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Nick: Franti
Oggetto: Train & Spes
Data: 16/3/2005 21.45.13
Visite: 102

Premessa - Postato poco più di un anno fa. Avevo poco più che vent'anni (non ricordo bene quanti di preciso) e i luoghi comuni non li consideravo tali. Ah...pure i Treni a volte parlano.



Quante storie all’interno delle mie viscere, mentre il mio corpo affusolato, di lamiere e ferro arrugginito, continua a memoria i suoi percorsi su fredde rotaie, quasi all’infinito, incessantemente.
Quante persone nelle mie budella: ladri, prostitute, amanti clandestini, uomini d’affari, operai, pendolari o semplicemente persone intente a pisciare ed imbrattare volontariamente e no i cessi che tremano.
Queste persone, queste storie, fanno parte di me, sono incastrate tra i ferri, gli scompartimenti e le poltrone: le loro gioie, i loro dolori veleggiano nell’aria viaggiata ed acre delle mie interiora, come fantasmi.
Queste sono cronache e storie ispirate da un mio breve viaggio attraverso impressioni e testimonianze strettamente legate all’esperienza della vita.



Julian è un tipo alto, con il viso pallido ed i capelli nerissimi.
La magrezza del suo corpo colorata dal giallo di camicia e pantaloni.
A vederlo da lontano appare come un’ombra luminosa, un’ombra che si fa largo tra la gente seguendo la propria andatura dinoccolata.

Questa sera, prima di salire, per oltre un’ora ha calamitato le attenzioni di poche decine di persone che lo guardavano e ascoltavano suonare, mentre una scossa elettrica sembrava diffondersi.
Proprio come succedeva agli altri due.
Sì,perché insieme a Julian, che prima di salire entrava in un retro di un night, là dove c’era un tavolo, qualche sedia e poche bottiglie, già, insieme a lui c’erano altri due musicisti.
Uno stava in piedi, avvinghiato ad un basso dal corpo scorticato, l’altro seduto, dietro a dei fustoni di latta, a simulare una batteria, tutti e due impegnati a produrre rumore "sapiente", con i rispettivi pseudo strumenti.
Sembravano entrambi ispirati da qualcosa di profondo, regolati nei suoni dalla semplicità di canzoni incendiarie ed intanto quasi posseduti da una nevrotica, maledetta scintilla di blues, rockn’n’roll acido, digital hardcore o roba simile.

Sembravano ispirati, però.
Infatti l’unico convinto e veramente ispirato dal suo decidere, che tende la mano per aprire lo sportellone, è Julian: il tipo che ora tende la mano verso parte del mio corpo, quello che due ore prima, sul palco, si agitava di più, contorcendosi, cantando ed urlando.
È ancora luccicante di sudore, come i lustrini che invadono la sua camicia gialla, mentre i tratti corrucciati del viso si stendono poco alla volta in un immaginario, interiore sorriso aperto.

Parla dentro di sé a se stesso, con la sua voce profonda e grave, nei toni, non nelle intenzioni, ricordando e commentando vicissitudini presenti e passate.

E’ eccitato ed emozionato nel contempo Julian.
Sta recandosi a Milano, ad effettuare l’ennesimo provino, in attesa di una scritturazione da parte di qualche etichetta discografica.
Ma non è come le altre volte.
Stavolta a contattarli è stata la Cory, etichetta di Judah Conteh.

Pensa, con uno spino attaccato tra l’indice ed il medio della mano destra, portato pacatamente alle labbra:

" Credo che abbiamo beneficiato di una discreta attenzione, considerando che siamo un gruppo "difficile": la musica che facciamo è tutt’altro che accessibile".

E ancora:

"Non credo esista più una scena indipendente. Una volta, quando avevo vent’anni era molto importante per me: la comunità di cui facevo parte quando suonavo con la mia precedente band ora non esiste praticamente più ed intorno a me, oggi, non vedo altro di cui vorrei essere parte con la stessa intensità.
Mi impegno, lavoro duramente con la Lazarus Blue’s Band per continuare ad essere e sentirmi punk: non mi viene un’altra parola, quindi uso questa per spiegarmi.
Non abbiamo un manager, mi occupo io di tutto.
Non c’è però nessuno che possa venirmi a dire cosa devo o non devo fare.
Intorno a me non c’è più nulla, ma in questo momento sembra sia emerso quel senso di comunità che rendeva tutto così eccitante quando avevo vent’anni".

E’ speranzoso Julian.
Non si direbbe da uno che si "autodefinisce" punk.
Spera nell’approvazione da parte dei tipi della Cory.
Forse questo dipende dal fatto che sta invecchiando.

Julian ha 35 anni, una moglie laureata in filosofia, disoccupata e legata a lui da un rapporto stanco ed instabile ed un figlio, un bambino di due anni, Jacopo, o Boogie come lo chiama lui.
un bimbo bellissimo dalla pelle rosa rosa, gli occhi cerulei ed i capelli gialli come la sua camicia.
Lo adora, forse proprio per i suoi colori.

Ogni tanto Julian è sicuro di essere cambiato, come se lo stesso cambiamento sia derivato dal fatto di essere diventato padre, ogni tanto arriva anche a pensare di averne abbastanza della sua band e di tutte le altre storie.
Meglio lasciar perdere questi discorsi.
Stasera Julian è eccitato e spera, spera e spera.



Capelli resi corvini dall’henné, grandi occhi di un verde scuro che tende al castano.
La bocca sensualmente carnosa.
È un corpo esile e nervoso.
E’ fascino di contrasti quello esercitato da Elisabetta, Betty, come ama essere chiamata nell’Ambiente.
Aristocrazia gitana, verrebbe da dire.
Fondato sui contrasti è del resto il suo profilo artistico, simboleggiato dalle forme duttili e spaesate del suo corpo, così come dalla sua voce: ora profonda e torbida, poi aspra ed acuta.

Nella conversazione dell’altra sera, era invece pacata e seducente, da gran signora.
Si trovava con dei pigmalioni dell’Ambiente.
In una fredda mattina d’autunno, ai bordi della vetrata di un salone di uno di quegli alberghi identici, qualunque sia l’angolo del mondo in cui sono stati edificati.

Fa la modella Betty, sta recandosi a Milano per il provino decisivo, quello della sua vita.
E’ l’ultima occasione, la più importante, ha 27 anni. Nella sua mente, al primo posto non c’è la vita quotidiana, ciò che percepisce con i cinque sensi.
È disponibile soltanto ad assorbire emozioni o illusioni: conta quello.

E pensa, Betty:

"Questo provino è un onore, il più grande di tutti! So quanto alcune modelle sono state importanti per me, e pensare che anche io possa esserlo per altri è emozionante.
Credo di avere molte cose da offrire e vorrei riceverne in cambio altrettante, perché tutto quello che ho imparato è ciò che ho ricevuto! Dare e ricevere cose: questo mi piace dell’Ambiente.
E te ne accorgi dal vivo, alle sfilate, quando guardi i visi della gente che hai di fronte e la vedi chiacchierare, sussurrare, quasi estasiata: tutto quello che dai ti ritorna.
Non c’è premio maggiore per una modella, è entusiasmante.
E penso lo sia anche per il pubblico: ricordo quando andavo alle sfilate da ragazzina e trovavo espressione nelle cose e nei movimenti che io ancora non riuscivo ad esprimere. E’ di grande conforto quanto accade.
Ecco che cosa rende diversa una sfilata dalle altre: le facce della gente, il modo in cui ti guarda, lo scambio di energia e speranza con le altre ragazze".

Sogna e travisa Betty.
Ha avuto una carriera che non è carriera, saltando illusa e speranzosa da un letto all’altro, da uno studio fotografico a qualche locale di periferia.
Ha avuto al suo cospetto una sottospecie di pubblico freddo e distante.
Allora Betty trovava dentro di sé le energie per andare avanti.

Ha talento Betty.

Era innamorata Betty, strano a dirsi, di un tipo di quelli che se ne stanno in disparte, gli occhiali spessi ed una collezione di insetti a casa, quelli che ti parlano del sistema solare.

E’ quasi anoressica Betty.
O almeno crede di esserlo.
Come quelle della sua generazione.
Che senso ha?

E’ annientata dall’idea che le tette gli crescano.
E crescano ancora.

Pensa:

"Finirà che mi arriveranno alla cintola".

Avrà un cancro squamoso uterino Betty, che, seppur non influirà sulla sua carriera, la porterà alla morte nel giro di 10 anni.

Ha un desiderio Betty, oltre al provino, una maternità.

"E’ naturale per qualsiasi donna della mia età. D’altra parte non sono cose che puoi decidere a tavolino: quello che deve accadere accade.
Mi sono abituata a prendere per buono quello che viene, perciò non posso dire in modo categorico di volere un figlio e trovare un uomo con cui farlo.
Se succede…
Mio fratello, di cinque anni più vecchio di me, ne ha due. E recentemente ho accettato di assistere un’amica a casa durante il parto: sono affascinata dai bimbi e dalla maternità.".

Meglio lasciar perdere questi discorsi.
Stasera Betty è eccitata e spera, spera…



Stasera sono saliti dentro di me due ragazzi baschi, Pablo e Rina.
Sono compagni di vita.
Insieme a loro un bimbo di pochi mesi, Rhuno, il loro bimbo.

Rina – donna basca per antonomasia – con la timidezza ed i numerosi anni di militanza che si porta appresso, impersona il fascino di una tipica bohemienne.
Ma, quando dopo essere salita, seduta sulla poltrona, imbraccia Rhuno, il suo pargolo, per allattarlo, allora si ha dapprima il sospetto, poi la certezza d’avere dirimpetto la più plumbea ed al contempo, più fiera ed illuminata donna esempio della sua gente basca.
Ciò che appare si trasforma in certezza.
Niente da capire, succede e basta.
Se ne sta lì, con le dita cerchiate d’anelli, indossando per la prima volta, in tanti anni, una chioma fluente, abbinata ad un senso di austerità e semplicità, fulcro del suo carattere.

Pablo, nome comune in Spagna, associato però quasi sempre, grazie al suo nomignolo Alkorta, alla militanza politica ed antimperialista contro il governo spagnolo, in parte anche responsabile della falsa o seriosa mitologia che lo circonda.

Pablo non dice una parola e non alza gli occhi.
Poi, guardando Rina, improvvisamente comincia a far smorfie con la bocca, quasi a simulare un pesce rosso o un coniglio, risucchiando le guance e rimpicciolendo le labbra, scoppia in una risata e dice:

"Non ti preoccupare, stavo solo imitando quella timida creatura che è nostro figlio!".

Se pensate che Pablo Alkorta sia un tipo triste ed un po’ sfigato, dovete proprio ricredervi.
Allegro ed un po’ strambo, sforna una battuta dopo l’altra con un senso dell’humour sottile, così sottile che lo stesso Pablo si lamenta che "nessuno capisce le mie battute".

Una figura fondamentalmente diversa da quella che si immagina ascoltando i suoi discorsi seriosi, con la sua voce piena di speranza, ma talvolta desolata e sconsolata, liricamente profonda ed intensa, tanto da chiedersi se la persona che si incontra un attimo prima sia effettivamente la stessa di quella che si incontra immediatamente dopo.

Sono entrambi idealisti Pablo e Rina, o terroristi, come vengono definiti in Spagna.

Sulle loro teste pendono due mandati di cattura per attentati dinamitardi mai commessi.
Nelle loro anime c’è posto per Mingus, Biko, Sandino, Jara, Dante di Nanni, Guevara, Jarry Durruti.
Queste persone le immaginano tutte con un sorriso.
Sono persone che con la loro voglia di giocare con la propria vita hanno lasciato a tutti dei regali.

L’elenco finisce con i milioni – a loro dire – di fratelli e sorelle che non hanno mai avuto un posto o un nome, che non sono meno importanti, anche senza il fuoco dell’eroe, il sermone del perfetto.
Così come loro.

Sono partiti clandestinamente da Bilbao, assieme alla loro creatura, clandestinamente sono entrati in Italia, e clandestinamente stanno per recarsi a Milano, al Leoncavallo, per cercare disillusi o per alibi, appoggi alla lotta della propria gente, e per cercare di vivere un po’ in pace, quasi stanchi, clandestinamente.

Non danno importanza alla politica, non hanno studiato, danno importanza alle idee.
Non dimenticano da dove sono arrivati, e quello che sono.

Prima di entrarmi dentro, Pablo e Rina hanno conosciuto Manuel, un mezzosangue: acconciatura da apache, sguardo vispo e sarcastico, lingua lunga.
Un lupo travestito da agnello.
Ha raccontato in quella occasione la sua storia di Santone.
Sperimentatore per eccellenza: di suoni, innanzitutto, ma anche di immagini, speranze, droghe.
Maestro di cerimonie in odore di misticismo di cui si era persa la memoria.
Diavolo e Acqua Santa, o forse semplici contraddizioni che si accavallano.
Figlio di un orafo cinese e di una madre islandese, morta suicida.
Il suo essere profondamente contraddittorio, faceva in modo che "multiculturale" fosse comunque un aspetto sempre presente in ogni suo atteggiamento.

Ha raccontato in quell’occasione la sua lunga storia, cominciata più di quarant’anni fa.
Non ha condotto una vita prudente.
Eccesso degli eccessi, la caduta dalla finestra di una casa che ospitava una macumba "psichedelica", a suo dire: era il 1980.
Da allora Manuel vive su una sedia a rotelle e conduce una vita segnata da disagi e sofferenze.
Dice di usare gli orecchi e gli occhi per avere un contatto con il mondo, non per ascoltare e guardare se stesso.
Ha uno strano e sarcastico presentimento parlando con Pablo e Rina.

Meglio lasciar perdere questi discorsi, stasera Pablo e Rina sono eccitati e sperano, sperano.



Sua nonna era un essere molto religioso, ma in maniera estremamente laica, per dirla all’occidentale.
Incapace di essere bigotta, perché l’essere bigotti è una cosa che non appartiene alla sua terra.

Sua nonna gli ha insegnato quello che in Italia si chiama "l’esame di coscienza", cioè, prima di dormire, pensare alle cose successe durante la giornata, cercare di scusare gli altri, prendersi le proprie responsabilità e soprattutto "non fregarsi".
Uno, insomma, può fregarsi quando va a scuola, se è fortunato, con gli amici, nei campi o nelle miniere a lavorare, perfino di sotto in cucina: ma fregarti quando sei a letto, da solo, prima di addormentarti non si può.
Questo è l’approccio fondamentale alla vita per Gica. L’ha imparato a due anni e rimane ancora valido: uno non si può "fregare".

Gica è rumeno, arrivato in Italia con tante speranze.

È entrato pure lui dentro di me, ma a differenza degli altri non se ne sta seduto su una poltrona, in uno scomparto, ma è nel corridoio, appoggiato ad un finestrino, a guardare fuori, a guardare niente, intento nel suo pensare.

Gica ha speranze, ma è deluso dell’Italia.

È consapevole a modo suo che la Romania è in grado di macinare tranquillamente il negativo di un’intera vita. Lo spazio è talmente abnorme, entri in una dimensione in cui la qualità delle cose è di per sé qualità.
C’è tanto cielo, c’è tanta aria, tanta terra, tanta acqua.
Ma questo "tanto", che nel mondo occidentale Gica identifica con un carattere negativo, con il "troppo", là, in Romania, rimane il "tanto", che è il qualcosa da cui puoi attingere sempre, senza che te ne manchi mai.

Gica, però adesso è in Italia, senza permesso di soggiorno.

È diretto a Milano, senza un motivo particolare, in cerca di "qualcosa".

Porta con sé qualche cencio, chiuso in un borsone plastificato marcato "falsamente" Lotto, un vecchio secchio di plastica di un azzurro sbiadito ed una specie di spazzolone.

Gica fa il lavavetri ai semafori.
Gica è una persona colta.
Ma seppur deluso, almeno questa sera Gica è eccitato, e spera, spera…



Fernando, trentaquattrenne, napoletano, laureato in ingegneria, disoccupato.
È salito dentro di me per Milano.
Ha un colloquio di lavoro all’interno di un’azienda.
La solita cosa capitatagli per quattro o cinque volte al mese negli ultimi sei anni.

Ha deciso di mollare la famiglia.
Dopo dieci anni.
Ha lasciato la moglie, stanco e quasi umiliato da uno scambio impari d’amore, dell’atteggiamento apatico, quasi volto a tradire di Roberta, la sua donna, la sua ex donna.

Vagamente somigliante ad Humphrey Bogart, che ha deciso di dare un taglio netto, di lasciare la sua famiglia quasi medio borghese, la moglie, i figli, il suo essere socialista prima e reazionario poi.
Un perfetto "conformista", insomma.

Da questa sua decisione è partito un viaggio a ritroso nei ricordi e nelle delusioni.
Il corpo sta per fare un passo in avanti e la mente ne fa duemila indietro. Prima di una non sperata virata o di un definitivo cambio di rotta.
Non ricorda neanche più la sua ultima notte fra le mura di casa. Non ha sogni, ha paura di essere démodé e la cosa lo rende ancora più lieve, apatico, conformista e rassicurante.
Non ha un’ombra di ideale.
Vuole nient’altro ciò che "gli altri" vogliono.
Non ha neppure quel placido senso di sicurezza che ti dà il ficcare il naso nei bei tempi andati di qualcun altro.
È arrivato persino ad essere stanco, ad odiare quasi, la parte più "bassa", bella e visceralmente napoletana della napoletanità.
Ha quasi dimenticato le sue origini.
La sua espressione esprime palesemente una sorta di "rifiuto" per Napoli, per i suoi aspetti "scomodi" che la rendono talmente affascinante.

Meglio lasciar perdere questi discorsi, stasera Fernando non è eccitato e non spera, non spera.



Sono passati tre giorni da "Stasera".
Sono tornato a Milano altre due volte.
Ognuno degli ospiti delle mie viscere è sceso ed ha affrontato le proprie aspettative o ciò che la vita in quel determinato momento ha imposto loro.


Julian ha suonato innanzi ai tizi della Cory come un forsennato.
Ha suonato con la Lazarus Blue’s Band come mai prima d’ora.
Hao suonato una versione sempre più figlia dei fiori di "The passenger" di Iggy Pop.
Ha avvolto se stesso in un’atmosfera magica e lisergica, di quelle che ti ricordano gli anni settanta.
La sua musica "contro per forza" è stata giudicata troppo "canonica" dai pareri superficiali dei tizi medesimi.
Che cosa assurda: canonica la sua musica, la sua espressione.
Povero Julian.
Lui che ha sempre tentato "involontariamente" a ghettizzarsi.

Niente contratto.

I suoi pseudo amici musicisti hanno lascieranno la band, lavoreranno in società all’interno del loro negozio di strumenti musicali.

La Lazarus non esisterà più.

La moglie lo lascierà per un altro, stanca del suo girovagare e del suo sognare e porterà con sé Boogie.
Disoccupata.
Sempre.
Ma forse felice.
Soltanto forse.
Julian l’amerà ancora.
L’amerà per sempre.
Julian avrà una nuova band adesso.
E suonerà ancora come un forsennato, sempre luccicante di sudore, come i lustrini che invadono la sua eterna camicia gialla.



Betty camminava in stazione.
È stata investita da un carrello portapacchi.
Le si è spezzato un ginocchio ed è stata ricoverata in ospedale.
Operata d’urgenza, non ha sostenuto il provino, purtroppo per lei fondamentale.
Sarebbe divenuta una "vera" modella.

Ora Betty ha sposato il tipo che se ne sta in disparte, con gli occhiali spessi ed una collezione di insetti a casa, quello che ti parla del sistema solare.

Sogna di ottenere un’altra, forse ultima possibilità. Ha ancora paura delle crescita delle sue tette.
Non avrà mai un bimbo.
È sterile Betty.
Morirà, divorata dal cancro, fra dieci anni.



Pablo e Rina sono stati arrestati.
A Piazza San Babila hanno preso le difese di un rumeno, Gica, clandestino come loro, oltraggiando un vigile urbano.

Fermati e identificati, saranno estradati in Spagna e rinchiusi in carcere, in isolamento, in celle senza luce solare.

Rhuno sarà affidato ad un istituto religioso.

Pablo, servendosi del tacco del proprio scarpone, inciderà, in lingua basca, sul muro bianco giallastro della sua nuova "dimora":

"A tutti coloro che variamente hanno ostacolato e boicottato il nostro lavoro ed i nostri ideali è indirizzata la più sincera gratitudine, per aver suscitato in noi le energie migliori".

Nelle anime di Pablo e Rina c’è e ci sarà ancora posto per Mingus, Biko, Sandino, Jara, Dante di Nanni, Guevara, Jarry Durruti,e per i milioni di fratelli e sorelle che non hanno mai avuto un posto o un nome, che non sono meno importanti, anche senza il fuoco dell’eroe, il sermone del perfetto.
Così come loro.



Gica si era appostato sotto un semaforo, in Piazza San Babila.
Fermato da un vigile urbano, portato in questura e picchiato.
Perché privo del permesso di soggiorno.
Perché extracomunitario.

Sarà rispedito in Romania, a bordo di uno di quei grossi aerei verde oliva.

Si trasferirà a Mosca.
A Mosca subirà lo choc più forte di tutta la sua vita nel vedere le signore di mezza età che per fare qualche soldo, come lui in Italia, vendono per strada e alle fermate del metrò le loro piccole cose fatte a mano: i centrini, i sottobicchieri.
Donne assolutamente uguali a sua madre o a sua zia: donne che hanno lavorato tutta una vita facendo l’operaia o l’astronauta e che si ritrovano, per una cambiata situazione politica, con una pensione che non basta nemmeno per fare la spesa un giorno.
Eppure, guardandole, Gica le vedrà vestite con una loro dignitosa eleganza, senza nessuno dei "segni" che in Occidente si è abituati attribuire alla povertà.

Gica conoscerà una ragazza, Ivana.
Dal primo giorno che entrerà in casa di Ivana, Gica vedrà una veccia signora, esattamente sua nonna, il bambino di casa…lui, i cani di casa,i suoi cani.

La vecchia signora gli dirà:

"Occorre essere attenti per essere padroni di se stessi, è necessario sempre un esame di coscienza, fondamentale per non fregarsi"…



Fernando ha sostenuto il colloquio.
Il suo conformismo ha colto nel centro tutto e tutti. Fernando è stato assunto.
Non è più disoccupato.
Non vedrà più la moglie ed i figli.
Con loro avrà solo un rapporto fatto di assegni mensili di mantenimento.

Fernando conoscerà una donna, conformista più di lui, con lei convivrà, a Milano, in un appartamento ben arredato, che gli sarà assegnato dall’azienda per cui lavora.

Non ha più paura di essere démodé, Fernando.
Continua a volere e vorrà nient’altro ciò che il sistema vuole.
Fernando, ha ed avrà una vita "normale", si sente e si sentirà realizzato, è e sarà felice, ma non spera, non spera e non spererà mai.

Mi sembra di vedere mio fratello che aveva un grattacielo nel Perù, voleva arrivare fino in cielo e il grattacielo adesso non l'ha più.
Fin che la barca va, lasciala andare
fin che la barca va, tu non remare,
fin che la barca va, stai a guardare
quando l'amore viene il campanello suonerà zum zum!



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Train & Spes   16/3/2005 21.45.13 (101 visite)   Franti
   re:Train & Spes   16/3/2005 21.53.43 (21 visite)   SicKgirl
      x SickGirl   16/3/2005 21.57.11 (18 visite)   Franti
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