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Nick: Saussure
Oggetto: L'importanza della parola
Data: 17/2/2003 15.59.22
Visite: 20

Capita sovente di sentir definire l'atto linguistico ben concepito, in termini processuali, come irrilevante, pomposo, manifestazione di presunzione ed inutile ostentazione di cultura. La critica, ovviamente, è fatta sempre ed esclusivamente (prove empiriche alla mano) da coloro i quali, riguardo ad espressione (e di certo anche riguardo a contenuti) sono molto poveri. Ma io, essendo così follemente innamorato della logica, della dimostrazione formalmente ben costruita, andrò oltre, e nonostante il pulpito da cui proviene la predica non sia propriamente attendibile, andrò a saggiare le possibili argomentazioni a sostegno, o a sfavore della loro tesi.

-Contro la mia tesi- "l'espressione dei contenuti non deve avvenire obbligatoriamente tramite codici complessi (meglio: l'utilizzo fattualmente complesso di un codice "potenzialmente" complesso), per esprimersi basta conoscere l'essenziale, la base grammaticale della propria lingua, sufficiente a farsi comprendere dagli altri partecipanti all'evento comunicativo"

-A favore della mia tesi- "la storia ci consegna che: ad una primitività (naturalità) dello stato linguistico, corrisponde una primitività dei contenuti espressi. Questo si riflette nella costruzione di molte lingue pidgin e creole, nel linguaggio del neonato, come in quello degli antropoidi. Ad una pluralità di funzioni deve necessariamente corrispondere una pluralità di forme. Ad una povertà di forme, deve necessariamente corrispondere una povertà di contenuti processibili (riferendomi ancora una volta ai bambini, e in queto caso alle teorie di Slobin). Se è vero (come è vero) che l'indistinto semantico (che in questo caso deriva da quello grammaticale) dà luogo ad incomprensioni, pone erroneamente una base di presupposizione (della quale l'interlocutore deve essere a conoscenza, pena:la non comprensione dell'atto espressivo) e causa fraintendimenti, è anche vero che inevitabilmente la chiarificazione di tali errori dovrà essere corretta tramite ulteriori operazione esplicative, con conseguente perdita di: eleganza nell'esposizione, tempo totale relativo all'atto linguistico, credibilità da parte del/degli interlocutori, trasparenza semiotica.

Mentre i primi quattro aspetti (ulteriormente estendibili) non necessitano spiegazioni, vorrei addentrarmi brevemente in quello riguardante la trasparenza semiotica del sistema di segni che utilizziamo. Riguardo all'aspetto del termine canonicamente definito, può essere d'aiuto qualunque buon trattato di semiotica. Non mi dilungherò dunque in questo mio discorso su tale aspetto, indicando (per chi non ne fosse a conoscenza) che si riferisce alla univocità di un segno, in questo caso linguistico, mentre lo farò relativamente ad un altro lato della mancata trasparenza semiotica. Quello etico.

Per far questo poniamoci nei panni del nostro interlocutore. Fino a che punto siamo in diritto di pretendere che: egli debba "decifrare" quello che noi stiamo cercando di comunicargli, ricondurre le nostre espressioni ad un contesto enciclopedico che con ogni probabilità non conosce, sforzarsi di designare il nostro discorso nella sua parzialità o totalità (riferendosi quindi alla vettorialità espressiva), chiederci di spiegare ulteriormente il senso (nel migliore dei casi) o addirittura la forma grammaticale (con delle vere e proprie frustrazioni metalinguistiche!) dei nostri enunciati ?

Ecco che ponendo il discorso sotto un punto di vista etico, ci si accorge che la mancanza di chiarezza nell'atto espositivo, è anche una chiara mancanza di educazione nei confronti dei nostri ascoltatori. Un oltraggio alle regole di base di una conversazione soddisfacente, un oltraggio al principio di cooperazione (fin dal primo momento ho riscontrato nella terminologia Griciana un chiaro riferimento etico), un oltraggio ad almeno una (ma solitamente queste "infrazioni" amano accompagnarsi tra di loro...) delle implicature conversazionali di Grice (tra gli altri).

-contro la mia tesi- "l'utilizzo di termini tecnici rappresenta solo un pavoneggiarsi delle proprie conoscenze, una spiccata volontà di dimostrare agli altri che loro non sanno qualcosa. In breve, un'altra, inutile, saccente, ostentazione di cultura"

-a favore della mia tesi- "l'utilizzo di termini tecnici, oltre a favorire la coesività di un testo, a ridurre eventuali ridondanze (nominali, pronominali, verbali...), inchioda deitticamente il discorso su un campo pragmatico ben preciso. Ci rammaricheremmo tutti se vedessimo scritto come riferimento in un testo di fisica, invece che "meccanica quantistica" "quella cosa che studia quando una particella si muove...", o in un testo di cucina "marinare" "mettere a bagno in una pentola, col sugo preparato...".

Non pretendo di aver affrontato in maniera esaustiva l'argomento, tuttavia ho fatto luce su alcune questioni che potrebbero efficacemente confutare il punto di vista di coloro che, per ragione sociali, mancanza di cultura, o per motivi del tutto idiosincratici, amano affermare che, chi parla "colto" (in verità per loro colto è tutto ciò che non sanno e che non hanno la premura di imparare), chi utilizza termini tecnici, ed ama esprimersi chiaramente, con univocità e plurimorfismo simbolico, è un buffone, un ciarlatano.

Ferdinand.



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