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Nick: Peppos
Oggetto: L'errore che cambiò il mondo
Data: 6/9/2005 21.28.51
Visite: 167

Il racconto che segue è una diretta testimonianza di chi, all'epoca dei fatti, era in prima linea. Si tratta infatti dell'ex-direttore del Nippon Times di Tokyo, il più diffuso quotidiano giapponese, nonchè organo di stampa dell'allora Impero del Sol Levante. Dal suo diario e dal vivo ricordo dei giorni oscuri e densi di avvenimenti che precedettero la resa giapponese, egli ha tratto questo strano racconto di una parola che forse ha cambiato la storia del mondo.


Nella primavera del 1945 il Giappone aveva ormai subito colpi durissimi. Gli attacchi aerei alleati distruggevano ferrovie, strade e ponti con tale rapidità che non si faceva in tempo a ricostruirli. Città grandi e piccole erano ridotte a rovine fumanti; milioni di persone erano senza tetto; i viveri cominciavano a mancare. Gli aerei americani avevano distrutto quanto rimaneva della flotta giapponese.

Ma il comando supremo non voleva deporre le armi ed aveva giurato di combattere fino all’ultimo. I militaristi sostenevano che stavano per vincere una battaglia decisiva. Il Ministro della Guerra, il generale Korechika Anami, aveva promesso che gli Americani sarebbero stati sloggiati da Okinawa.

Un piccolo gruppo di diplomatici era contrario ai militaristi, rendendosi conto che il Giappone aveva più da perdere in una resistenza ad oltranza che in una resa. Nella speranza d’ottenere condizioni migliori di quelle di una resa incondizionata, avviarono conversazioni segrete con l’ancora neutrale Unione Sovietica (i Russi, infatti, erano in guerra solo contro Germania ed Italia, ndPeppos) e sollecitarono i buoni uffici della Russia per concludere la pace.

Il 3 giugno l’ex-Primo Ministro Koki Hirota si recò dall’Ambasciatore russo Jacob Malik. Malik accolse le proposte con freddezza. Poi il 12 luglio l’Imperatore affidò al Principe Konoye un messaggio personale chiedente la pace. Konoye aveva avuto istruzione di recarsi in volo a Mosca e di porre termine alla guerra ad ogni costo. Ma Stalin ed il commissario agli Esteri Molotov si schermirono dicendosi occupati nei preparativi per la Conferenza di Potsdam.

A Potsdam, Stalin accennò senza darvi peso, a Truman, che i Giapponesi avevano avanzato l’argomento dei negoziati. Ma il dittatore sovietico soggiunse che i Russi non ne avevano voluto sapere ritenendo che i Giapponesi non fossero sinceri.

L’ultimatum di Potsdam al Giappone fu emesso il 26 luglio 1945; firmato dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Cina, chiedeva al Giappone di arrendersi se non voleva essere completamente distrutto. La reazione tra i capi giapponesi fu di esultanza perché le condizioni della resa erano molto più miti di quanto si aspettavano: la dichiarazione prometteva che il Giappone non sarebbe stato distrutto come nazione, che i giapponesi sarebbero stati liberi di scegliersi il proprio governo e c’erano chiare allusioni che l’Imperatore sarebbe stato lasciato sul trono. 

Senza esitare, l’Imperatore disse al Ministro degli Esteri Shigenori Togo che riteneva la dichiarazione accettabile. Allora il Consiglio dei Ministri si riunì al completo per discutere dell’ultimatum degli Alleati.
La decisione presa in quel caldo 27 luglio su in favore della pace. Il Ministro della Guerra Anami ed i capi di Stato Maggiore protestarono violentemente ma furono messi in minoranza.

C’erano tuttavia parecchie complicazioni. Che fare dei negoziati per la resa tuttora in corso con i Russi? L’ultima proposta era stata inviata a Mosca solo due giorni prima.

C’era un altro elemento che il Consiglio dei Ministri fu costretto a considerare: fino a quel momento i Giapponesi avevano avuto notizia della dichiarazione di Potsdam soltanto attraverso i loro posti di radioascolto. Poteva il governo agire sulla base di informazioni non ufficiali?

Non si poteva differire troppo l’annuncio dell’accettazione delle condizioni alleate, ma intanto il Primo Ministro Kantaro Suzuki doveva ricevere il giorno dopo i giornalisti giapponesi che senza dubbio gli avrebbero rivolto domande sulla dichiarazione. Si stabilì che Suzuki avrebbe detto semplicemente che il Consiglio non aveva raggiunto alcuna decisione in merito alle richieste alleate. Il fatto che il Consiglio dei Ministri non avesse respinto subito l’ultimatum avrebbe fatto capire al popolo giapponese che il vento spirava verso la pace.

Quando il Primo Ministro Suzuki ricevette i giornalisti il 28 luglio, disse che il Consiglio si atteneva ad una politica di mokusatsu. Questa parola non ha un equivalente preciso nelle lingue occidentali ed è ambigua anche in giapponese. Può voler dire “astenersi dai commenti” (come intendeva il Primo Ministro), ma anche “ignorare”.

Disgraziatamente i traduttori dell’Agenzia Giornalistica Domei non potevano sapere quale fosse il significato che Suzuki aveva in mente. Traducendo in fretta in inglese la dichiarazione del Primo Ministro, scelsero il significato errato. Dalle antenne di Radio Tokyo fu trasmessa al mondo alleato la notizia che il governo di Suzuki aveva deciso di “ignorare” l’ultimatum di Potsdam. L’immediata interpretazione data al comunicato – fuori dal Giappone – risulta chiara dal titolo su sei colonne del New York Times del 28 luglio 1945 “La flotta attacca, Tokyo ignora le condizioni di resa”.

Il resto è storia. Il defunto Henry L. Stimson, allora Segretario americano alla Guerra, spiegò chiaramente, nella sua relazione sulla decisione definitiva di usare la bomba atomica, che l’errore del mokusatsu ebbe come conseguenza diretta l’attacco atomico su Hiroshima. Dalla sua relazione:

“Il 28 luglio il Primo Ministro del Giappone Suzuki respinse l’ultimatum di Potsdam [...], di fronte a questo diniego non potemmo far altro che dimostrare come l’ultimatum significasse letteralmente quello che diceva[...] Ed a questo scopo la bomba atomica era un’arma quanto mai adatta.”

Gli attacchi atomici su Hiroshima e Nagasaki fecero piovere i Russi nella Manciuria. La loro avanzata continuò ininterrotta per 10 giorni dopo la resa giapponese. Quando la polvere della battaglia si diradò, la Russia aveva potentemente rafforzato la sua posizione in Estremo Oriente.

Perché il governo giapponese permise che l’errore del mokusatsu non fosse corretto? Perché non ci fu alcuna rettifica di un errore dalle conseguenze tanto disastrose? Qui entriamo nel campo delle congetture.

In quel momento, gli esponenti dell’esercito giapponese arrestavano i sostenitori della pace. Neppure coloro che ricoprivano alte cariche sfuggivano al pericolo di essere arrestati dai militaristi, fanatici contro tutti gli oppositori. C’erano voluti mesi di lavoro clandestino perché il partito della pace acquistasse l’autorità che possedeva all’epoca dell’importante riunione del Consiglio dei Ministri del 27 luglio. La situazione era in precario equilibrio: gli sconsiderati capi dell’esercito e della marina erano tenuti a freno a fatica. Quindi, il Primo Ministro Suzuki e l’Agenzia Giornalistica Domei, sfidando in apparenza il mondo alleato, ristabilivano l’equilibrio delle forze a favore dei militaristi. I fautori della pace dovevano tacere per aver salva la vita.

Kazuo Kawai si è poi dimesso dal suo posto di direttore del Nippon Times per insegnare scienze politiche all’Università Statale dell’Ohio. E concluse così la sua testimonianza:

“Che gli Americani non abbiano capito quale fosse il vero atteggiamento del governo giapponese verso la dichiarazione di Potsdam, è facilmente comprensibile. Ma che i Russi abbiano mancato di informare i loro alleati occidentali sulla volontà giapponese d’arrendersi, è un’altra faccenda.”

Viene voglia di chiedersi se quell’errore di parola, rafforzando la posizione della Russia in Estremo Oriente, non abbia causato al mondo una concatenazione di guai.




non rileggo per pigrizia, scusate eventuali errori di grammatica/battitura e compagnia bella














valle TI AMO DI COSCIONA *_*



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