Nick: NERONE Oggetto: TIBET (x Firez) Data: 3/6/2003 14.53.30 Visite: 25
La testimonianza di una donna tibetana "Gentili signori sono oggi qui a nome di: Ngawang Sangdrol, Gyalten Pelsang, Ngawang Kiyzom, Rinzen Kunsang, Ngawang Tsepak, Adhi, Ngawang Jampa, Gyaltsen Choedon, Nyima Tsamchoe, Sonam Dolkar, Lhakpa Chundak, Tashi Drolma, e di migliaia di altre donne tibetane. Vorrei rappresentare la voce, finalmente libera, di tante donne che non hanno più un nome, né un volto. Di tante donne private del proprio futuro. Vorrei essere oggi qui la loro voce, per raccontare la reale storia della crudele oppressione militare che le ha rese vittime tra le vittime, proprio in quanto donne, colpite in tutti gli aspetti dalla dura repressione politica e del genocidio in atto nel territorio tibetano. I pochi nomi che vi ho citato sono il simbolo di tutte le donne tibetane, sia laiche che monache, detenute e torturate semplicemente per aver espresso una opinione o per aver osato cantare l'indipendenza del Tibet, o ancora per non aver obbedito al comando di alzarsi in piedi impartito da qualche cinese. Molte donne sono in stato di detenzione solo per aver indossato vesti tibetane, per aver rifiutato l'indottrinamento politico, o per aver manifestato fedeltà al Dalai Lama, molto spesso anche solo per aver cercato semplicemente di essere madri. Le mani dei cinesi sulle donne tibetane sono pesanti, violente, fastidiosamente sadiche. L'arresto, specialmente delle monache, si traduce in stupri e violenze collettive, praticate spesso con micidiali bastoni elettrici e bruciature di ogni tipo. Le detenute vengono obbligate a spogliarsi davanti a tutti, picchiate, o assalite da cani feroci e così via in un crescendo di orribili perversioni che hanno, come unico scopo, quello di umiliare e distruggere sia la dignità che il senso di appartenenza ad un popolo, quello stesso popolo che per i cinesi non ha alcun diritto di esistere. Ma le donne tibetane resistono, non si piegano. Totalmente isolate, in quell'enorme carcere collettivo che è divenuto il Tibet, resistono, spesso eroicamente, incuranti delle conseguenze che ogni parola ed ogni gesto può avere sul loro già amaro destino. Anzi spesso sono proprio loro, quelle timide e pacifiche monache di 15, 16, 20 anni che a voi capita di veder gaiamente sorridere nelle vostre riviste, le leader che da anni guidano il movimento di resistenza non violenta praticata sia fuori che dentro le carceri. Esse sfidano i loro aguzzini in nome dei loro diritti, della libertà, li sfidano, proprio come farebbe un docile agnello di fronte ad un lupo affamato. Ora vorrei il permesso di recitare un brevissimo canto che dice: " Io sono in prigione ma non ho rimpianti La mia terra non è stata venduta, è stata rubata Per questo abbiamo pianto tante lacrime, oh, tante lacrime " Sappiate che questo breve ed inoffensivo ritornello, circolato clandestinamente per qualche tempo nella famigerata prigione di Drapchi, è costato fino a 10 anni di pena aggiuntiva alle monache che l'avevano composto. E' in questo modo che il Tibet sta combattendo la sua lotta per la libertà. Non con le bombe, gli attentati, le armi, ma con la fede, i canti, le bandiere fatte sventolare dalle colline prima dell'arresto e soprattutto in nome della grande devozione al suo Leader, il Dalai Lama, Premio Nobel per la Pace. La Cina, che alcuni decenni fa dichiarò al mondo la liberazione di un Tibet feudale, dall'oppressione di imperialisti stranieri, ora non ha più scuse per le sue menzogne. Vi chiedo: gli schiavi liberati che motivo avrebbero di ribellarsi a chi gli avesse davvero offerto benessere e libertà? Firez ecco la tirannìa dei Cinesi
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