Nick: NEVERLAND Oggetto: Bilico Data: 18/5/2006 17.13.16 Visite: 188
"Di' la verità. Tu pensi che sia un uomo." "Diciamo che qualcosa me lo fa sospettare." "Cioè?" "La mancanza di prove che sia un uomo."
Tre sono le vittime, finora. L’assassino è stato grottescamente soprannominato "il Seviziatore". È meticoloso, paziente, imprevedibile. Uccide in modo atroce le sue vittime e compone la scena del delitto come un vero teatro dell’orrore. La donna che gli dà la caccia si chiama Giuditta Licari. Da anni la polizia si rivolge per "consulenza" a questa strana dottoressa, anatomopatologa e psichiatra, pragmatica, solida e inquietante nel suo totale distacco di fronte a ogni genere di crudeltà, in grado di vedere oltre il sangue, oltre i cadaveri e guardare il mondo con gli stessi occhi dell’assassino. Il suo talento è scorgere ciò che agli occhi degli altri regolarmente sfugge. L’indagine sul Seviziatore la mette di fronte a qualcosa che raramente ha provato nella sua vita: il dubbio. E dopo anni di delitti sempre uguali, il dubbio è un precipizio che la incuriosisce. Almeno finché il serial-killer dimostra di essere altrettanto incuriosito da lei e sposta la sua pedina in una mossa impossibile da prevedere. Così Giuditta è costretta a diventare protagonista dello spettacolo e a dare nuova forma a un segreto che fa deflagrare la sua vita in un’allucinazione cosmogonica da cui sembra impossibile risvegliarsi. La verità non teme verità.
Paola Barbato è nata a Milano nel 1971 e vive sul lago di Garda. Dal 1998 è sceneggiatrice di Dylan Dog Paola Barbato, smesse le vesti di sceneggiatrice di Dylan Dog, ha descritto un incubo di parole che tagliano come lame. Bilico è un romanzo senza paragoni. Bilico è l’inganno e il terrore. Bilico svela l’unica vera scrittrice di thriller italiana.
Capitolo primo Il primo molare era stato tranciato alla base. Il premolare accanto, invece, nel momento dello scatto della pinza aveva ceduto, fuoriuscendo dalla gengiva con tutta la radice, e ora penzolava verso l’esterno, appoggiato al labbro. Gli incisivi erano stati un gioco da ragazzi, si erano allegramente dimezzati riducendosi a patetici monconi che si affacciavano dalla loro tana di carne. Giuditta scattò una foto. Sì, va bene, non era sua competenza scattare le foto, ne avrebbe avute a dozzine da studiare, ma era sempre stata certa di avere un occhio clinico, una visione «laterale» delle cose, la capacità di far emergere i dettagli invece del soggetto protagonista. Con i guanti in lattice di polietilene, di una misura troppo grande per le sue mani grassocce da bambina, frugò bene la bocca dell’uomo sotto la lingua. Le venne spontaneo constatare ancora una volta come la densità del sangue rappreso avesse una certa affinità con quella del sangue mestruale. «Morte per infarto miocardico acuto. L’assassino gli ha tenuto aperta la bocca con un divaricatore, reperto numero…» controllò la cartelletta «… sette. Ha immobilizzato la vittima legandola alla sedia e poi le ha tranciato alla base tutti i denti sani che le rimanevano in bocca per un totale di…» ulteriore controllo alla cartelletta «… quindici. Quattro incisivi, un canino, due premolari e due molari inferiori; due superiori, due incisivi e due canini. Ha avuto la cura di togliergli i ponti e un piccolo apparecchio prima di cominciare.» Pausa. E va bene, sottolineiamo l’ovvio. «La vittima è morta per il dolore. Non gli ha retto il cuore. Non ci sono altre cause conosciute.» Spense il registratore. Silenzio religioso, come sempre. Nei telefilm le criminologhe, le psichiatre criminali americane, le addette della scientifica sono sempre alte, belle e con uno sguardo dolente. Gli uomini le guardano con reverenza e temono di avvicinarsi troppo, quasi la figura femminile venisse rivestita di un alone etereo dovuto al contatto con la morte. Lei era bassa, tozza, né bella né brutta, copriva un po’ tutte le mansioni e con le sue alter ego televisive aveva un unico punto in comune: spaventava gli uomini. Non era sempre stato così, ma lo era da qualche tempo. Probabilmente per il fatto che non distoglieva lo sguardo. Quale che fosse la carneficina che le si presentava davanti, che fossero uomini, donne, bambini o pezzi degli uni o degli altri, Giuditta Licari non distoglieva lo sguardo. Non arricciava il naso di fronte all’odore di sangue, urina, feci e morte che ammorba l’aria di ogni luogo del delitto (ed è prassi aprire le finestre solo dopo la rimozione dei corpi), non provava nemmeno un sussulto di empatia per lo strazio a cui assisteva, non ricollegava la scena alla sua causa diretta: urla, dolore, paura. Delirio. Crudeltà. Per lei erano concetti astratti. C’erano dati da riportare. Una gamba ritrovata dietro una scrivania? Era un reperto con un rudimentale disegno in gesso tutt’intorno, un campione di sangue da prelevare, una prova da preservare con cellophane e guanti asettici. Nient’altro. Non era «diventata così da», come molti colleghi sostenevano, cercando di dare una dimensione umana alla sua assoluta estraneità. Era sempre stata così. Giuditta Licari era sempre stata così. * * * Si erano spenti come fiammelle senza ossigeno i commenti dei compagni di scuola, così come i bisbigli nei corridoi al suo passaggio, da che era ancora bambina. La prima della classe, il massimo dei voti ottenuto con la disinvoltura di chi semplicemente impara. Sarebbe stata un bersaglio facile, con quella pelle grassa, i capelli sempre unti e appiccicati alla fronte anche in inverno, la corporatura tozza che con la pubertà invece di «fiorire» si era limitata ad assestarsi in un paio di tette solide e fianchi compatti. Ma già allora a ogni battutina, a ogni commento o dispetto, Giuditta rispondeva alzando lo sguardo e sorridendo appena. Come se fosse stata una spettatrice, invece che la vittima dello scherzo. Ben presto, più presto di quanto non ci si potesse aspettare, l’interesse crudele dei bambini verso chi è diverso, si era attutito, ovattato. Giuditta aveva preso la licenza media con il massimo dei voti, presentando una bella tesina sul pittore olandese Hieronymus Bosch, aveva proseguito diplomandosi con sessantasessantesimi al Liceo scientifico, si era iscritta a medicina, inanellando un esame dietro l’altro, un trenta dietro l’altro, con o senza lode. A chi le chiedeva come potesse attendere calma il suo turno per l’esame, senza nemmeno ripassare, rispondeva con il solito sorriso vacuo che lei sapeva, aveva studiato, non c’era ragione di avere paura. Aveva aperto la pancia alla prima rana senza un brivido, senza battere ciglio. Aveva sezionato il primo cadavere con lo stesso distacco, mentre la sua compagna di esercitazione dava di stomaco. Il suo nome era finito su una lista che era passata di mano in mano e da un certo momento in poi aveva saputo che la sensazione di essere tenuta d’occhio non era priva di fondamento. Si era laureata senza una sbavatura, entro l’anno accademico, con centodiecielode e una tesi intitolata Tossicologia forense nel processo penale. Studio retrospettivo su una casistica di decessi per avvelenamento indotto da metalli pesanti, per la quale aveva visitato gli obitori di mezza Italia e aveva ottenuto anche una riesumazione. Poi la specializzazione in anatomia patologica. Poi quella in psichiatria. Contemporaneamente l’inizio della collaborazione con la polizia, che naturalmente durava già da qualche anno in maniera riservata e ufficiosa. Di lei si sapeva tutto quello che c’era da sapere, non c’erano ombre né misteri, nessun trauma infantile da indagare, nessuna famiglia disastrata alle spalle, solo due genitori orgogliosi di origini modeste, il padre con la tendenza ad alzare la voce ma non le mani, la madre con quella di vedere nella figlia adorata una bellezza che non c’era, non c’era stata, non ci sarebbe stata mai. Una vita dedicata allo studio prima e al lavoro poi, qualche sporadica relazione, un appartamento e un’auto di proprietà, quarantun’anni dichiarati. Eppure molti dei suoi colleghi sarebbero stati pronti a giurare che Giuditta Licari non avesse mai vissuto, nemmeno un giorno della sua vita. * * * Naturalmente avevano torto. C’era un mondo intero che apparteneva a Giuditta Licari. Solo che tutti lo cercavano nel posto sbagliato, al di fuori di lei. Paradossalmente il suo distacco da ciò che la circondava derivava da una spasmodica curiosità innata che coinvolgeva tutto, vita e morte, senza alcuna distinzione. La scelta di un determinato colore di reggiseno, lo studio dei massimi sistemi, i tempi del rigor mortis, tutto rappresentava LA domanda. E ogni domanda, ogni urgenza di sapere, ogni avidità di conoscenza andava appagata subito, senza mezze misure, senza perdite di tempo. Il SAPERE, la capacità di DISCERNERE, avevano dato alla sua esistenza l’unico senso che le sembrava possibile. La noia, l’apatia, l’abulia rappresentavano per lei un vero inferno. Aveva brancolato per diversi anni, sprofondata nello studio di quanto fosse avvenuto nel diciassettesimo secolo, nei misteri della fotosintesi, nella immutabilità delle regole aritmetiche, trigonometriche, logaritmiche, e sempre, a lavoro concluso, le restava un senso di vuoto. Avrebbe potuto approfondire ogni tipo di dettaglio, affrontare ogni genere di esercizio, ma erano solo palliativi, l’essenza di ciò che voleva sapere era già stretta nel suo pugno piccolo e sudato. Fu per un caso, per una banalità estrema, che venne illuminata: ascoltando una discussione tra compagne di scuola su quale rossetto abbinare a un determinato ombretto. E l’ombretto al mascara, e il trucco all’acconciatura, e l’acconciatura al vestito, e il vestito all’occasione in cui indossarlo, e l’occasione allo scopo recondito che nascondeva, l’apparire, il mostrarsi, il far colpo definitivamente su quel Gianluigi ancora reticente che dietro i Ray-Ban nascondeva forse emozioni che potevano essere tradite dalla visione di quell’abito abbinato a quell’acconciatura e a quel trucco, quel mascara, quell’ombretto, quel rossetto. La Natura Umana colpì Giuditta come uno schiaffo. Eppure, santiddio, era sempre stata lì, intorno a lei, un materiale immenso a sua disposizione, una serie smisurata di prototipi unici, forse raggruppabili in gruppi e sottogruppi, ma inesauribili fonti di conoscenza e appagamento di curiosità. Perché Linda si stirava i capelli quando stava meglio con i suoi ricci naturali? Perché il professor Andreasi scendeva dalla cattedra quando doveva spiegare? Perché la bidella del secondo piano chiudeva sempre a chiave il bagno, dopo la ricreazione, solo perché tutti andassero a cercarla per riaprirlo, spinti dall’urgenza dei loro bisogni fisiologici? Le dava un senso di potere? Davvero la chiave di un cesso poteva dare senso all’esistenza di una donna? Giuditta, quindici anni compiuti a marzo, comprese allora quale sarebbe stata la sua materia di studio per il resto della vita: gli altri... Recensioni: http://libri.rcslibri.it/docs/3498.pdf http://libri.rcslibri.it/docs/3473.pdf http://libri.rcslibri.it/docs/3464.pdf Fonte: rizzoli.rcslibri.corriere.it Ultime Visioni: Crash - Contatto Fisico (***) Il Conto E' Chiuso (*) L'Era Glaciale (***) Il Castello Errante di Howl (***) H2Odio (**) L'Era Glaciale 2 - Il Disgelo (***) Nudo e Selvaggio (**) |