Nick: Mush^Room Oggetto: HAI LA CAPA DI BOMBA??? Data: 14/4/2005 12.43.2 Visite: 177
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Le Tsantsas dei Jivaros del Prof. Vincenzo Mezzogiorno dalle collezioni del Museo anatomico dell'Università di Napoli
Il testo è stato messo dall'autore a disposizione degli studenti di Medicina.
Non è consueto trovare tra le collezioni di un Museo anatomico teste rimpicciolite (tsantas) di Indios Jivaros, un popolo cacciatore di teste dell'alta Amazzonia. Nel Museo anatomico, annesso all'Istituto di Anatomia della Facoltà di Medicina dell'Università Federico II di Napoli, si possono ammirare due di tali trofei donati al prof. Lambertini da un medico brasiliano che, intorno agli anni Cinquanta, fu ospite dell'Istituto. Il professore Lambertini, riconosciutane la rarità, provvide poi a farli sistemare, in bella mostra, in una bacheca del MUSEO. In Europa, simili trofei sono esposti al British Museum di Londra, al Museum fur Völkerkunde di Vienna e al Museo Etnografico di Basilea. Da quanto ho la responsabilità del Museo ho potuto constatare che la bacheca delle tsantsas è tra quelle che, sempre attirano la curiosità e l'interesse di quanti, addetti e non ai lavori, visitano il Museo. E, inevitabilmente, mi vengono posti quesiti sulla loro origine, sul loro significato e, in particolare, sull'arte della loro preparazione. Non essendo un etnologo di professione mi sono limitato a fornire risposte generiche e, con mio rammarico, approssimative perché i miei più immediati interessi scientifici e di lavoro non mi avevano consentito di approfondire i numerosi quesiti che una tsantsa pur pone alla curiosità di un anatomista. L'occasione mi è stata offerta dalla crescente lettura di un articolo del prof. Kleiss sui "cacciatori di teste" apparso sulla rivista Antomischer Anzieger, nel quale l'Autore ha, tra l'altro, descritto alcuni dettagli tecnici della preparazione delle tsantsas. Mi sono così convinto della opportunità di includere anche le tsantsas nella serie di monografie divulgative sulle collezioni del Museo anatomico di Napoli, sia per dare qualche notizia sulla popolazione dedita alla macabra caccia della teste, sia per divulgare la tecnica usata per ridurre le teste alle dimensioni di un pugno; teste che, sorprendentemente, mantengono intatti i lineamenti. Diversi libri, buoni e mediocri, sono stati scritti sui Jivaros, ma ho trovato eccellenti le monografie di Rafael Karsten e di Lewis Cotlow. Stupenda, poi, l'iconografia nell'"Ultima Amazzonia" di Walter Bonatti.
I JIVAROS Gli indios Jivaros abitano una sterminata e lussureggiante foresta che occupa la parte alta dell'Amazzonia e che si estende sino agli altipiani che precedono le Ande ai confini con il Perù e l'Ecuador. Questa popolazione si divide in shuara, i più acculturati, ed achuara, il nucleo più antico che abita l'interno della foresta. Quello degli achuara è rimasto il popolo bellicoso che resistette alla conquista inca e a quella spagnola. Nel 1600. in due giorni, gli achuara sterminarono oltre 20.000 coloni spagnoli. Non esistono, nel territorio dei Jivaros, agglomerati che possano definirsi villaggi. Una famiglia o un clan sino a trenta persone vive nella propria jivaria che può distare da un'altra anche quattro o cinque miglia. Ogni clan ha un leader, il curaka, l'uomo più coraggioso che ha più teste all'attivo. Presso i Jivaros il lavoro è suddiviso tra i due sessi in base al genere che ha l'oggetto da lavorare. Le donne cucinano perché il fuoco è di genere femminile; fabbricano vasi perché l'argilla è parte della Madre Terra; la manioca e quasi tutte le piante sono di genere femminile e, per questo, le donne lavorano la terra e preparano la nijimanche o chica, una bevanda acidula, densa e bianca, ottenuta dalla fermentazione della manioca dopo averla prima masticata e poi sputata in grandi orci. Il cotone, è di genere maschile e tocca agli uomini filarlo e tesserlo; la fibra è di genere maschile e, perciò, sono gli uomini a intrecciare i cesti i quali, a loro volta, essendo di genere femminile, vengono portati dalle donne. Generalmente non allevano animali domestici se non il cane, utilissimo per molti tipi di caccia e, pertanto, allevato e tenuto con molta cura. E non sorprende vedere una donna allattare, assieme al figlioletto, anche un cucciolo di cane nel caso che questo rimanga orfano di madre. Profondi conoscitori di veleni e di medicine, possono usare le loro conoscenze per uccidere o per guarire. La malattia, se non ha una causa facilmente individuabile, non è uno stato naturale, ma è considerata come una offesa all'ordine delle cose e non può che essere stata intenzionalmente provocata da un nemico. È lo stregone, il wishinu o brujo, che indica il reo del maleficio, poiché tra i suoi ruoli vi è quello primario di individuare le varie entità maligne che causano malattie e sciagure. Questi ignudi figli della foresta, dai volti glabri e spesso dipinti, vivono in un constante stato di diffidenza e di sospetto. Si può dire che vivano in un incessante stato di guerra endemica. Le guerre sono agguati, catene di vendette che si tramandano di generazione in generazione. La vendetta è una sola, la morte. Una morte che viene preparata per anni, pazientemente, aspettando l'occasione opportuna. Allora si organizza un agguato e la vittima, quando meno se lo aspetta, viene uccisa con l'unico scopo di averne tagliata la testa.
CACCIATORI DI TESTE La domanda perché un uomo deliberatamente taglia la testa a un altro uomo può avere risposte diverse, ma la pratica di una tale barbarie trova riscontro in tutti i popoli fin dai tempi remoti. Già in tempi preistorici dobbiamo presupporre decapitazioni come lo mostrano scoperte paleolitiche in Baviera, ove teste tagliate con cura si trovano ad una certa distanza dai corrispondenti corpi (Kleiss). Nell'antichità, presso gli Assiri, era normale tagliare le teste dei nemici sconfitti e portarsele come trofei di vittoria oppure come dono per gli dei. Usanze basate su queste pratiche le troviamo nei poemi epici in cui la componente magico-rituale è adombrata da quella eroica. In tutte le epoche e in tutte le civiltà, le teste di malfattori decapitati o di nemici sconfitti erano mostrate pubblicamente sia impalate sulla punta delle lance, sia sui pinnacoli delle fortezze, sia ancora in gabbie appositamente costruite. Nel Museo anatomico di Napoli si conservano crani di delinquenti giustiziati che, per molti lustri rinchiusi in graticci di ferro, erano rimasti appesi alle mura del Tribunale della Vicaria. Se alla base di queste decapitazioni possiamo trovare motivazioni rituali, eroiche, di potere e di giustizia, altro significato hanno quelle dei cacciatori di teste, una pratica in passato assai diffusa fra le tribù primitive di vastissime zone dell'Indonesia, dell'Africa e delle due Americhe. Per gli indigeni delle Isole Salomone motivo della barbara caccia era la credenza che i nemici decapitati continuassero a vivere acefali anche nell'aldilà. Parecchie tribù della Nuova Guinea e soprattutto gli Alfuri della zona olandese praticarono la caccia alle teste con l'unico scopo di rientrare trionfalmente al villaggio con le teste dei nemici uccisi per farne il centro di una vesta per la vittoria. La caccia alle teste fu anche praticata, su larga scala, da alcuni popoli dell'Asia sud-orientale. Presso i Daiaki di Borneo si usava custodire in casa crani conquistati per poi deporli nella tomba di un defunto, affinché l'anima del decapitato servisse come uno schiavo il suo vincitore nell'altro mondo. Si credeva anche che l'accesso al regno dei morti veniva rifiutato all'uomo che non avesse conquistato almeno una testa. In Africa, la pratica della caccia di teste è stata molto meno diffusa, tuttavia gli indigeni della Costa della Guinea usavano i crani-trofeo dei nemici uccisi come tazze e numerose tribù dell'Africa occidentale ornavano con crani-trofeo gli strumenti musicali e, soprattutto, le lunghe trombe e i tamburi che servivano a infondere coraggio e furore bellico. Nella Nigeria settentrionale, dopo la conquista di una testa, l'intera tribù festeggiava il vincitore per parecchi giorni. Nell'America meridionale, presso alcune tribù (Macaco, Chiriguani, Guayacurù, Guaranti e Araucani) veniva attribuita la vittoria alla parte di colui che per primo riusciva a tagliare la testa di un nemico e ad issarla sulla punta della lancia. Il nemico interpretava questa visione come una prova dello sfavore degli dei e accusava partita persa. Tutte queste popolazioni attribuivano valore di trofeo alla testa intera. Tagliata la testa, veniva asportato il contenuto endocranico attraverso il foro occipitale. La testa, dopo ripetute immersioni in un miscuglio d'olio vegetale e di tintura rossa d'urucu (Bixa orellana) veniva affumicata per qualche giorno o lasciata seccare al sole. Ai capelli venivano annodate cordelline fittamente guarnite di penne rosse e nere. Cacciatori di teste si troverebbero, ancora oggi, in quelle parti del mondo ove le proibizioni dei governi hanno poco effetto nella giungla. È il caso dei Jivaros che in quest'arte crudele si distinguono perché la loro "specialità" sta nel rimpicciolire le teste. Queste teste rimpicciolite o tsantsas sono uniche nel loro genere: si tratta della pelle della testa di un uomo adulto ridotta con abilità sconcertante e attraverso numerose operazioni al volume di un pugno. Le labbra vengono cucite con numerosi lacci di fibre le quali formano un ciuffo penzolante della stessa lunghezza della capigliatura. Se cerchiamo di capire la mentalità di questi Jivaros che tagliano la testa ad un nemico ucciso, bisogna convenire che non si tratta di furia sanguinaria, ma di una forma di spiritualità profondamente ancorata. Come il cannibale mangia parti del cadavere ( dove la fame ha solo un ruolo secondario) così il trofeo in forma di testa dà al proprietario certe forze come il coraggio, la potenza che erano propri della vittima. In questo modo il trofeo può anche diventare un talismano per tutto il clan, il che spiega tutte le cerimonie connesse con la produzione e l'accettazione da parte del clan di una testa rimpicciolita. La credenza che spinge un Jivaro alla caccia della testa di un nemico è una vendetta che serve a placare lo spirito della persona da vendicare. Solo così lo spirito di questa persona potrà riposare in pace anziché aggirarsi intorno tormentato. È questa credenza religiosa che continua a perpetuare la guerra tra i Jivaros. Questa è la ragione perché un Jivaro taglia la testa di un altro Jivaro, la riduce alle dimensioni di un pugno e, infine, danza intorno ad essa. Il solo guaio dei Jivaros è quello di credere a tutta una serie di superstizioni: i Jivaros non si chiedono perché un albero cadendo uccide un fratelli. Lo sanno: gli spiriti maligni del wishinu nemico ne hanno la colpa. Non si domandano perché un fiume straripa. Lo sanno: sono gli spiriti maligni dell'acqua. I Jivaros temono solo l'inguanchi, lo spirito del male. Il loro mondo abbonda di spiriti, alcuni buoni ed altri maligni. A tutte le cose che esistono nel mondo, alberi, animali, ucelli, fiumi, pesci, farfalle, formiche, nubi, terra, nonché alle cose che splendono in cielo, corrispondono altrettanti spiriti. Perciò è arduo scoprire che cosa può preoccupare un Jivaro. Il guerriero che ha tagliato la testa deve badare a che lo spirito del nemico non gli faccia del male, perché il suo spirito ha sede nella testa, e soprattutto nei capelli. Naturalmente esso cerca di rivolgersi contro questo spirito e, perciò, fa di tutto per indurlo ad obbedire e ad aiutarlo. Pianta la tsantsa su una lancia conficcata nel terreno, la stessa lancia con la quale il nemico è stato ucciso e, insieme agli altri, danza intorno puntandole contro la lancia in modo da spaventare lo spirito e mostrare come lo ha ucciso. Anche le donne danzano e cantano. Le altre, quelle della jivaria nemica se ne stanno lì vicino e piangono. Quando non vengono catturate donne, si incaricano quelle della propria jivaria di fare la loro parte e di piangere a calde lacrime. Il tagliatore della testa deve digiunare, non può mangiare carne di grossi animali e grandi pesci, perché lo spirito del nemico può entrare in loro e da lì in lui. E non può avvicinare nessuna delle sue mogli; per sei mesi deve osservare la più completa astinenza. Solo dopo può indire la grande cerimonia della tsantsa e sconfiggere lo spirito del suo nemico. Nessun jivaro uccide un non jivaro se non vi è costretto. Né uccide per cause economiche; essi odiano la terra dei loro nemici abitata com'è da spiriti maligni; né desiderano niente che sia appartenuto al nemico, se non la sua testa e, in qualche caso, le sue più giovani spose. Secondo autorevoli antropologi ed etnologi la mostruosità della caccia alle teste deve considerarsi una degenerazione dell'antichissima concezione animistica che poneva nel cranio la sede dell'anima. Nella sua evoluzione, il primitivo culto del cranio è andato spaventosamente alterandosi. Gräbner afferma con chiara concisione: "il culto del cranio ha generato la mostruosità della caccia alle teste". Si è passati dalla concezione che in possesso dei crani - considerati quali sede della forza del defunto e pertanto venerati come preziose reliquie - conferisce potere e prestigio alla casa dei maschi e, conseguentemente, al'intero villaggio. Perché, quindi, non aggiungere alla collezione come trofei o talismani i crani dei nemici abbattuti? Perché, infine, non fare della caccia alle teste un obbligo cui devono sottostare tutti i canditati alle società guerriere o coloro i quali aspirano a salire un gradino sociale? Nello studio del culto del cranio e delle sue atroci degenerazioni, si registra come siano stati escogitati tutti i mezzi possibili per conservare le teste: fumigazione, imbalsamazione e scarnificazione. Un più moderno orientamento storico-culturale dell'etnografia sostiene che il culto del carnio e la caccia alle teste si siano sviluppati nei territori in cui regnava in modo esclusivo o preponderante il matriarcato. Per conquistare la posizione perduta e il prestigio tramontato, gli uomini ricorsero alle azioni belliche e ai colpi di mano. Il numero dei prigionieri e le teste dei nemici abbattuti costituivano la prova del loro coraggio. In realtà, questa orribile pratica guerriera è oggi quasi completamente scomparsa con la sola eccezione delle popolazioni dell'alta Amazzonia.
TECNICA DEL RIMPICCIOLIMENTO DELLE TESTE Su questo argomento si possono leggere descrizioni talvolta contrastanti, talaltra fantasiose per molte ragioni che possono rendere poco attendibili testimonianze di osservatori anche in buona fede ma che, il più delle volte, hanno raccolto descrizioni di seconda mano. Rarissimi sono gli esploratori che sono riusciti a penetrare nella profonda foresta amazzonica e ad avere l'opportunità di documentarsi personalmente. Tra i pochi vanno ricordati Rafael Karsten e Lewis Cotlow. In particolare, Cotlow è stato testimone di una spedizione di questi cacciatori di teste Jivaros e ha potuto annotare scrupolosamente sia i raccapriccianti particolari dell'agguato, sia la macabra fase della lavorazione delle tsantsas e, sia, ancora, la danza della vittoria. Il successo di un assalto alla jivaria nemica è dovuto principalmente alla sorpresa che viene preparata accuratamente per cogliere impreparati i nemici ed ucciderne il maggior numero possibile. Le donne e i bambini, se non oppongono resistenza, vengono risparmiati e tratti prigionieri. Interessante è notare che non ci sono teste rimpicciolite di donne perché, secondo i Jivaros, le donne non hanno anima. Terminato l'assalto e raccolti i nemici uccisi, si dedicano immediatamente alla fatica del taglio delle teste. Scelgono i corpi dei nemici che si sono comportati più coraggiosamente nella battaglia e solo a questi recidono la testa alla base del collo. Di poi riprendono la via del ritorno, ciascuno curando con gelosia la sua macabra preda. Scelgono poi di accamparsi sulla riva sabbiosa di un ruscello ove ciascuno dà inizio alla lavorazione della testa. Con un affilato coltello di bambù viene praticato un taglio netto alla base della nuca alla sommità del capo e, avendo cura di proteggere i capelli, scoprono il tavolato osseo. Viene scollato rapidamente e con estrema prudenza l'intero rivestimento cutaneo del collo e della testa e, con particolare perizia, viene staccata la cute della faccia più aderente allo scheletro. Sono talmente abili che entro un quarto d'ora hanno completato l'operazione di scuoiamento e gettato via il teschio. Rovesciata la pelle. Le palpebre vengono cucite dall'interno; la pelle viene quindi nuovamente rivoltata. Con appuntiti aghi di chonta infilano le labbra con lunghe fibre. Poi, tenendo la maschera cutanea per i capelli, la pongono a bollire in un recipiente di creta contenente acqua e un succo di cortecce d'alberi e di una vite ricche in tannino, con effetto di un iniziale raggrinzimento della pelle e di impedire ai capelli di staccarsi. Dopo un paio d'ore di bollitura, la testa è gia ridotta a un terzo delle sue normali dimensioni. Intanto che si fanno arroventare dei ciottoli di varie dimensioni, si provvede a cucire con una fibra l'incisione posteriore della cute e così la testa di colui che soltanto poche ore prima era stato un uomo che minacciosamente insultava e si difendeva, è diventata una specie di sacco vuoto. Le ulteriori manovre rivestono un carattere magico allo scopo di allontanare la vendetta del morto dal vittorioso conquistatore della testa. La preparazione prosegue inserendo un primo ciottolo, più grande e caldissimo nell'apertura del collo e, tenendo la testa con ambedue le mani, lo si fa roteare rapidamente all'interno ottenendo la cauterizzazione di eventuali brandelli di carne e l'asciugamento della pelle e questo fino al raffreddamento del ciottolo. L'operazione si ripete con un altro ciottolo rovente e un po' più piccolo. Durante questa seconda operazione, con una pietra piatta e liscia non riscaldata, si comincia a sfregare la superficie esterna del viso in modo da ridare ai lineamenti le forme primitive. È questa una fase assai delicata che richiede molta attenzione perché il disegno perfetto dei lineamenti è prova della bravura e della riuscita dell'opera. Infine viene versata sabbia calda nella testa facendola rotolare vorticosamente, fino a quando la sabbia appena raffreddata viene sostituita con altra calda in modo da penetrare ogni piega all'interno della tsantsa. In questa fase si bada anche a raschiare la superficie interna per asportare residui tessutali combusti. Persistendo in queste manovre si riesce a ridurre la testa fino a un quarto del volume primitivo e ad indurire notevolmente la cute che si frega poi ripetutamente con carbone di legna per conferirle un colore bruno scuro. La capigliatura è considerata l'elemento più prezioso del trofeo e richiede, pertanto , grandi cure. Data l'usanza dei Jivaros di non tagliarsi i capelli, questi raggiungono , anche nelle tsantsas, una lunghezza che, talvolta, supera i 60 centimetri. Terminata l'operazione, viene mandato avanti il più giovane dei guerrieri ad annunciare la vittoria e ad avvertire le donne perché tutto sia pronto per la danza della vittoria. Guerrieri armati di lance formano un cerchio intorno alla tsantsa e cominciano a danzare. Un canto ritmato dà il tono alla danza aumentando, man mano, in intensità e in volume. La danza dei primi guerrieri dura una mezz'ora. Poi, stanchi, vengono sostituiti da altri i quali lodano il valore del vincitore aggiungendo minacce per allontanare lo spirito del male. Tutto ciò conferisce a quei guerrieri sentimenti di emozione e di asprezza. Le donne si riuniscono in cerchio e cominciano a danzare anch'esse, limitandosi ad esprimere gioia perché i loro uomini sono tornati a casa dopo una battaglia in cui avrebbero potuto ssere uccisi. I fortunati cacciatori poi digiunano a lungo prima di indire la grande cerimonia della tsantsa che dura quattro o cinque giorni. E, forse, pochi mesi dopo, il nemico li potrà attaccare prendendo, a sua volta, le loro teste.
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