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Nick: Peppos
Oggetto: Quell'11 marzo 2003
Data: 27/2/2005 21.48.11
Visite: 91

Il dolore ha asciugato i suoni. Stretto le voci. Avvolto i corpi. Pamplona è silenziosa. Le strade dove corrono i tori, pazzi, sciolti, liberi per spettacolo, deserte. È un busto stretto che scricchiola sotto il colpi del vento. Qualche finestra sbatte, qualcuno si risveglia, litiga, si rimette in piedi, manda in circolo la vita, stupida, scontrosa, normale. «Quand’è che schiatti grassona?». «Prima devo vederti affogare». Dal bagno, Mafalda aveva risposto prontamente, pareggiando i conti. Sempre così i suoi giorni. La casa vuota, lo scambio consueto di cortesie con la donna di suo padre e una gran fame. Oggi niente scuola. Dopo quello che è successo, si rimane a casa. Niente compiti, nessun obbligo, un giorno intero, forse due, da riempire. Certo, c’è la storia di ieri. Radio e tv non parlano d’altro. Quel treno stracciato come un giornale. Gente che piange. Corpi stesi sull’asfalto. Allarmi, sangue, paura. Madrid se ne sta zitta, scossa e invasa dai giornalisti.Mafalda pensa al fratello in carcere e non crede a quelli della tv. L’aveva detto anche il padre: «Noi non c’entriamo niente. Capisci? Ci accusano di quell’infamia». A lei sembrava tutto irreale. Si sentiva distante, lontana, un piccione che passa per caso. Sorvola, si ferma sul cordolo di un palazzo, e getta lo sguardo su quel trambusto. Vola giù, zampetta fra quella gente e poi riprende il cielo. Così aveva fatto. Spenta la tv era scesa in cortile, ad aspettare l’arrivo di Manuel e Mariano. Il primo, un ragazzino di dieci anni, vivace, irrequieto, imprevedibile. Il secondo, quindici anni, cervello da sette, allampanato, stereo nelle mani che suona tanghi alla città. Insieme se ne vanno in giro. Madrid è lontana ma si sente uguale. Il suo lamento è arrivato anche qui, tutto si svolge in modo composto. La gente silenziosa passa. Si riunisce, commenta, senza forzare i toni. La meta dei tre ragazzini per ora è la panetteria del padre di Mafalda. Manuel cammina in modo nervoso, irregolare. Saltella, si volta, indietreggia, si ferma. Parla, commenta. Si anima, ha sempre mille storie da raccontare. Gira intorno a Mafalda e al suo passo felpato. Gambe strette. Espressione d’estraneità, come una che si è persa, sempre. Mariano forse li segue, forse no. Sorride in eterno, smanettando sullo stereo. Parla quasi mai. Lascia fare tutto a Gardel. Gli cede incombenze e situazioni, sfondi e dialoghi. La giornata è serena, nonostante sia marzo. Sulla strada incrociano la signora Rivero che non risponde al saluto. Non che sia gentile di solito, ma oggi è peggio. Ha un brutto grugno. Anche il padre di Mafalda, li saluta con una smorfia. Strano, è sempre caloroso. Davvero non è giornata, forse loro, i grandi, sentono tutto il peso del disastro. I tre aspettano fuori sulle scale di fianco al negozio. Quando è libero il panettiere va da loro con il premio: pane caldo, qualche brioche. È strano oggi. Sembra avere il naso lungo lungo, la barba trasparente, gli occhi secchi più del solito. Mafalda lo ha visto così. Distratta si perde in quell’immagine anomala del padre. Ma non dice nulla. Lui le tocca, leggero, una spalla. È un po’ che parla ai suoi amici ma lei non ascolta. «Certo che ti sento», smozzica la ragazza. «Su, dai, racconta». «Niente, dicevo dell’odore del pane. Che c’è di meglio?». I ragazzi non rispondono. E il panettiere continua: «A me questo mestiere non piaceva quando avevo la vostra età. E sapete cosa mi ha fatto cambiare idea? Uno squadrone di franchisti. Assurdo è? Ho scelto di fare il panettiere per colpa dei fascisti. La storia non è bella. C’è di mezzo un morto». «Un morto?», in coro Mafalda e Manuel. «Sì, certo. Mio padre». Poi dopo una pausa: «l’hanno ucciso i franchisti perché era anarchico, e non solo. Riforniva gli anarchici alla macchia. Quando sono venuti a prenderlo ha fatto fuoco sui primi due, poi si è barricato dentro e c’è voluta una squadra per cacciarlo via. Allora io non l’aiutavo a fare il pane. Mi limitavo a guardare, quando ho capito era troppo tardi. L’unica cosa che potevo fare era: non chiudere la panetteria. Sapete perché vi racconto queste cose? Quando, fra anni, si saprà che il treno non l’abbiamo fatto saltare noi, io non ci sarò. Ma fin da adesso so bene che non sono stati i baschi a fare quel casino lì. E per questo ho litigato con la signora Rivero. Una donna che crede di indossare la divisa e pretende di dare ordini. A me. Dopo quell’accusa infame, poi. Voleva che esponessi un nastro nero. Dopo quello che hanno detto di noi. Dopo che hanno chiuso Batasuna. Dopo che mi hanno arrestato un figlio. No, non potevo piegarmi. Questa è una panetteria che ha resistito ai franchisti, figuriamoci se prende ordini dalla donna di un poliziotto... Che dici? Problemi con il marito? E di che tipo? Sono un lavoratore onesto io. Inforno pane e ho la testa libera». * * * «Che c’è?... qualcosa non va?». «Cosa c’è, che c’è, che c’è... e me lo chiedi?... uno... uno dei loro. Un basco. Un assassino basco, un maledetto assassino basco, si è rifiutato di appendere il nastro nero di lutto per le vittime. Capisci? Impettito, orgoglioso delle sue origini, rivendica l’estraneità. Così mi ha risposto. Capisci? Un basco. Orgoglioso della sua testardaggine, del suo trasgredire le regole di questo Stato. Perché c’è uno Stato no? Quello colpito, o sbaglio?. Di cosa parla la tv? E che dice? Chi ha ucciso quegli spagnoli? Chi ha fatto saltare quel treno? È stata o no l’Eta? E lui: rivendico l’estraneità. Capisci? Un basco, a me. Ma allora cosa conta la tua divisa. Che ci stiamo a fare qua, tu, io, i tuoi colleghi, il posto di polizia, se un panettiere qualunque si arroga il diritto di non esporre un nastro nero che è appeso in tutta la Spagna? E soprattutto qua, questa terra, questo posto, questa gente che rivendica estraneità, indipendenza, dovrebbe sentirsi in colpa, ha creato il clima, da anni uccide la nostra gente e ora dovrebbe zittirsi per sempre, chiedere scusa e smetterla. Barbari ecco cosa sono. E che fa uno qualunque di loro? Si rifiuta di prendere parte al lutto. Forse perché c’entra anche lui, che ne sapete voi? Eh? Poliziotti, cavròn, ecco cosa siete. Non contante nulla, nessuna legge da rispettare, nessuna regola, nemmeno un nastro nero di lutto entra nei negozi di questi assassini. E io, che non ho dormito dal dolore, con negli occhi i corpi martoriati di quella gente. Gli ho detto: esponga quel nastro, e lui fiero del suo rifiuto: non siamo stati noi, siamo estranei alla cosa. Capito? Con semplicità. Lui inforna quel suo pane, poi che fa? Trasporta, nasconde, bombe? Chissà se è un membro dell’Eta. Intanto si rifiuta di esporre un minuscolo nastro nero che è solo un piccolo segno di civiltà, che non hanno, che non sentono, nemici, ci vedono, come nemici, estranei, capisci. E tu? Cosa conta un poliziotto, qui? Cosa ci stiamo a fare? Ma hai visto quella gente? Hai sentito i rappresentanti del governo che cosa hanno detto? E lui mi risponde siamo estranei alla cosa. Quello stramaledetto panettiere basco, e anarchico. Di sicuro c’è sotto qualcosa. Come fa a trovarsi in questo quartiere bene un terrorista? Dovrebbe essere chiuso quel panificio d’assassini. Mangiamo pane, cibo sacro, fatto con mani che grondano sangue. Un terrorista basco ci impasta il pane quotidiano, capisci? Finiremo col dargli ragione. Si comincia con i nastri e uno di questi giorni ce lo ritroviamo sotto casa in attesa di piantarti una pallottola in corpo. Era solo un nastro, cosa gli costava? Che cosa gli costava partecipare al lutto? Cosa? Cosa?». L’uomo prese la pistola, la rimise nella fondina, si assicurò che fosse carica, rimosse la sicura e con calma si lasciò la moglie alle spalle. Scese le scale, nelle orecchie quel monologo d’ira. Percorse con buon passo la strada che lo separava dalla panetteria, senza pensieri, convinto di fare la cosa giusta. Il panettiere stava poggiato a un lato dell’uscio e parlava con tre ragazzini, seduti sulle scale di fianco. Si accorse del poliziotto e della sua arma, troppo tardi. Indietreggiò senza voltargli le spalle alla disperata ricerca di un riparo. Ma quello era già all’entrata, pistola nelle mani e sguardo assente. Spostò i ragazzi, che gli si erano parati di fronte, come tendine. Tutto in un attimo. Le grida di Manuel. Il silenzio dell’uomo che sparava a ripetizione contro il panettiere. Lo stupore di Mariano. Gli sforzi inutili di Mafalda che picchiava e graffiava il poliziotto. Non le sparò. Se ne liberò con una spinta e senza correre riprese la strada di casa. Il panettiere a terra, inerme. I tre ragazzi chinati su di lui. La voce di Gardel dolce e insensata riempiva il negozio. Il sangue sul pane stonava come una bomba in un treno.

P.S. La storia è vera. Passata in secondo piano rispetto alla tragedia dell’11 marzo, si è persa come tante. Il panettiere si chiamava Angel Berroeta (64 anni), e non aveva esposto il nastro nero di lutto per le vittime degli attentati di Madrid. Un poliziotto gli ha sparato. Il resto è frutto della mia fantasia.

Marco Ciriello - Giornalista de il Mattino



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Quell'11 marzo 2003   27/2/2005 21.48.11 (90 visite)   Peppos
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