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Nick: IrishKlan
Oggetto: Orwell, il genio del futuro
Data: 19/3/2005 18.34.5
Visite: 101

mi auguro qualcuno legga


La frase più bella che George Orwell abbia scritto risale al 1936: "Nella trincea cinque cose sono importanti: un po’ di fuoco, cibo, tabacco, candele e il nemico". A quel tempo lo scrittore-soldato era comunista, si trovava dalle parti di Alcubierre, combatteva con coraggio e scarsa perizia di fatti d’arme la guerra civile spagnola, arruolato nel Partito obrero de unificacción marxísta (Poum). Eric Arthur Blair (questo il vero nome di Orwell) nasce cento anno fa, il 25 giugno in India, a Motihari (Bengala), famiglia d’origine scozzese, il padre angloindiano impiegato all’India Civil Service (probabilmente addetto alla repressione dei traffici d’oppio). Non è povero, Eric, ma appartiene a quella piccola borghesia senza terra destinata a patire le frustrazioni inflitte dalla macchina coloniale britannica ai modesti funzionari dislocati nelle province di Sua Maestà. Una volta tornato in patria, nel 1907, il giovane Blair si stabilisce con la madre e due sorelle nel Sussex, s’iscrive alla Saint Cyprian School. Poi, dopo aver vinto una borsa di studio, entra nella prestigiosa public school di Eton sotto il magistero di Aldous Huxley. Per quattro anni alterna studi promettenti a grandi dosi di un complesso d’inferiorità nei confronti dei colleghi agiati e snob. La cosa non funziona e il ragazzo, sebbene da lui ci aspetti una carriera a Oxford o Cambridge, smette di studiare per arruolarsi nell’Indian Imperial Police. Siamo nel 1922: da qui a sei anni il futuro George Orwell familiarizza con l’incosciente durezza del colonialismo inglese in Birmania. Troppo, per uno che ha già deciso da quale parte stare: quella dei diseredati del mondo. È così che sceglie di tornare nel Vecchio Continente: trascorre qualche settimana a Londra, in una stanza fatiscente di Notting Hill, per stabilirsi poi a Parigi, nell’appartamento di un albergo del Quartiere Latino a metà tra il bordello e il ricovero per clochard. Nella capitale francese fa il lavapiatti, l’insegnante quando capita, il commesso in libreria, ma sopravvive solo grazie alla carità dell’Esercito della salvezza. L’esperienza da lumpen si protrae per diversi mesi, in un via vai continuo fra Londra e Parigi. Nel frattempo Eric proclama il suo socialismo, comincia a scrivere per Le Monde (primo articolo, il 6 ottobre del 1929), s’immerge nella narrativa del suo maestro Jack London. Ha il tempo di scrivere un paio di romanzi che gli vengono rifiutati (e che lui brucerà in preda allo sconforto), poi diventa all’improvviso Geroge Orwell quando, nel 1933, un piccolo editore manda in stampa il suo Down and out in Paris and London, resoconto spietato del suo recente vagabondaggio. Nello stesso anno, negli Stati Uniti esce Burmese days, romanzo autobiografico di denuncia dell’imperialismo britannico. Il trentenne Orwell divora scrivendo gli anni che lo separano dal 1936, si fa un nome nel paesaggio del giornalismo impegnato contro povertà e sfruttamento economico (pubblicando libelli e reportage sul Left Book Club), poi si sposa con Eileen O’Shaughnessy. A quel punto è maturo per passare dalle parole ai fatti: la guerra civile spagnola diffonde i suoi miasmi in tutta l’Europa, Orwell si arruola con le brigate internazionali e va in Spagna per battagliare al fianco degli anarchici, i meno armati e più perseguitati fra gli oppositori di Franco. L’esperienza inizialmente lo esalta (scriverà in una lettera dal fronte: "Ho visto cose meravigliose e finalmente credo sul serio nel socialismo, perché finora non ci credevo"), ma ben presto i fatti incrudeliscono più delle parole e delle illusioni. Chi conosca anche solo il bellissimo film di Ken Loach Terra e libertà, sa bene in che modo gli anarchici di Spagna fossero considerati dalla megamacchina totalitaria stalinista, le cui propaggini arrivano in terra iberica e istigano al fratricidio. Ad avere la peggio, contro il potente e bene armato partito comunista, sono loro più che i franchisti. L’oleografia di classe svapora quasi subito, e Orwell si convince finalmente che la crudeltà dello sterminio abita sopra tutto fra i presunti fratelli comunisti. Ha giusto il tempo di soffrire le pene del guerriero senza guerra vera, di essere ferito alla gola e, scritto qualche pezzo per l’Observer, rientrare disilluso nella sua Inghilterra. Di quell’esperienza rimarrà il suo libro migliore, Omaggio alla Catalogna (1938), in cui la microfisica del polemos è riassunta dalla buona fede dei giovani male organizzati e nelle condizioni inusuali subite dallo scrittore prestato alle armi: "Indossavo corpetto e mutande di lana, una camicia di flanella, due maglioni, una giubba di lana, una casacca di pelle di porco, pantaloni di cotone, fasce, calze di lana pesante, stivali, un grosso impermeabile, una sciarpa, guanti di cuoio foderati e un berretto di lana. Tuttavia tremavo come una gelatina". La novità è che Orwell torna dalla Spagna fieramente anticomunista, e proprio nel momento in cui, fascismi a parte, mezza europa parteggia per Mosca credendo di solidarizzare con la causa del proletariato. Da quel momento la battaglia prosegue all’insegna della denuncia, della spietata ironia antitotalitaria. La Seconda guerra mondiale lascia a Orwell la certezza di non poter combattere contro Roma e Berlino per via delle ferite catalane, ma sopra tutto gli regalerà l’ostinatissima tubercolosi che lo condurrà alla morte prematura. Ad aggravare il suo stato d’animo, dopo aver steso alcuni saggi su Charles Dickens e Henry Miller (più un pamhplet d’intonazione social-nazionalista), l’impossibilità di pubblicare durante il conflitto il suo splendido Animal Farm, famosissima parodia della scalata al potere dei porci-rossi-sovietci, osteggiata dall’establishment britannico impegnato in un’imbarazzante alleanza con Stalin. Bisognerà attendere la fine delle ostilità (1945) per vedere in libreria La fattoria degli animali e scoprire che secondo Orwell "ogni riga va spesa contro il totalitarismo". La lezione viene definitivamente eternata nel successivo Nineteen Eighty-Four (finito di scrivere nel ’48 ma pubblicato un anno dopo), capolavoro di letteratura antiutopistica pari al Brave New World (1932) del maestro Huxley o al più attempato Noi di Evgenij Zamiatin (1920). È così, grazie a 1984, che Orwell entra nel Parnaso della letteratura mondiale, il suo nome si metamorfizza nell’aggettivo che esemplifica un universo di repressione brutale, psicopolizia, finzione, controllo capillare (solo molti anni dopo sarebbero arrivati gli studi del Michel Foucault di Sorvegliare e punire sul Panopticon di Bentham). Il coraggio nella denuncia costringerà Orwell a guardarsi le spalle come Winston Smith (Ernest Hemingway gli presterà una Colt 38 perché si difenda dalla "vendetta stalinista"), il suo carattere umbratile lo obbligherà al progressivo isolamento. Dopo la morte della moglie (vittima trentanovenne di un’isterectomia sciagurata) e l’aggravarsi della tisi, Orwell ripara nell’isoletta scozzese di Jura assieme alla sorella più giovane e al di lei figlio adottivo. Aspetterà che il male invada i polmoni, vivendo gli ultimi mesi come aveva combattuto in Spagna: orgoglioso, introverso, senza acqua calda. Gli ultimi giorni li trascorre in un sanatorio londinese dove, quarantaseienne, muore il 21 gennaio del 1950. Tre anni dopo toccherà all’odiato Stalin.
cos'è un comunista? Uno che ha letto Marx e Lenin.
Cos'è un ANTICOMUNISTA? Uno che ha capito Marx e Lenin (Ronald Reagan)



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