soprattutto, tra le donne. E’ a casa loro che bisogna cercare di far risuonare il significato vero della parola famiglia, e cioè responsabilità, cura, solidarietà umana e non clan camorrista. Le menadi in vestaglia che scendono all’alba a fronteggiare i carabinieri non difendono i loro figli e i loro padri, tantomeno se stesse. La maledizione, l’urlo ritmato dello « jatevenne », ricade sulle loro teste e non le proteggerà dal nemico che non è fuori ma dietro la porta di casa.
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