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Nick: Franti
Oggetto: Black Reprise
Data: 26/8/2005 10.24.6
Visite: 234

Prologo:

"Le passate relazioni risultano spesso più desiderabili e piacevoli di quelle presenti. Perciò ci si interroga sui destini di chi si è molto amato un tempo, e si tende ad idealizzare il tutto. Naturalmente la vita continua, il tempo scorre e nulla può mai essere esattamente com’è stato quando lo si è vissuto per la prima volta.".


Conobbi Anna che avevo diciassette anni e stavo ancora pensando a Monica.
Ce l’avevo ancora stampata in testa, Monica
E non andava via, Monica.
Ma non accennava neppure, Monica..
Ad andarsene via.
Dalla mia testa.
Ma Monica aveva preferito Madonna a me.
E io purtroppo odiavo Madonna ma continuavo a preferire lei su tutte.
Lei nel senso di Monica.
Cioè preferivo Monica.
Ovviamente e purtroppo.
Trovavo una che mi piaceva? Bene, la confrontavo con Monica e perdeva.
L’altra perdeva, non Monica.
Monica vinceva.
Uno a zero per Monica.
Sconfitta l'altra e sconfitto io.
Vittoriosa Monica.
E Madonna? Non c'entrava un cazzo con i confronti, nè con le mie partite del cuore.
Perché di vere partite del cuore si trattava.

Avrò perso circa venticinque partite in questo modo, in quel periodo.
Povero me.
Patetico molto in quel periodo.
Io.
Oddio, non solo in quel periodo, ma insomma.
Vedevo tutto Nero.
Vedevo tutto Black.
Black, Black, Black.

Ma incontrai Anna.
Anna in verità non si chiamava Anna, ma Annamaria, solo che Annamaria non le piaceva perché "..troppo da signora..", diceva, e si faceva chiamare Anna.
Io ho avuto sempre ragazze che, per un motivo o per un altro, cambiavano i propri nomi in nomignoli.
Anna si chiamava Annamaria.
Susy si chiamava Assunta.
Lucy si chiamava Maria Lucia.
Mary si chiamava Maria.
Simona si chiamava Valeria e questa non l’ho mai capita.
Comunque non è che si chiamavano, al passato, come modi e tempi verbali, cioè, ma si chiamano ancora.
Cioè, Anna si chiamava e si chiama Annamaria, Susy si chiamava e si chiama Assunta, Lucy si chiamava e si chiama Maria Lucia, Mary si chiamava e si chiama Maria, Simona si chiamava e si chiama Valeria e questa non l’ho mai capita.
Solo che è meglio pensare al passato.
Come tempo e modo verbale, intendo.
Il perché lo so io.
Troppo Black, basti questo.
Solo Monica si chiamava e si chiama Monica e si faceva e si fa chiamare Monica.
Saggia.
Monica: un nome che mi porta veramente indietro.
Un tempo, tutte le ragazze che valeva la pena di sposare o di portarsi a letto si chiamavano Monica.
Accendevi la televisione e c’era sempre qualche cantante che diceva di chiamarsi Monica.
Perfino le ragazze che non si conoscevano, quelle che si incontravano per caso e che ti piacevano avevano l’aria di chiamarsi Monica.
Vent’anni prima, Monica era il nome giusto.
Vent’anni prima, due genitori irpini trasferitisi a Milano si erano seduti intorno ad un tavolo, in una cucina ed avevano detto:

"Come la chiameremo se sarà una femmina?".
"La chiameremo Monica".

Certo.
Monica andava bene.
Ma vent’anni prima.
Adesso, forse, il nome giusto per una donna è un altro.
Indi anche per Monica è meglio pensarla al passato.
Come tempo e modo verbale, intendo.
Il perché lo so io.
Troppo Black, basti questo.

Non divaghiamo su questa cosa dei nomi storpiati in nomignoli comunque e andiamo avanti.

Dicevo di Anna.
Io frequentavo il Secondo Liceo Classico, il quarto anno per intenderci, lei il Primo Liceo Classico, il terzo anno per intenderci.
Le prime cose che mi colpirono di lei furono gli occhi e le tette.
Aveva due tette impressionanti.
Una quinta credo, anzi sicuro, posto che dopo mi sono sincerato sulle misure pettorali di quella mammifera di serie A.
Bellissime, innestate su un corpo magrissimo.
Sode ed alte.
Non ho mai visto delle tette così grandi e sode e alte.
Mai, mai, mai.
Sarà per questo che, tra una tetta cadente e l'altra, ho maledetto la forza di gravità e sono diventato un amante delle tette piccole.
Sono proprio un fissato su questa cosa delle tette.
E’ diventata una turba mentale questa mia ossessione per le ragazze dalle tette piccole.
Una specie di shock infantile.
Nel mio caso lo shock, però, non è infantile ma adolescenziale ed esistezial-giovanile.
Nel senso che a diciassette anni non si è adolescent.
Secondo me.

Questa cosa delle tette comunque, dicevo.
Quando conosco una ragazza sto sempre attento alla forma delle tette.
Sono grosse?
Sarà una conoscente in un prossimo futuro, dai.
Se va bene anche un’amica.
Sono cadenti? Cazzo, questa deve essere antipatica e acida, nonché ignorante.
Già mi sta sul cazzo.
Sono di grandezza media? Vediamo un po’ se con questa posso instaurare un rapporto di conoscenza o se esce fuori qualcos’altro. Dipende, eh!
Ha le tette piccole? Madò quasi quasi mi sono innamorato.

Le tette di Anna erano meravigliose.
Gli occhi pure.
Il suo accento emiliano non ne parliamo.
Già, perché i suoi genitori, irpini D.O.C., si erano trasferiti da anni in Emilia, ma, presi dalla malinconia, erano tornati in Irpinia.
Evviva la malinconia dei genitori di Anna.
Senza malinconia dei genitori di Anna, col cazzo avrei incontrato Anna.

Anna la conobbi in un Pub, ad una cena della sua classe.
Invitarono me perché c’era una ragazza, nonché migliore amica di Anna, a cui piacevo.
Lei non mi piaceva molto.
Però, si sa, in tempi di carestia tutto è concesso.
E poi, a parte Monica, non avevo più visto una pisella da Agosto.
E stavamo a dicembre.
E a diciassette anni gli ormoni fanno la ola.

Comunque non divaghiamo come sempre.

Conobbi Anna a questa cena della sua classe, in un Pub.
Ero seduto tra lei e la sua migliore amica a cui piacevo.
Ci portarono da mangiare a tutti, tranne che a lei.
Lei nel senso di Anna.
Io le dissi: "Dai mangia con me"
Lei mi sorrise e mangiò con me.
Anzi, mangiò solo lei.
Io? Digiuno che la guardavo.
Cazzo pure i grissini col prosciutto mangiò.
Li adoravo. I grissini col prosciutto.
Coglione? Forse, ma contento.

Il giorno dopo seppi che Anna e la sua migliore amica avevano litigato.
Evviva, pensai, un pensiero in meno, e invitai Anna ad uscire per il sabato successivo.
Anna accettò e disse che le faceva veramente piacere.
Ma Anna abitava a diciannove chilometri dal posto dove abitavo io, dal mio maledetto paesello che amavo ed amo ma che mi ha fottuto vita ed esistenza ed io non avevo patente ed automobile.
Ma mamma sì.
Sì che ce l’aveva un’automobile. Una Fiat Uno verde militare tenuta benissimo.
E io, pur non avendo patente ed automobile, ero già bravino a guidare.

Arrivò il sabato.
Chiesi a mia madre la sua auto in prestito.

"Mà eddai, devo uscire con una tipa che mi piace moltissimo. Non farmi fare figure di merda. Che poi può essere la donna della mia vita e nel giro di cinque o sei anni ti darò un nipotino. Non sei contenta? Dai, altre mamme avrebbero fatto salti di gioia, fai questo sforzo e prestami l’auto".

Mamma non era contenta e si vedeva.
Non so se non fosse contenta per la richiesta dell’auto, a cui lei teneva tanto, o perché, per la prima volta, le avevo confessato implicitamente di essere innamorato di una lei.
Mamma era gelosa di me.
Molto.
Fino ad allora non aveva mai sopportato nessuna delle mie fiamme anche se che si sbilanciava più di tanto in giudizi su di loro.
Io spesso le dicevo, ridendo e schernendola:

"Mà, sei gelosa che portino via il tuo frugoletto preferito, eh? Dici la verità, dai!"

E lei:

"Ma quando mai, magari trovassi una brava ragazza che ti sistema la testa".

Balla.
Colossale.
La balla.
E io lo sapevo.
Che era una balla colossale.
Ma non dicevo nulla, né mi preoccupavo, perché sapevo che mamma sapeva che le mie vecchie fiamme erano, appunto, fiamme e nulla più.
E poi, sinceramente, erano cazzi miei.
Io, ad esempio, non è che ero contento di mio padre, ma mica dicevo a mamma "Mamma ma a chi cazzo ti sei sposata? Ma ti rendi conto che meritavi di più tu e pure io come figlio?".
Però quella volta mamma non era molto contenta ed era gelosa, anzi.
Lo percepivo. Era gelosa. Molto.
Perché? Perché non disse nulla e acconsentì a prestarmi la sua Fiat Uno Verde Militare.
Disse solo:

"Va bene, ma stai attento ai carabinieri e alla polizia, che sei senza patente. E vai piano che tu corri. Me l’hanno detto in paese che corri, eh! E attento a dove parcheggi. C’è già la benzina in auto, quindi non metterla. Ci penso io domani. Hai i soldi per la serata, sì? Tieni, sono ventimila lire, compra dei preservativi, invece dei soliti giornali porno che sistematicamente trovo sotto la lavatrice".

Che figura di merda, pensai.
Mamma sapeva che mi facevo le pippe a diciassette anni!
E sapeva pure dei giornali porno nascosti sotto la lavatrice, nel bagno.
Ecco perché non li trovavo mai!
La colpa non era dei miei fratelli che li rubavano.
Già, io pensavo che i miei fratelli rubavano, da sotto la lavatrice nel bagno, i miei giornali porno.
Solo che non potevo dir loro nulla.
Non mi andava che loro sapessero apertamente che mi masturbavo.
Indi sospettavo e li maledicevo.
E, alla prima occasione, li picchiavo con una scusa qualsiasi, per fargliela pagare.

Che figura di merda, pensai.
Assunsi un atteggiamento aggressivo di autodifesa, e dissi:

"Ma quando mai corro oh? Ma chi ti dice ‘ste stronzate, eh? Ma in questo paese nessuno si fa i cazzi suoi, eh?"

In verità delle chiacchiere della gente del paese che diceva a mia mamma che io correvo in auto, pur’ non avendo la patente, non me ne fregava un cazzo.
Ma ero imbarazzato di contestare le sue affermazione circa i miei presunti, anzi non tanto miei presunti ma miei reali e goderecci giornali porno sotto la lavatrice, nel bagno.
Ma non so che mi prese e aggiunsi:

"E poi quando mai metto i giornali porno sotto la lavatrice? Io non compro ‘ste cose, c’ho un’età. Prenditela con gli altri due tuoi figli!".

Eh già, perché nelle situazioni imbarazzanti, per me, nelle discussioni con mia madre, i miei due fratelli divenivano "I Suoi Figli".
Nelle discussioni con papà, invece i miei due fratelli divenivano "I Suoi Figli".
Nel senso che mai avevo discussioni con papà.
I miei fratelli, comunque, in quell’occasione erano i figli di mia madre.
I "Suoi Figli".
Avevo imparato da lei e da papà.
Infatti nelle discussioni tra papà e mamma, io divenivo "Tuo Figlio".
Infatti, spesso ho creduto di essere figlio di un altro padre e di un’altra madre e quel padre o quella madre, a turno, fossero il mio padre adottivo o la mia mamma adottiva.
A turno sempre.

Tra le parole di mamma, mi colpì molto la frase "Tieni, sono ventimila lire, compra dei preservativi".
Non ero imbarazzato.
Ero consapevole di aver scoperto una mamma moderna.
Cazzo dai, non è da tutte le mamme invitare i figli a comprare i preservativi.
A diciassette anni poi.
Se poi ci aggiungi che oltre al consiglio dei preservativi da usare, ti molla pure i soldi per comperare i preservativi da usare, beh, allora hai una mamma modernissima che è il massimo.
Mia mamma in quel momento aveva preso le veci di papà.
Come sempre.
Ero orgoglioso di mia mamma.
Meno di papà.
Anzi per nulla.
E lo sono pure adesso, anche se non c’è più da anni.


Il sabato sera presi la Fiat Uno Verde Militare di mamma e mi incamminai verso il paesello di Anna.
Per la prima volta da agosto non vedevo Black.
Niente più Black.
Black sparito.
Black iuuuuuuuuuuuuuu!
Ciao Black, ciao ciao.
Anzi Black.
Vaffanculo Black.
Mica ti sei offeso Black, oh?


Arrivai nel paesello di Anna verso le venti.
L’attendevo nella piazzetta.
A quell’epoca non era come adesso che vai a prendere una ragazza a casa sua minimo alle ventidue e trenta e anche ventitre.
E che la tipa di turno ti fa aspettare mezz’ora sotto casa e scende alle ventitre o alle ventitre e trenta, a seconda se avevi appuntamento alle ventidue e trenta o alle ventitre.
No.
A quell’epoca, quando io avevo diciassette anni, insomma, le ragazze le andavi a prendere non a casa loro, ma in piazzetta, perché avevi vergogna di farti vedere dai genitori.
E poi le andavi a prendere alle venti, alle venti e trenta, alle ventuno al massimo, và.
E loro, a quell’epoca, scendevano alle venti e trenta, alle ventuno, alle ventuno e trenta.
A seconda se l’appuntamento era alle venti, alle venti e trenta o alle ventuno, insomma.
Per farla breve anche a quell’epoca le ragazze portavano mezz’ora di ritardo.
Che nervi!
Questo fatto della mezz’ora di ritardo le donne ce l’hanno nel DNA mi sa.

Comunque Anna si presentò nella piazzetta del suo paesello alle venti e trenta, perché avevamo appuntamento alle venti.
Mi disse

"Scusa per il ritardo ma non trovavo le scarpe. Le aveva quella cretina di mia sorella".

Sempre ‘sta scusa dell’introvabilità delle scarpe o della gonna le donne.
E la colpa di chi è? Sempre delle sorelle.
Come per i fratelli, riguardo alla sparizione dei giornali porno da sotto la lavatrice, nel bagno.

Io dissi:

"Ma figurati, ho passato il tempo a vedere questa piazzetta che è bellissima. E la chiesa poi, meravigliosa!"

In verità la piazzetta era una vera chiavica, piena di buche e la chiesa non era situata in piazza, ma da un’altra parte di quel fottuto paesello.
Ma comunque…

Anna era bellissima.
Avevi i capelli raccolti, un rossetto sexy che risveglio improvvisamente Gigino, il mio fratellone che dormiva sotto la cintola, una gonna con degli stivali modello sadomaso e un cappottino nero.
Uno schianto.
Le aprii lo sportello e la feci salire nella Fiat Punto Verde Militare di mamma.
Che in quel momento era mia, però.
La Fiat Punto Verde Militare di mamma.

Le dissi:

"Ti va se andiamo a mangiare prima una pizza in un’ottima pizzeria ad Ariano Irpino e poi si va a fare un giro a zonzo e ti accompagno a casa alla mezza?"

Lei mi rispose:

"Il programma mi piace, ma massimo per mezzanotte devo stare a casa, altrimenti babbo si incazza".

Mannaggia Santo Babbo di Anna Martire, pensai.
Ma non dissi Mannaggia Santo Babbo di Anna Martire.
Dissi, invece:

"Va bene, non c’è problema".

Partii e accesi l’autoradio.
Misi su una musicassetta originale dei Poison, un gruppo glam-rock americano, molto in voga negli anni ’80.
La canzone era "Every Rose Has It’s Thorn".
Dolcissima.
Bellissima.
Da brivid.
La cantavo ad alta voce, in inglese maccheronico, quasi per darmi un tono alla Elvis quando canta "Love me tender"..
Anna mi sorrise.
Olè! Avevo fatto colpo.
Dopo un po’ disse

"Pier, senti, non dirmi nulla, ma questi non li conosco. Ho portato una cassetta degli Spandau Ballet, ti va se ascoltiamo questa?".
Mannaggia i Poison e chi li ha creati.
Primo flop.
Non ci voleva. Cazzo!

Non ho mai capito un cazzo del connubio musica – donne.
O le donne sono ignoranti musicalmente o sono io che ho dei seri limiti.
Bah.

Comunque tolsi dallo stereo la musicassetta dei Poison e inserii quella degli Spandau.
Gold!

Arrivammo ad Ariano Irpino e parcheggiai la Fiat Uno Verde Militare di mamma, che quella sera era mia, nei pressi della pizzeria.
Anna aprì lo sportello e scese dalla Fiat Uno Verde Militare di mamma, che quella sera era mia.
Io aprii lo sportello e scesi Fiat Uno Verde Militare di mamma, che quella sera era mia.
Anna non mi vide più, però e mi chiamò, stupefatta "Pier…".

Io?
Beh io avevo aperto lo sportello della Fiat Uno Verde Militare di mamma, che quella sera era mia ed ero finito in un cunicolo di fogna, per via di un tombino spostato non so da chi e per quale stramaledetta ragione.
In verità il cunicolo non era un cunicolo, ma un cunicolone di fogna.
Nel senso che in quel cunicolo era profondo cinque o sei metri almeno.
Era così profondo che si accedeva al fondo con delle scalette ferrose.
Ci mancavano gli alligatori e quella fogna sarebbe diventata da fogna di Ariano Irpino a fogna di New York.

Feci un volo di un secondo e mezzo, sbattendo dappertutto.
Sentii un dolore fortissimo alla schiena e soprattutto al ginocchio e urlai:

"OHHHHHHHHHHHHH! PER DIOOOOO! AIUTATEMIIIII! SONO QUA DENTROOOOOO!"

Vidi Anna affacciarsi nel cunicolo, in piedi, guardando in basso dall’apertura del tombino.
Disse "Madonna" e scoppiò a ridere.
Madonna è come una mutanda, per me, se c’avete fatto caso.
Sta sempre davanti al cazzo.
Io? Beh io ero incazzato e dolorante e pensavo alla gran figura di merda.
Era la mia sera con Anna, cazzo, la sera in cui mamma mi aveva prestato la sua Fiat Uno Verde Militare, la sera in cui avevo comprato i preservativi con le ventimilalire che mamma mi aveva dato appositamente.
Che nervi.
E che dolore.

Comunque Anna si fermò dal ridere, preoccupata e disse che andava a chiamare aiuto.
Io avevo un ginocchio rotto e un dolore impressionante e non ce la facevo a risalire il cunicolo, su, per le scalette ferrose.

Il cunicolo era Nero.
Nero, nero, nero.
Black, insomma.
Black era tornato.
Si era offeso e vendicato.
Black per Dio, ma che cazzo, però eh!
Il vaffanculo che ti ho mandato era scherzoso.
Come sei permaloso Black, eh!
Scherzavo io Black, con quel vaffanculo.
Infatti ho subito pensato, dopo il vaffanculo, mica ti sei offeso Black?

Black, inoltre aveva invaso non solo il cunicolo.
Ma tutta la mia serata.
Che tristezza.
Black, non c’entravi nulla con la mia serata magica, con Anna e con la Fiat Uno Verde Militare di mamma, che quella sera era mia.
Che cazzo sei venuto a fare all’improvviso, "carosifaperdire" Black?

Dopo un po’ si formò una folla attorno al cunicolo.
Tutti che guardavano giù e dicevano "Sali su per le scale, forza".
E Io:

"Come cazzo faccio a salire che mi fa male il ginocchio?".

Che rompicoglioni quelli della folla!
Black intorno e dei rompicoglioni affacciati.
Il massimo!

Mi sentivo come Alfredino Rampi nel pozzo artesiano.
Alfredino Rampi ve lo ricordate?
Alfredino Rampi era un bambino che negli anni ’80 cadde in un pozzo artesiano a Vernicino.
Lì vi resto per giorni, fino a quando morì.
Ma a Vernicino, intorno al pozzo artesiano, si formò una folla enorme.
Pure le televisioni erano attorno al pozzo.
Alfredino moriva tutte la notte, per più notti consecutive.
Quel bambino moriva davanti a noi.
E noi tutti là, a guardare mentre moriva.
Un vero, cinico Reality Show.
Anche Pertini giunse a vedere come moriva.

Ecco, io ero in quella fogna così come Alfredino Rampi.
Mi sentivo morire e guardavo gli altri che, dall’alto, si affacciavano a guardarmi, quasi in attesa che io morissi.
Ci mancava solo Pertini ad affacciarsi, dall’alto del tombino che sovrastava quel cunicolone ad Ariano Irpino.

Comunque alla fine vennero i pompieri a tirarmi fuori.
Avevo un ginocchio gonfio e la schiena che mi faceva male.
Avevo un maglione bianco della Stone Island, messo per l’occasione.
Aveva delle striature marrone scuro.
Non ho mai capito se fosse merda o ruggine delle scalette ferrose.
Credo più merda però, almeno stando alla puzza che sentivo.
Anna mi si avvicino preoccupata.
Però sorrideva.
La odiai.
Poi sorrisi anche io.
L’autoironia è sempre stato il mio forte.
Però era una risata amara.
Black mi aveva rovinato quella magica serata.

Ma mi sbagliavo.
Black non aveva rovinato proprio un cazzo.

Andai in ospedale.
Il ginocchio non era gonfio, ma mi trattennero quasi per una settimana per accertamenti e per tirar via liquido dal ginocchio medesimo.
Anna venne a trovarmi tutti i giorni in ospedale.
Appena entrava pensava all’episodio e rideva.
Anche io ridevo.
Mia mamma?
No, mia mamma non rideva.
Non rideva.
Continuava a dire:

"Disgraziato che non sei altro, a parte la paura, sono dovuta andare a prendere l’auto alle due di notte. E meno male che nulla si è fatta l’auto".

Eh beh, l’amore di mamma.

Uscii dall’ospedale e cominciai a frequentare assiduamente Anna.
Ci baciammo nel bar della piazza del mio paesello, prima dell’inizio delle lezioni, al Liceo.
In bocca, con la lingua.
Ci baciammo.
E io le toccai le tette.
E lei si stringeva a me.
Mi si indurì il pisello e arretrai col bacino, per evitare che lei se ne accorgesse e mi prendesse per un arrapato cronico.
Mi sa che se ne accorse, perché arretrò prima lei.

Olè! Black sconfitto.
Bye bye Black.

Con Anna fu amore subito.
Con Anna spesso facevo all’amore.
E quando non facevo all’amore con Anna, sognavo di fare all’amore con Anna.
Lì, nella stanza del suo lussuoso ed immaginario appartamento, dove c’erano leoni d’oro ed enormi piante rampicanti a sovrastarli.
Sdraiati sul letto ad acqua, mentre nell’altra stanza la guardia del corpo, riposta a terra la sua pistola laser, faceva l’amore con i muri color carne.
Immaginavo questo, per aver letto qualcosa di simile su un libro che non ricordavo e non ricordo tutt’ora.

Con Anna durò quasi otto lunghi anni.
Crescemmo insieme.
Ma cominciai a capire che lei soffocava me e io soffocavo lei.
Eravamo abituati.
Alle volte io, quasi per rimettere su qualche pezzo, ad esempio, le regalavo un disco e lo portavo da lei.
Lo infilavo sul piatto dell’Hi-Fi e le chiedevo:

"Ehi, questo è per te, ti piace amore?"

E lei:

"Sì, bellissimo, ma abbassi il volume che c’ho da fare, cazzo? Grazie.".

Ecco.
Eravamo ridotti malissimo.

Poi i litigi. Sempre più frequenti.
E poi il silenzio.
Il silenzio è come un film privo di dialoghi.
Libri con molti spazi bianchi.
E i libri con molti spazi bianchi, non servono a nulla, perché non sono libri.
Facevamo l’amore?
Può darsi, ma secondo me trombavamo e basta.
Per abitudine e un po’ di rispetto, almeno sul piano sessuale.
Eravamo fratelli e sorelle che tentavano di far l’amore, trombando, in silenzio.
E, si sa, l’incesto è una brutta cosa.
Almeno per me.
E credo pure per Anna lo fosse.
Col silenzio poi, non ne parliamo.

Ci lasciammo.
Anzi, fu Anna a lasciarmi.
Io non ne avrei mai avuto il coraggio.
Troppo legato all’abitudine, troppo vigliacco, allora.
Dopo tre mesi Anna si fidanzò con un tipo occhialuto che ti da sicurezza, uno di quelli con gli occhiali spessi che collezionano farfalle.
Tre mesi dopo si sposava col tipo occhialuto che ti da sicurezza, uno di quelli con gli occhiali spessi che collezionano farfalle.


Adesso Anna sta sempre col tipo occhialuto che ti da sicurezza, uno di quelli con gli occhiali spessi che collezionano farfalle.
E ha un bambino.
Dicono sia bellissimo e amici in comune mi han detto che il bambino mi somiglia.
Questa cosa un po’ mi fa impressione ma cerco di non pensarci.

Ad Anna adesso non ci penso più.
Ci son’ state varie trombate insignificanti o meno e varie Anne da allora.
Susy, Simona, Vanda, Mary.
E’ finita con tutte.
Tutte.

E ci son’ stati dei giorni in cui andavo a letto con il mio cruccio che non riuscivo a definire ma che era legato, a turno, ad Anna, Susy, Simona, Vanda, Mary.
E la mattina, quel cruccio che non riuscivo a definire, lo ritrovavo di nuovo lì, nella mia testa.
Che nervi.
Come quelle notti in cui ci si sente su e quando arriva il mattino si comincia a sentire che ciò che ci ha tenuto su fino ad allora inizia a scendere piano piano.
Allora tutto ciò che si vorrebbe è una persona, che già sappiamo di quale persona si tratti, che ci abbracci.
E quelle poche volte che succede davvero, allora quello è un "mattino puro".
Mi è capitato di non vivere per molto tempo una "notte su" e un "mattino puro".
Il mattino mi alzavo e le cose importanti non erano le stesse della sera prima.
Tutte le mie cose migliori della sera prima, al primo rutto o alla prima scoreggia del mattino, beh, divenivano ex cose migliori.

Black era tornato, purtroppo.
A rompere i coglioni.

E allora via con la mia solita, ripetuta, patetica ma realistica paternale.
Quale paternale? Questa:

Certe cose non se ne vanno mai.
Certe cose si aggrappano a te con tutta la forza che hanno e non mollano la presa. Si nascondono in qualche posto e aspettano.
A loro non importa che tu cresca e dimentichi tutto.
Loro, quelle cose, contundano ad aspettare.
E poi magari, un giorno, quando ormai le hai dimenticate del tutto quelle cose, quando la tua vita assomiglia ad una vita felice, quelle cose sbucano fuori ed incominciano a fare un sacco di chiasso.
E tu non puoi zittirle.
Vincono loro
Quelle cose vincono.
Sempre.

E Black era ed è una di quelle cose.

Adesso?
Adesso non ho un’Anna.
Non ho una Susy.
Una Simona.
Una Vanda.
Non ho neppure una Mary.
Sono solo.
Ma non solo inteso negativamente.

Però a volte penso che mi farebbe bene, anzi mi piacerebbe incontrare una tipa.
Una tipa che costringa il mio cuore a fare Bum Bum.
Una tipa per la quale vale la pena cadere in un cunicolone di fognatura, con o senza alligatori.
Una tipa per la quale valga la pena sentirsi come il povero Alfredino Rampi che moriva tutta la notte.
Black tornerà? Pazienza.
Ci convivo con Black, oramai.
Siamo quasi diventati amici.

Mi piacerebbe che la tipa si chiamasse Nonvelodico.
E’ un bel nome Nonvelodico.
Mi piacerebbe incontrare Nonvelodico all’improvviso e dirle:

"Ehi, mi piaci molto. Non è che possiamo…"

E mi piacerebbe che lei mi interrompesse, mi baciasse sulle labbra, senza lingua, e mi dicesse:

"Sì..".

Io andrei via, quasi imbarazzato.
Ma le lascerei un biglietto e ci scriverei.

" Nonvelodico, non immagini da quanto tempo ti aspettavo, sai?".

"GUARDATE IL PELO NEGLI OCCHI DEGLI ALTRI IGNORANDO IL VOSTRO ALBERO MAESTRO." . By OCUSUTORE



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