Operazione “Maiale Marino” (1941)
“Mia cara mamma, quando riceverai questa lettera, sarò morto. Mi sono offerto volontario per una missione rischiosa che non è riuscita...”
Questa era la prima delle tre lettere che il tenente di vascello Luigi Durand de la Penne, della Real Marina Militare Italiana, scrisse 15 giorni prima del Natale 1941. Una seconda lettera, invece, annunziava che l’impresa era riuscita ed una terza che egli era stato fatto prigioniero. Al termine della missione, sarebbe stata impostata la lettera che faceva al caso.
De la Penne, un bel giovane atletico di 27 anni, alto più di 1 metro e 83, stava per intraprendere un’azione che eccelle negli annali delle imprese coraggiose: doveva condurre un gruppo di sei uomini in un attacco, praticamente a mani nude, contro le forze navali britanniche concentrate ad Alessandria d’Egitto. Con quest’impresa, in cui uomini di 72 chili erano opposti a corazzate di 32.000 tonnellate, De la Penne era destinato a conquistare una grande vittoria navale e l’ammirazione di chi ne ebbe il danno maggiore. Winston Churchill la definì infatti “uno straordinario esempio di coraggio e genialità.”
De la Penne aveva il compito di affondare, in un momento critico della guerra, alcune grosse unità della flotta inglese del Mediterraneo. Gli Inglesi avevano da poco perso una corazzata ed una portaerei, silurate da sommergibili. Le due corazzate rimaste nel Mediterraneo si erano rifugiate nel porto di Alessandria. De la Penne e i suoi uomini dovevano guidare piccoli sottomarini – chiamati “maiali” – standovi a cavalcioni, fin dentro il porto di Alessandria ed attaccare le navi nemiche.
Ogni “maiale” era lungo 6,70 metri ed aveva 533 millimetri di diametro. Azionato da un motore elettrico silenzioso, aveva la velocità di 2-3 miglia orarie, un’autonomia di 10 miglia ed una testa staccabile, carica di 300 chili di esplosivo. Giunti nel porto, i tre equipaggi, composti da 2 uomini ciascuno, dovevano applicare le cariche d’esplosivo alla carena delle navi nemiche e poi tentare di mettersi in salvo.
Le probabilità che qualcuno di loro riuscisse a compiere la missione e tornare perfino alla base, erano davvero minime. A De la Penne ed ai suoi uomini fu consigliato di fare testamento e d’impaccare le loro cose perché potessero essere spedite a casa, qualora non fossero tornati. Nessun ufficiale del gruppo doveva essere sposato ma “non mi sorrideva l’idea di morire senza lasciare un figlio dietro di me”, disse poi De la Penne, intervistato a fine guerra. Così chiede la mano di Valeria Butti, una bella ragazza di una famiglia benestante genovese. Dopo le nozze, celebrate in gran segreto, De la Penne, riprese servizio.
Il 18 dicembre i tre equipaggi erano a bordo del sommergibile Sciré, poggiato sul fondo del mare, fuori al porto di Alessandria.
Le più recenti informazioni avevano confermato la presenza nel porto delle corazzate britanniche Valiant e Queen Elizabeth. Il Commando italiano era così composto:
1° Gruppo, formato da De la Penne ed il suo secondo, il capo palombaro Emilio Bianchi, che aveva per obbiettivo la Valiant;
2° Gruppo, formato dal capitano del Genio navale Antonio Marceglia ed il palombaro Spartaco Schergat, che puntava alla Queen Elizabeth;
3° Gruppo, formato dal Capitano delle Armi Navali Vincenzo Martellotta ed il secondo capo palombaro Mario Marino, che invece dovevano attaccare una petroliera di squadra da 16.000 tonnellate e poi disseminare bombette incendiare galleggianti, nella speranza che la nafta della petroliera, spargendosi per il porto, lo mettesse tutto a fuoco.
Ultimata l’operazione, gli equipaggi dovevano raggiungere a nuoto la riva, rubare una barca da pesca per trovarsi all’appuntamento con un sommergibile italiano il 24 dicembre.
Poco prima delle 21, gli equipaggi si infilarono i loro aderenti scafandri di gomma. Messi in mare i piccoli mezzi, i sei uomini si diressero lentamente verso il faro di Ras El Tin, che s’intravedeva a un miglio di distanza. A cavalcioni dei “maiali”, sporgevano dall’acqua soltanto con le teste.
Le spolette a tempo dovevano essere regolate in modo che la petroliera saltasse in aria alle 5.55, la Valiant alle 6.05, e la Queen Elizabeth alle 6.15. Gli uomini avevano ancora il tempo di mangiare: forse il loro ultimo pasto. Dai portaviveri stagni, gli uomini estrassero pollo freddo, pane e piccole bottiglie di Champagne.
Venne quindi il momento di avvicinarsi alla rete d’acciaio che proteggeva l’entrata del porto. I “maiali” avevano cesoie pneumatiche, ma erano rumorose ed in molti punti delle reti c’erano cariche esplosive. Mentre il commando pensava sul da farsi, il faro ed il porto s’illuminarono all’improvviso: alcune navi stavano per entrare!
Appena la rete s’aprì, De la Penne disse “Andiamo!”
Comparirono tre cacciatorpediniere dall’oscurità della notte, ma i tre “maiali” li seguirono, sballottati violentemente dalla scia delle unità nemiche.
Una volta nel porto, i sommozzatori cercarono d’avvistare i loro bersagli. De la Penne si avvicinò però troppo alla Valiant ed andò a incappare in una rete di protezione. Cercò con Bianchi di alzare la rete: troppo pesante. C’era una sola soluzione: passare al di sopra della rete con tutto il “maiale”, senza farsi scoprire. La manovra riuscì, con gran sollievo dei due sommozzatori che, senza perdere un attimo, s’immersero.
Il miglio punto per la carica esplosiva era sotto la torre numero 1. Per verificare un’ultima volta la posizione, De la Penne affiorò, svolgendo un rotolo di cavo che gli servisse da guida per riandare al “maiale”. Quando tornò sul fondo, il “maiale” non volle avviarsi. Sospettando che il cavo si fosse impigliato nell’elica, egli si volse verso Bianchi per fargli cenno di liberarlo. Bianchi non c’era! De la Penne si mise allora all’opera da solo.
La testa esplosiva era ancora ad una trentina di metri dalla posizione prescelta. Con le mani nude, intirizzite dal freddo, De la Penne cominciò a trascinare lentamente nella melma il pesante carico di 300 chili. Dopo quasi un’ora di spossante fatica, la carica fu in posizione, ma De la Penne era esausto e non ce la faceva ad attaccarla allo scafo. Ma siccome la carica era sul fondo, ad un metro e mezzo soltanto sotto la nave, egli era sicuro che avrebbe avuto ugualmente l’effetto desiderato. Adesso erano le tre: mancavano tre ore all’esplosione.
Quasi sul punto di perdere i sensi, De la Penne risalì in superficie, muovendo leggermente l’acqua: il rumore, tuttavia, bastò a mettere in allarme le vedette sulla coperta della Valiant. Subito un proiettore lo inquadrò. Ci fu una raffica di pallottole. Vista la boa di un’ancora, De la Penne vi si diresse per mettersi al riparo. Dietro la boa c’era Bianchi! Gli si era guastato l’auto-respiratore ed era svenuto: risalito a galla, si era ripreso ed aveva nuotato verso la boa.
Poco dopo un’imbarcazione raccolse i due uomini. Alle 3.30, sul castello di poppa della Valiant, furono interrogati dal comandante in seconda. I prigionieri dissero il loro grado e consegnarono i propri documenti, ma si rifiutarono di fornire altre informazioni. Furono separati, e De la Penne, fu chiuso in una cambusa nella carena della Valiant, quasi al di sopra della carica esplosiva. Confortato da un bicchierino di Rum e da un pacchetto di sigarette offerti da un benevole marinaio inglese, De la Penne non perdeva d’occhi l’orologio: 5.30, 5.40...
Si avvertì un boato lontano: l’equipaggio Martellotta-Marino aveva fatto saltare la petroliera di squadra. L’intera poppa fu squarciata dall’esplosione; un cacciatorpediniere ormeggiato di fianco, rimase danneggiato, ma le bombette incendiare non funzionarono. Erano le 5.54: mancavano undici minuti. De la Penne picchiò sul portello della nave e chiese di parlare con il comandante della nave, capitano di vascello Charles Morgan.
“La vostra nave salterà in aria tra dieci minuti” gli disse. “Non voglio che degli uomini muoiano inutilmente. Vi consiglio di chiamare tutta la gente in coperta.”
“Dov’è stata messa la carica? Se non rispondete, sarò costretto a rimettervi in cella”, chiese Morgan. De la Penne non rispose, perché se Morgan avesse saputo che la carica era sul fondo, avrebbe fatto spostare la Valiant, mettendola fuori pericolo.
Mentre De la Penne veniva ricondotto nella sua cella, gli altoparlanti di bordo chiamavano tutti gli uomini in coperta.
De la Penne teneva gli occhi fissi sull’orologio. La sua ultima ora stava per scoccare.
Aveva regolato bene la spoletta? Era impossibile regolarla al secondo esatto. La stessa petroliera era saltata circa un minuto prima...
Alle 6.06 la carica esplose. La Valiant ebbe una scocca convulsa e si riempì di fumo: De la Penne fu scaraventato contro una parete e perse i sensi. Quando rinvenne, vide che il portello della cella era stato aperto dall’esplosione. Salì in coperta nel fuggi-fuggi generale ed appena fuori diede uno sguardo alla Queen Elizabeth: erano le 6.15. Una tremenda esplosione squarciò la carena della corazzata: anche la coppia Marceglia- Schergat aveva piazzato la propria carica, tra l’altro proprio sotto la sala motori; la Queen Elizabeth era al tappeto.
Anche se semi-distrutte, le navi non si inabissarono, dato il fondale molto basso, ma erano comunque fuori uso, mentre i pochi mezzi inglesi rimasti intatti, erano senza carburante, grazie alla distruzione della petroliera.
In quel momento, la Marina Militare Italiana era riuscita nel suo intento: supremazia dei mari nel Mediterraneo ed indebolimento delle difese di Alessandria d’Egitto, base suprema della resistenza inglese in Egitto, nonché punto nevralgico per il controllo di Suez, dal quale arrivavano tutte le navi alleate dall’India e dall’Africa del Sud.
La Marina Italiana ora aveva il vantaggio dei mezzi, della posizione e dello spirito di rinnovata fiducia che quella missione così rischiosa, così difficile e così esaltante aveva trasmesso a tutti i reparti. E qui comincia la parte incredibile della storia.
Quando quella mattina, subito dopo la missione compiuta, gli aerei dell’Aeronautica Militare partirono in ricognizione aerea, fotografarono l’esito della missione e le trasmisero al Reparto Informazioni: da qui, tra la felicità generale, furono trasmessi al governo Mussolini. Nelle foto si vedeva chiaramente la Valiant inclinata sulla sua sinistra e fumante e la Queen Elizabeth con l’intera prora immersa: il comando militare chiese subito al Duce di dare l’ordine di attaccare in modo “definitivo” Alessandria d’Egitto “da terra, dal cielo e dal mare”, essendoci tutti i presupposti per una rapida ed addirittura indolore vittoria.
Mussolini invece decretò che le navi inglesi erano indenni e che quelle foto fossero solo “espedienti inglesi per spingere gli italiani ad attaccare convinti di trovare poca resistenza, mentre invece ci attendono dietro l’angolo”.
L’incredulità dell’Alto Comando Militare italiano era alle stelle: invano chiesero ripetutamente di dare l’ordine di attacco, ma il Duce fu irremovibile. “La missione è fallita” e tanti saluti a quella supremazia che gli italiani, coraggiosi e male armati, erano riusciti ad ottenere.
Lo spionaggio inglese, venuto a conoscenza dell’incredibile rapporto di Mussolini, fecero di tutto per assecondare la follia del Duce.
Mentre si lavorava freneticamente intorno agli squarci delle navi, una calma assoluta regnava in superficie. Furono dati addirittura concerti e ricevimenti, nessun rinforzo fu chiamato a supportare la difesa di Alessandria, e per una anno solare (la durata dei lavori), il porto di Alessandria d’Egitto era praticamente indifeso, tuttavia l’Italia non attaccò, perché il Duce aveva visto “al di là delle apparenti fotografie di trionfo, strumento ingannevole della subdola mente inglese.”
Nel frattempo i 6 sommozzatori italiani furono tutti fatti prigionieri. De la Penne fu mandato prima al Cairo, poi in Palestina, da dove fuggì in Siria. Catturato, fu mandato in India. Fuggito ancora, fu ripreso e trasferito in un campo di concentramento.
Nel 1943, con la resa italiana, De la Penne fu liberato e scelse di stare dalla parte dei Alleati e dei partigiani; tra le sue missioni, una fu praticamente analoga a quella di due anni prima in Egitto: penetrò di notte nel porto di La Spezia, affondando diverse corazzate tedesche, il giorno prima che fosse eseguito l’ordine della Kriegsmarine, ormai in fuga dall’Italia, di distruggere le strutture portuali della città ligure.
Ma il destino di De la Penne non aveva ancora smesso di osannarle e di consegnarlo ai posteri come eroe di guerra: nel 1945, a guerra finita, Umberto di Savoia, principe ereditario, durante la cerimonia di premiazione per coloro che si erano distinti nella guerra contro i nazi-fascisti, stava per consegnargli la medaglia d’oro al valore militare.
Uno dei presenti si alzò allora il vice-ammiraglio Sir Charles Morgan, capo delle Forze Navali Britanniche nel Mediterraneo, ed ex-comandante della Valiant. Grazie all’avvertimento dato da De la Penne, nessuno dei 1700 uomini dell’equipaggio era morto né ferito.
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