Vai alla freccia - Homepage - BlogRoom - Mappa
Visualizza Messaggi.

Nick: Peppos
Oggetto: La favola della "guerra buona"
Data: 10/5/2005 10.4.54
Visite: 83

La favola della “guerra buona”


 


di Mickey Z
Realtà, falsa speranza o propaganda? La storia segreta della seconda guerra mondiale un conflitto di territori, potere, controllo, denaro e imperialismo


La seconda guerra mondiale è stata dunque una guerra giusta? La favola della “guerra buona” ha radici nella realtà, nella falsa speranza o nella propaganda?
Questo mito che perdura ancor oggi va ben oltre i barbecue del Memorial Day e i tremolanti film in bianco e nero trasmessi in TV a notte fonda. Secondo la storia ormai accettata da tutti, la seconda guerra mondiale fu un conflitto inevitabile, imposto a un popolo pacifico da un nemico sleale; questa guerra, allora e ancora oggi, ci è stata attentamente e consapevolmente venduta come una battaglia per la vita o la morte contro il male assoluto. Per gran parte degli americani, la seconda guerra mondiale non fu niente di meno che una serie di scontri diretti tra soldati in tenuta kaki, con prestazioni buone e cattive.

Le vite degli americani non furono sacrificate in una guerra santa per vendicare l’attacco di Pearl Harbor, né per porre fine all’Olocausto nazista, così come la guerra civile non fu combattuta per eliminare lo schiavismo. La seconda guerra mondiale fu un conflitto di territori, potere, controllo, denaro e imperialismo. Certo, gli alleati vinsero e, in definitiva, questa fu davvero una buona cosa, ma ciò non significa che agirono sportivamente. In questo testo verrà analizzato nel dettaglio con quanta slealtà si comportarono gli alleati, ma per ora saranno più che sufficienti le parole del Generale Curtis LeMay, comandante dell’operazione di bombardamento su Tokyo del 1945: “Suppongo che, se avessi perso la guerra, sarei stato processato come criminale. Fortunatamente, eravamo dalla parte dei vincitori”.

Mito n. 1: la seconda guerra mondiale è stata “buona”
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, la parola d’ordine era “patriottismo” e il rifiuto della realtà era all’ordine del giorno.

In realtà, se i ragazzi di ritorno a casa avessero avuto idea di cosa stava davvero succedendo, pochi di loro avrebbero avuto voglia di sorridere. E questa era la vera trovata geniale della propaganda sulla “guerra buona”: bugie e omissioni.

Diamo un’occhiata ad alcune cose che non ci sono state riferite a proposito della “generazione più grande”, ovviamente sempre continuando a sorridere.
Con ben poche eccezioni, la versione hollywoodiana della guerra evoca immagini del nobile uomo qualunque che combatte per la libertà e per l’onore senza mai porre domande. Guardare John Wayne o Tom Hanks che compiono il loro patriottico dovere aiuta a oscurare molte verità dei campi di battaglia, che potrebbero mettere in dubbio l’etichetta della “guerra buona”. Ecco alcune di queste verità:
• Almeno il 50% dei soldati statunitensi si rese colpevole di crimini in battaglia.
• Il 10%, se non di più, delle truppe americane, di tanto in tanto faceva uso di amfetamine.
• Alla fine della guerra, c’erano all’incirca 75.000 dispersi statunitensi, gran parte dei quali, grazie agli armamenti moderni, “erano stati fatti andare in fumo”.
• Solo il 18% dei veterani combattenti nel Pacifico dichiarò di essere “generalmente di buon umore”.
• La percentuale di esaurimenti nervosi (tra gli uomini regolarmente in azione per 28 giorni di seguito) viaggiava su punte del 90%.
• Nel 1994 circa il 25% dei veterani della seconda guerra mondiale erano ancora ricoverati negli ospedali perché colpiti da disturbi psichiatrici.
• Circa il 25-30% degli invalidi di guerra lo era in quanto affetta da problemi psicologici (in condizioni particolamente difficili, quel numero poteva raggiungere il 70 o l’80%).
• I problemi di natura mentale si riscontrarono nel 54% degli invalidi in Italia.
• Durante la battaglia di Okinawa, 7.613 americani morirono e 31.807 vennero feriti, mentre furono ben 26.221 i soldati che soffrirono poi di problemi mentali.

Per esempio, per coloro che rimasero in patria, i bei tempi andati non furono esattamente tempi d’oro. Un altro tassello che va ad aggiungersi alla più recente costruzione dell’immagine della “guerra buona” è la frottola della cosiddetta “generazione più grande”. Questa invenzione permette di acclamare quella generazione come unica portatrice dei valori tradizionali della famiglia, in realtà coloro che vissero durante la Depressione e la seconda guerra mondiale non furono diversi da noi.

Allo stesso modo, per quanto riguarda la leggendaria efficienza della produzione industriale in patria, i risultati sono contrastanti. Nonostante la favoletta dell’unità indiscussa dei lavoratori, questi rimasero uniti quando si trattava di richiedere riforme dei luoghi di lavoro. Durante gli anni di guerra ci furono circa 14.000 scioperi che coinvolsero quasi sette milioni di lavoratori.

In quei giorni un altro elemento, altrettanto onnipresente quanto le agitazioni sindacali, fu la peculiare forma artistica dei manifesti di guerra. Questi poster colorati a foglio unico, distribuiti dall’US Office of War Information (Ufficio USA per l’informazione bellica, NdT), demonizzavano il nemico, santificavano “i nostri ragazzi” e contribuivano a restaurare l’immagine dell’America imprenditoriale (ormai a brandelli): il tutto in nome dell’incremento della produzione, dell’eliminazione della Depressione e della vendita della guerra a un pubblico indubbiamente sospettoso.

Mito n. 2: la seconda guerra mondiale era inevitabile
Per credere a questo mito, si deve accettare l’ascesa del fascismo come se fosse un’inevitabile forza della natura. Tuttavia, esaminando un po’ più da vicino le decisioni prese da molti dei “bravi ragazzi”, si ricava un nuovo punto di vista.

Quando William E. Dodd, Ambasciatore statunitense in Germania negli anni ’30, dichiarò che “una combriccola di industriali statunitensi sta… lavorando a stretto contatto con i regimi fascisti di Germania e Italia”, non stava scherzando.
“Molte figure di spicco di Wall Street e dell’establishment politico statunitense avevano mantenuto stretti legami con le loro controparti tedesche fin dagli anni ’20, alcuni di loro addirittura imparentandosi o facendo investimenti congiunti”, dice il reporter Christopher Simpson.

Un benefattore rappresentante della prodigalità dell’America industriale fu il banchiere tedesco Hermann Abs, il quale era abbastanza vicino al Führer da riuscire a ricevere in anticipo la comunicazione che la Germania stava progettando di annettere l’Austria. In maniera espressiva, alla sua morte, Abs venne prudentemente lodato dal New York Times come un “collezionista d’arte”, la cui carriera finanziaria “si interruppe dopo il 1945”. Il pezzo del Times citò in maniera enigmatica David Rockfeller, il quale avrebbe definito Abs “il banchiere più importante dei nostri tempi”.

I Rockfeller non erano i soli ad ammirare l’inventiva nazista. Tra le principali industrie statunitensi che investirono in Germania nel corso degli anni ’20 c’erano Ford, General Motors, General Electric, Standard Oil, Texaco, International Harvester, ITT e IBM – tutte più che felici di vedere andare in frantumi il movimento sindacale tedesco e i partiti della classe operaia. Per molte di queste compagnie, le operazioni in Germania continuarono durante la guerra (anche se ciò comportava il ricorso alla forza lavoro di schiavi in campi di concentramento), con il palese sostegno del governo statunitense.

Mito n. 3: gli alleati combatterono per liberare i campi della morte
Gli apologeti possono fingere che i dettagli dell’Olocausto non fossero conosciuti e che, se lo fossero stati, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti ma, come spiega Kenneth C. Davis, “ancora prima che l’America entrasse in guerra, il trattamento nazista degli ebrei esigeva qualcosa di più di una velata condanna diplomatica. È chiaro che Roosevelt sapeva quello che gli ebrei erano costretti a subire in Germania e nel resto d’Europa, e dell’eliminazione metodica, sistematica degli ebrei durante l’Olocausto. Chiaramente, salvare gli ebrei e gli altri gruppi che Hitler stava distruggendo in massa non era una questione critica per i pianificatori bellici americani”.

La persecuzione tedesca e l’uccisione di massa degli ebrei dell’Europa orientale erano senza dubbio un segreto davvero mal custodito, e gli Stati Uniti con i loro alleati non possono onestamente, né realisticamente nascondersi dietro la scusa di essere stati all’oscuro di tutto. Persino quando i nazisti stessi lanciarono per primi la proposta di trasportare via nave gli ebrei dalla Germania e dalla Cecoslovacchia ai paesi occidentali o anche in Palestina, le nazioni alleate non riuscirono mai ad andare oltre le negoziazioni, e i piani di salvataggio non si materializzarono mai.

Mito n. 4: l’attacco a Pearl Harbor colse tutti di sorpresa

Il Giappone, specialmente dopo l’attacco a Pearl Harbor, si era guadagnato la reputazione di paese “traditore”, etichetta che sembrò giustificare molti crimini di guerra e che durò anche dopo il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. Tuttavia, prima di accettare un tale stereotipo razzista qualcuno avrebbe dovuto almeno fornire qualche prova di questo tradimento.

In quello che è ora ricordato come il mitico discorso della “Data dell’Infamia” gli atti diplomatici rivelano qualcosa di ciò che il dottor Roosevelt tralasciò di dire ai suoi pazienti facilmente ingannabili:

14 dicembre 1940: Joseph Grew, Ambasciatore statunitense in Giappone, invia una lettera al Presidente annunciando che “mi sembra sempre più chiaro che saremo costretti a mettere le carte in tavola [con il Giappone] un giorno o l’altro”;
30 dicembre 1940: Pearl Harbor è considerato un bersaglio così probabile per attacchi da parte dei giapponesi che il Contrammiraglio Claude C. Bloch, Comandante del 14esimo Distretto Navale, scrive un memorandum intitolato “Situazione relativa alla sicurezza della flotta e all’attuale capacità delle forze di difesa locale nel fronteggiare attacchi a sorpresa”;
27 gennaio 1941: Grew (a Tokyo) invia un dispaccio al Dipartimento di Stato: “Il mio collega peruviano ha detto a un membro del mio staff che le forze militari giapponesi, in caso di controversie con gli Stati Uniti, hanno progettato un massiccio attacco a sorpresa a Pearl Harbor, prevedendo di utilizzare tutte le loro strutture militari”;
5 febbraio 1941: il memorandum di Bloch del 30 dicembre 1940 scatena molte discussioni e fa sì che, alla fine, il Contrammiraglio Richmond Kelly Turner invii una lettera al Segretario alla Guerra Henry Stimson, nella quale ammonisce: “La sicurezza della Flotta Usa nel Pacifico di stanza a Pearl Harbor, e della stessa base navale di Pearl Harbor, è stata oggetto di un rinnovato studio da parte del Dipartimento della Marina e delle forze navali nelle ultime settimane… Se scoppierà la guerra con il Giappone, si ritiene possibile che si possa dare il via alle ostilità con un attacco a sorpresa alla flotta o alla base navale di Pearl Harbor… Personalmente ritengo che le probabilità di un enorme disastro alla flotta o alla base autorizzino, quanto più in fretta è possibile, a prendere ogni misura che possa aumentare la prontezza congiunta dell’Esercito e della Marina per opporsi a un raid della portata sopra menzionata”;
18 febbraio 1941: il Comandante supremo della Flotta Usa nel Pacifico, l’Ammiraglio Husband E. Kimmel, afferma: “Sento che un attacco a sorpresa a Pearl Harbor è una concreta possibilità”;
11 settembre 1941: Kimmel afferma: “Una forte flotta nel Pacifico è indiscutibilmente un deterrente per il Giappone – una flotta più debole può rappresentare un invito”;
25 novembre 1941: il Segretario alla Guerra Henry L. Stimson scrive nel suo diario personale che “il Presidente… ha troncato le relazioni con i giapponesi. Ha sollevato l’eventualità che abbiamo molte probabilità di essere attaccati [non più tardi di] lunedì prossimo, dato che i giapponesi sono noti per lanciare attacchi senza alcun preavviso”;
27 novembre 1941: il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito George C. Marshall rilascia un memorandum nel quale avverte che “un’azione futura dei giapponesi è imprevedibile, ma un’azione ostile è possibile in ogni momento. Se le ostilità non possono… essere evitate, è desiderio degli Stati Uniti che il Giappone compia apertamente la prima mossa”;
29 novembre 1941: il Segretario di Stato Cordell Hull, in reazione a un discorso del Generale giapponese Hideki Tojo una settimana prima degli attacchi, telefona a Roosevelt a Warm Springs, in Georgia, per avvertirlo “dell’imminente pericolo di un attacco giapponese” e per sollecitarlo a ritornare a Washington prima del previsto.

C’erano poi ancora razzisti tra i militari e all’interno del governo, incuranti di questi documenti, che mai si sarebbero immaginati che il Giappone potesse orchestrare un’offensiva così ben riuscita. Ben pochi occidentali prendevano sul serio i giapponesi, con i giornalisti che nei primi mesi della loro avanzata nel Sud-Est asiatico regolarmente facevano riferimento a loro chiamandoli “scimmie in kaki”. La metafora scimmiesca fu mantenuta anche in seguito. Quest’atteggiamento razzista continuò mentre le due parti si avvicinavano alla guerra, con conseguenze inaspettate.

Poco dopo l’attacco, con l’immagine di un nemico straordinariamente infido che si diffondeva per tutta l’America, l’Ammiraglio William Halsey – che di lì a poco sarebbe diventato il comandante della forze militari del Pacifico meridionale – dichiarò solennemente che, entro la fine della guerra, “dei giapponesi si sarebbe sentito parlare solo all’inferno”.

Mito n. 5: solo le nazioni dell’Asse commisero crimini di guerra

Nel teatro d’azione del Pacifico, il summenzionato Generale Curtis LeMay era a capo del 21esimo Comando Bombardieri. Traducendo in pratica l’idea di Marshall del 1941 di incendiare le zone più povere delle città giapponesi, nella notte tra il 9 e il 10 marzo 1945 i bombardieri di LeMay strinsero d’assedio Tokyo. Gli edifici in legno ammassati l’uno vicino all’altro furono investiti da 1.665 tonnellate di bombe incendiarie. In seguito LeMay ricordò che alle bombe incendiarie erano stati aggiunti degli esplosivi, per ostacolare e scoraggiare i vigili del fuoco. Si stimò che il numero di morti complessivo in una notte fu di 85.000, con 40.000 feriti e un milione di persone rimaste senza tetto.


Questo fu solo il primo episodio di una campagna di bombardamenti in cui vennero sganciate 250 tonnellate di bombe ogni 2,6 kmq, distruggendo il 40% della superficie nelle 66 città presenti sulla lista della morte (tra cui Hiroshima e Nagasaki). Le aree degli attacchi erano per l’87,4% zone residenziali.

Fino al maggio 1945, il 75% delle bombe lanciate sul Giappone fu di tipo incendiario. La campagna di LeMay, incitata con calore dalla rivista Time (nella quale si spiegava che “se debitamente incendiate, le città giapponesi bruceranno come foglie autunnali”), secondo le stime provocò la perdita di 672.000 vite umane.

Invece di negare tutto ciò, un portavoce della Quinta Divisione Aeronautica ridefinì “l’intera popolazione giapponese [come] un giusto bersaglio militare”. Il Colonnello Harry F. Cunningham chiarì la politica Usa senza mezzi termini:
“Noi militari non siamo certo qui per attutire i colpi o per allestire picnic domenicali. Stiamo facendo la guerra, e la facciamo nella maniera più tenace e assoluta, in questo modo possiamo salvare le vite degli americani, abbreviare l’agonia che la guerra rappresenta e cercare di portare una pace durevole. Intendiamo scovare e distruggere il nemico, dovunque lui o lei sia, nel maggior numero possibile, nel più breve tempo possibile. Per noi, non esistono civili in Giappone”.

Mito n. 6: le bombe atomiche lanciate sul Giappone erano necessarie

Anche se a Hiroshima e Nagasaki furono distrutte centinaia di migliaia di esistenze, i bombardamenti vengono spesso giustificati come una misura necessaria per salvare delle vite, le vite degli americani. Per quanto riguarda il numero delle persone che sono state salvate, sappiamo di alcuni soldati statunitensi che caddero vittime delle esplosioni; circa una dozzina o più prigionieri di guerra americani furono uccisi a Hiroshima, questa verità rimase nascosta per circa 30 anni.

In una dichiarazione ufficiale del 9 agosto 1945 “agli uomini e alle donne del Progetto Manhattan”1, il Presidente Truman confessò la speranza che “questa nuova arma possa essere in grado di salvare migliaia di vite americane”, permettendo di accantonare l’ipotetico piano di invasione delle isole giapponesi“. L’iniziale cifra di ‘migliaia’ utilizzata dal Presidente, tuttavia, chiaramente non rappresentò la sua ultima parola sull’argomento, se così si può dire”, fa notare lo storico Gar Alperovitz.

Nel giugno del 1945, il Presidente Truman ordinò ai militari statunitensi di calcolare il costo in vite americane per un attacco programmato in Giappone. Di conseguenza, la Joint War Plans Committee (Commissione per i Piani bellici congiunti, NdT) preparò un rapporto per i capi di Stato Maggiore, datato 15 giugno 1945, fornendo così il dato più vicino all’accuratezza che possediamo: 40.000 soldati uccisi, 150.000 feriti e 3.500 dispersi.

Mentre il reale conteggio delle vittime rimane ovviamente impossibile da definire, era ampiamente risaputo all’epoca che il Giappone aveva tentato per mesi di arrendersi, prima del bombardamento atomico. Un cablogramma del 5 maggio 1945, intercettato e decodificato dagli Stati Uniti, “dissipava ogni possibile dubbio che i giapponesi non fossero desiderosi di richiedere la pace”. Infatti lo United States Strategic Bombing Survey (Ufficio USA di rilevamento dei bombardamenti strategici, NdT) riferì, poco dopo la guerra, che il Giappone “con ogni probabilità” si sarebbe arreso prima della tanto discussa invasione alleata dell’1 novembre 1945, salvando così tutte le vite coinvolte.

Truman stesso annotò nel suo diario in maniera eloquente che Stalin sarebbe “entrato in guerra con i gialli il 15 agosto. Tanto peggio [sic] per i gialli quando ciò accadrà”. Chiaramente, Truman vedeva le bombe come un modo di porre fine alla guerra prima che l’Unione Sovietica potesse reclamare un ruolo di primo piano relativamente alla resa dei giapponesi.

Tuttavia, un anno dopo Hiroshima e Nagasaki, uno studio statunitense top-secret concluse che la resa giapponese fu dovuta più alla dichiarazione di guerra da parte di Stalin che alle bombe atomiche.

Mito n. 7: la seconda guerra mondiale fu combattuta per porre fine al Fascismo

Ancora prima che la CIA diventasse la CIA, si comportava in maniera dannatamente simile alla CIA.

Secondo Christopher Simpson – il giornalista che si è forse occupato più di ogni altro del tema del reclutamento statunitense di ex nazisti – il 16 agosto 1983 un rapporto del Dipartimento di Giustizia “ammetteva che un organismo dei servizi segreti Usa, noto come Army Counterintelligence Corps (CIC – Corpo di Controspionaggio militare, NdT), aveva reclutato l’ufficiale delle Schutzstaffeln (SS) e della Gestapo Klaus Barbie per attività di spionaggio, già all’inizio del 1947; ammetteva che il CIC lo avesse tenuto nascosto agli investigatori francesi che si occupavano di crimini di guerra; ammetteva di averlo fatto sparire dall’Europa in segreto per il ‘rotto della cuffia’ – una via di fuga clandestina – gestita da un prete che a sua volta tentava di fuggire dalle accuse di crimini di guerra”.
Il rapporto proseguiva dichiarando che gli agenti del CIC all’epoca non avevano idea di cosa avesse fatto Barbie durante la guerra (apparentemente, il fatto di averlo dovuto nascondere agli investigatori francesi non aveva fatto scattare alcun campanello d’allarme) e che Barbie era l’unico criminale di guerra protetto dagli Stati Uniti.

Persino Stephen Ambrose, storico ufficiale della seconda guerra mondiale, ha ammesso: “Il risultato fu che, nella loro prima grande impresa di politica estera durante la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti diedero il proprio appoggio a un uomo che rappresentava tutto ciò contro cui si erano scagliati Roosevelt e Churchill nella Carta Atlantica. Tanto quanto Goering o Goebbels, Darlan era l’antitesi dei principi per cui gli alleati dichiaravano di combattere”.

Darlan fu semplicemente il primo passo in un programma premeditato, teso a creare collaborazioni con famigerati criminali di guerra. “Sono un generale, capo del servizio segreto dell’Alto Comando dell’Esercito tedesco. Sono in possesso di informazioni della massima importanza per il vostro Comandante Supremo e per il governo americano, e devo essere immediatamente condotto dal vostro superiore”.
È con queste parole che il Generale Reinhard Gehlen, il famoso capo del controspionaggio di Hitler sul fronte orientale, iniziò i suoi rapporti con l’Office of Strategic Services (OSS – Ufficio per i Servizi Strategici, NdT) e la comunità in erba dei servizi segreti Usa. Quando l’OSS fu trasformato nella Central Intelligence Agency (CIA), ecco emergere un’altra delle numerose alleanze oscure.

Dopo essersi arreso il 22 maggio 1945, Gehlen, detto anche “Reinhard la volpe”, fu infine interrogato dai fondatori dell’OSS, “Wild” Bill Donovon e Allen Dulles, dopo essere volato a Washington travestito con l’uniforme di un generale americano. Secondo il suo biografo, Leonard Mosley, Dulles si raccomandò che alla superspia nazista venisse offerto un budget di 3,5 milioni di dollari e che “venisse messo in attività come informatore su Russia ed Europa orientale”.

Con la sconfitta tedesca che diventava sempre più imminente, a partire da marzo del 1945 Gehlen istruì diversi membri del suo staff a microfilmare informazioni riguardanti l’Urss. Dopo aver segretamente disseminato questi materiali in tutte le Alpi austriache, Gehlen e i suoi uomini cercarono un accordo.
Dopo la sua resa, Gehlen fu portato a Fort Hunt, in Virginia, dove convinse le sue controparti statunitensi del fatto che i sovietici stessero progettando di espandersi verso ovest. Prima della fine del 1945, Gehlen e gran parte del suo alto comando furono liberati dai campi per prigionieri di guerra, pronti a fornire ciò che i fanatici guerrieri freddi americani stavano morendo dalla voglia di sentire.

“Gehlen poteva arricchirsi soltanto creando una minaccia che noi temevamo, così noi gli avremmo dato ancora più denaro per raccontarci tutto ciò che sapeva di questa minaccia”, spiega Victor Marchetti, un tempo specialista capo dei piani di guerra strategici e delle capacità offensive dell’Unione Sovietica. Quando Allen Dulles divenne il capo della CIA nel 1953 (all’epoca suo fratello John era già Segretario di Stato di Eisenhower), la sua risposta all’affermazione secondo la quale Gehlen, noto criminale nazista, stesse intensificando di proposito la guerra fredda e influenzando l’opinione pubblica americana, fu la seguente:
“Non so se sia un mascalzone. Nel controspionaggio ci sono ben pochi arcivescovi… E poi non dobbiamo mica invitarlo al nostro club”.

Mito n. 8: l’eredità della seconda guerra mondiale è stata “buona”

La “guerra buona” è stata vinta. E adesso? Beh, a parte reclutare attivamente nazisti e portare l’umanità sull’orlo di un’apocalisse nucleare, i vincitori avevano effettivamente un piano.

Un documento interno, scritto nel 1948 da George Kennan, capo dello staff di progettazione del Dipartimento di Stato nel primo periodo del dopoguerra, mette in evidenza la filosofia esistente dietro la strategia politica Usa:
“… possediamo circa il 50% delle ricchezze del pianeta, ma solo il 6,3% della popolazione mondiale… In questa situazione, è chiaro che potremo essere oggetto di invidia e risentimento. Il nostro vero compito, nel periodo che sta per iniziare, è concepire una struttura di relazioni che ci permetta di mantenere questa posizione di disparità senza arrecare un danno alla nostra sicurezza nazionale. Per fare questo, dovremo eliminare ogni sentimentalismo o sogno a occhi aperti, e la nostra attenzione dovrà essere concentrata sui nostri immediati obiettivi nazionali, ovunque. Non occorre che inganniamo noi stessi, oggi non possiamo permetterci il lusso dell’altruismo e della beneficenza mondiale… Dovremmo smettere di parlare di vaghi e (per quanto riguarda l’Estremo Oriente) irreali obiettivi [quali] i diritti umani, l’innalzamento degli standard di vita e la democratizzazione. Non è lontano il giorno in cui dovremo far entrare in gioco concetti di potere diretti. Quanto meno saremo ostacolati da slogan idealistici, meglio sarà”.

Così cominciarono l’era del dopoguerra e l’età della propaganda della guerra fredda, guidate dalla globalizzazione delle grandi imprese industriali e da un virulento anti-comunismo. I pochi anni trascorsi a combattere il fascismo durante la seconda guerra mondiale in sostanza non furono nulla di più che una sottile digressione da una guerra più grande, per il controllo delle risorse e l’annientamento di ogni ideologia ritenuta incompatibile con quel controllo. Una volta eliminata la polvere della storia, fu chiaro che il fascismo era sopravvissuto ai bombardamenti a tappeto, al genocidio e alle armi nucleari per risorgere in una nuova forma, più insidiosa. Lo sviluppo di grandi imprese multinazionali e altamente irresponsabili è uno dei lasciti più tristi della seconda guerra mondiale.

In pratica, le istituzioni democratiche possono ostacolare la ricerca del capitale, così diventa necessario creare i falsi argomenti discussi in precedenza. Questo aiuta a spiegare come il Dipartimento della Guerra sia potuto rinascere con il nuovo status di Dipartimento della Difesa, dopo la seconda guerra mondiale.

Ciò fu in gran parte possibile perché il mito della “guerra buona” garantì agli Stati Uniti la libertà di intervenire a proprio piacimento in tutto il pianeta. Dopo tutto, chi poteva mettere in dubbio le buone motivazioni dello Zio Sam quando i suoi ragazzi avevano appena salvato il mondo da Hitler? Col finire della guerra fredda e con la sconfitta di un altro impero del male, il deterrente sovietico sostanzialmente svanì. Questa evoluzione fornì agli Stati Uniti un’ulteriore latitudine in cui inquadrare le sue azioni militari come umanitarie, come parte di un nuovo mondo democratico forgiato sui campi di battaglia della seconda guerra mondiale e riaffermato durante la guerra fredda. L’America sta semplicemente difendendo la libertà, ci è stato detto, e chi può mai schierarsi contro la libertà?

Tuttavia, coloro che vedono queste manipolazioni come inevitabili, insormontabili e forse anche necessarie stanno ancora una volta ignorando la storia e sottovalutando il potere d’ispirazione che può avere l’azione collettiva umana.


Brano tratto e riadattato dal volume "Tutto quello che sai è falso 2. Secondo manuale dei segreti e delle bugie"


SE LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI E LA MATEMATICA NON E' UN'OPINIONE...
...LOTITO IN GALERA E LA LAZIO A FROSINONE!
se no



Rispondi al Messaggio | Indietro | Indice topic | Quota Testo | Vai su| Segnala ad un amico|Successivo


La favola della "guerra buona"   10/5/2005 10.4.54 (82 visite)   Peppos
   I LIBRI DI Mickey Z.   10/5/2005 10.9.35 (18 visite)   Giordano
      re:I LIBRI DI Mickey Z.   10/5/2005 10.11.20 (12 visite)   Peppos
         si, costui si esprime   10/5/2005 10.12.15 (17 visite)   Giordano
   re:La favola della "guerra buona"   10/5/2005 10.55.43 (14 visite)   golden
      conoscevo   10/5/2005 10.59.45 (16 visite)   Peppos
         re:conoscevo   10/5/2005 11.42.37 (8 visite)   golden (ultimo)

Nick:
Password:
Oggetto:
Messaggio:

vai in modalità avanzata
                 


Rimani nel thread dopo l'invio


Ricerca libera nel sito by Google (Sperimentale, non sono ancora presenti tutti i contenuti)

Google
 



Clicca per leggere le regole del forum



Imposta IRCNapoli come homepage

Clicca per andare sul forum di prova.
IRCNapoli "Un racconto a più mani".
Mappa del forum

Visualizza tutti i post del giorno 10/05/2005
Visualizza tutti i post del giorno 31/07/2025
Visualizza tutti i post del giorno 30/07/2025
Visualizza tutti i post del giorno 29/07/2025
Visualizza tutti i post del giorno 28/07/2025
vai in modalità avanzata