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Nick: Bostik
Oggetto: Bobbio
Data: 9/1/2004 18.2.49
Visite: 169

Non c'è una categoria Cultura qui sul forum (mi pare anche giusto, visto il livello)

Vabbé, comunque, Norberto Bobbio è morto.
Nel mestiere di giornalista quando un personaggio
è in punto di morte si scrive il cosiddetto "coccordillo", ovvero un articolo che ricordi vitamortemiracoli del personaggio in questione,
aspettando il ferale evento per metterlo in pagina.

E tra i coccordilli migliori c'è quello dell'Unità
che copioincollo qui, rendendomi conto che il 2 % delle persone che hanno aperto il post e letto le prime tre parole, arriveranno fino in fondo per leggere tutto.

Comunque sia, visto il mare magnum di stronzate,
ogni tanto, un po' di cultura ci sta bene) come il rosso sul viola).

Di Bobbio consiglio "Destra e Sinistra", un libricino piiiccolo piccolo, edito da Donzelli (mi pare).



E' morto Norberto Bobbio, grande maestro civile
di Bruno Gravagnuolo - da L'Unità

E' morto a Torino Norberto Bobbio. Aveva 94 anni. Filosofo, benché abbia scelto di non impegnarsi mai direttamente nella politica attiva, ha sempre tuttavia partecipato con passione al dibattito politico nazionale, diventando per molti un punto di riferimento fondamentale. Aderisce al Partito d'Azione nel 1942 ed è attivo nella Resistenza, venne arrestato dai fascisti nel 1943. Nel 1984 il presidente Pertini lo nomina senatore a vita.


La prima volta che ci imbattemo in Bobbio fu nei primi anni settanta. Si trattava di un volume dalla spessa e preziosa filigrana, con caratteri netti luminosi e spaziati. Volume prezioso per fattura editoriale, con copertina rigida in cartoncino patinato. Verde e bianca. Era il «Da Hobbes a Marx», edito da Morano. Una di quelle letture in apparenza accademiche, ma decisive per la formazione di un giovane studente di filosofia, per nulla abitutato al sottile metodo delle distinzioni giuridiche in materia di storia delle idee. Era composto di due parti quel libro. La prima dedicata a Thomas Hobbes. La seconda alle intepretazioni di Marx. In mezzo c’erano un paio di saggi sul giusnaturalismo tra Leibniz e Pufendorf. Perché le pagine di quel volume ci incantarono subito? In parte lo abbiam detto.

Era insolito per noi l’approccio analitico e sottile, che squadernava poco a poco gli strati concettuali di un’autore come il «giusnaturalista» Hobbes. Giungendo, quasi per magia intellettuale, a rovesciare le apparenze del testo scritto. E però non per colpi di intuizione o di suggestione ermeneutica. Bensì inesorabilmente, al rasoio. Per controprove ragionate e rimandi architettonici. Fino a capovolgere l’assunto iniziale da cui la «vulgata» su Hobbes era sorretta.

Ci eravamo imbattuti in un metodo, in un canone e in uno stile di pensiero. In un modo coerente di concepire le idee. Non più esposte come baluginamenti o folgorazioni, ma come congegni della mente. Congegni fabbricati a strati, e perciò da dipanare come piccoli orditi, ciascuno delle quali rimandava ad antecedenti e assunti fondativi, da fissare a loro volta problematicamente. Nel caso in esame - Hobbes per l’appunto - attraverso le diafane sequenze dei ragionamenti e dei riscontri testuali, balzava in evidenza la natura convenzionalistica e «utilitario-positiva» del cosidetto «giusnaturalismo hobbesiano», niente affatto basato su un «obbligazione» di tipo cristiano. Ma sulla «ferinità» della natura umana. Costretta - per ragioni di autonconservazione della specie - a scegliere la via della «pace da perseguire» e della «pace da conservare». A optare in altri termini per un’autoregolazione pattizia che delegava tutto a un terzo - il Sovrano - in quanto emanazione della stessa volontà pattizia contro la guerra civile sempre latente tra gli uomini. Hobbes dunque come assolutista razionale e coerente, ma insieme anche come vero capofila di quell’indiviualismo contrattualista che solo più tardi troverà coerente sistemazione metafisica nell’individualismo liberale di John Locke. E non solo. Perché, sulla falsariga di quella ricerca magistrale, si intravedeva anche il problema di Jean Jacques Rousseau. Il problema della sovranità totale, autofondata e unica. Assiologicamente nemica di ogni divisione del potere e di ogni garanzia per le minoranze.

Ecco, la premessa non breve ci era necessaria, per ricordare con affetto e gratitudine Norberto Bobbio, figura chiave di un’autobiografia generazionale (la nostra) senza la quale non saremmo quel che siamo. E le nostre idee sarebbero altre. Il richiamo a quel testo hobbesiano funziona a meraviglia, non certo per mere ragioni biografiche. Ma poichè in esso c’era il paradigma di tutto quel che Bobbio fu sul piano teorico. Ovvero, il metodo delle distinzioni rigorose. La scepsi (e lo scetticismo) sui fondamenti. La virtù comparativa e classificatoria sulle «forme di governo». L’attenzione al codice genetico della teoria democratica. La distinzione tra valori e fattualità giuridica positiva. L’attenzione infine a quel che è il «proprium» della «democrazia dei moderni». Democrazia che bobbianamente è realtà formale. E che solo in quanto è formalità rigorosa - composta cioè di regole e universali procedurali- è altresì vera democrazia. Sono temi che Norberto Bobbio andrà elaborando lungo tutta una vita, in un intreccio con la vita pubblica mediato eppur visibile. All’interno di cui la distinzione tra politica e cultura, sarà appunto distinzione sinergica e sintonica, e mai indifferenza. In un rapporto a distanza capace di inchiodare sempre la politica alle sue responsabilità etiche. E sempre la cultura alle sue responsabilità politiche. Con coraggio, spregiudicatezzaa, passione. E fuori da ogni organicità o fedeltà di partito.

È grazie all’altezza di questo rapporto aureo, praticato con rigore e nobiltà, che Bobbio ha potuto assurgere a maestro civile. Che è stato ascoltato con rispetto e deferenza anche dai suoi avversari teorici (Della Volpe, Togliatti, i cattolici, gli esistenzialisti avversi al suo razionalismo critico). E che ha potuto far breccia in tanti giovani cresciuti all’ombra del marxismo italiano del dopoguerra, ai quali il maestro chiedeva di riflettere con onestà, e non già di far proprie abiure o conversioni mirabolanti e recriminatorie. C’è una leggenda su Bobbio, un’odiosa diceria propalata dai neomoderati italiani che a più riprese gli hanno rinfacciato l’essere stato prono e «nicodemista», rispetto all’egemonia marxista. E di averlo fatto all’insegna di un’azionismo virtuista e ortodosso, che avrebbe assecondato il consenso alla cultura comunista. Niente di più falso e bugiardo. E una prova sta proprio in quel «Da Hobbes a Marx» che ci è capitato di citare all’inizio. Non solo il metodo analitico razionale di Bobbio era totalmente estraneo allo storicismo nostrano marxista. Ma proprio la seconda parte di quel libro parlava chiaro su Marx. Del pensiero di Marx, il filosofo metteva infatti in evidenza il tratto profetico e «giudaico-cristiano», indistricabilmente connesso alla sua parte scientifica e prognostica. Distinguendo in Marx tra scienza e ideologia, «aporie» teoriche e diagnosi fondate. E invitando a leggere quel grande pensatore come un «classico», e non già come un prontuario infallibile dell’avvenire.

Giocava senz’altro in Bobbio la lezione revisionista di Rosselli, a sua volta ammestrato da Croce e da Bernstein. E soprattutto l’attenzione spasmodica a una «sovrastruttura», che invero sovrastruttura non era affatto: il diritto. Un dimensione per Bobbio inestirpabile dalla ragione e dalle vicende umane, e che egli aveva cominciato ad esplorare sistematicamente come allivo di Gioele Solari a Torino negli anni trenta, e poi a Camerino, a Siena e a Padova come ordinario di Filosofia del diritto. Bobbio dunque studioso pionieristico del diritto su basi «fenomenologiche». Su basi analitiche e anglo-americane. E ancora su basi kelseniane, in una prospettiva che riformava dall’interno la «Teoria della norma pura» di Hans Kelsen, incapace di dar conto su basi formali del necassario passaggio dal liberalismo allo «stato sociale democratico». Fu in virtù di queste armi teoriche che il liberal-socialista Bobbio diede battaglia sul nesso politica-cultura negli anni cinquanta. Misurandosi anzitempo sui temi dell’«egemonia gramasciana», eccentrica rispetto alle regole liberal-democratiche. E sempre su queste basi Bobbio sfidò Marx stesso, che non contemplava una «teoria dello stato» e anzi la elideva. La democrazia non era «finzione», e nemmeno alienazione feticistica e formalistica. Era un insieme di regole che traducevano ben precise premesse valoriali e di fatto. Ovvero, le premesse e i valori dell’individualismo democratico sottese alla sovranità democratica, come «divisione dei poteri» e insieme di «tecniche per il ricambio di potere senza violenza».

Netta era la distinzione in Bobbio tra «tecniche e valori». Benché non altrettanto risolto fosse il nesso tra prime e seconde. Un tema questo su cui egli si arrovellò a lungo, oscillando tra l’idea di una democrazia sempre integralmente compiuta entro i meccanismi procedurali. E la visione dinamica di una democrazia da compiersi proprio grazie all’applicazione di quei meccanismi a tutta la vita sociale. E a tutte le sfere istituzionali, private e pubbliche. Ma l’oscillazione rimaneva feconda e comunque rigorosa. Saldamente presidiata dal primato, in ogni caso, della legalità democratica. Sempre insidiata dall’arbitrio, magari sotto forma di giustizia o di giustizialismo. «Governo delle leggi, governo degli uomini», amava ripetere come in un «mantra». Specie quando entrava in questione un’altro degli autori da lui amati e criticati: Carl Schmitt, erede romantico e decisionista di Hobbes. La questione era tutta lì al tempo di Berlusconi, telecrate e populista per l’ultimo Bobbio. Nonchè emblema dell’arbitrio che può convertire la democrazia nel suo contrario, sul filo delle leggi «forzate» dagli uomini e dal loro potere carismatico e censitario.

Altro grande tema bobbiano: il pacifismo. Anche qui traspariva una dicotomia, un paradosso. Da un lato il conflitto era ineliminabile per Bobbio. Inseparabile hobbesianamente dall’arte politica, e per così dire inscritto nel suo destino «polemico». Dall’altro la guerra, pur latente, era diventata impossibile nell’era atomica. Contenuta dalla «deterrenza» come «arbitro» nell’era dei blocchi, la guerra riproponeva il suo volto catastrofico con la fine degli equilibri geopolitici. La pace era perciò un «valore necessario», ma a suo modo impotente come ogni valore. La si sarebbe dovuta dotatare di armi politiche, istituzionali e di opinione. Scontando però il rischio dell’arbitrio universalista, e di un nuovo Leviatano cosmopolita. Non certo quello che sognava il confederalista Kant. Anche qui: valori e fatti. Come ricongiungerli, se non con una sorta di lavoro di Tantalo etico-politico, peraltro inerme e senza garanzie? E da ultimo, il grande canto del cigno di Bobbio. Il confronto e la distinzione «destra-sinistra», croce e delizia di un’epoca incline ad annegare storie, identità e radici nella notte dell’omologazione liberal-conservatrice (magari in nome del fondamentalismo occidentalista o del rilievo dato al conflitto delle «differenze»).

Con gesto sicuro, nel 1994, Norberto Bobbio torna a squadernare i problemi classici della filosofia politicae, in un nitido libretto Donzelli destinato a far scuola. È consapevole che l’«egualitarismo» non basta e che l’eguaglianza è sempre segnata da «diversità». Sa bene altresì che «l’autorità» gioca un ruolo, soprattutto nei regimi totalitari. E che la Tradizione e l’asimmetria di potere mettono fuori gioco il mero rimando all’eguaglianza sociale conclamata. Quale eguaglianza allora? Quella assoluta e comunistica? Quella formale e liberale? Quella delle condizioni di partenza o di arrivo? Risposta: l’eguaglianza come ideale regolativo è quella vera. Quella che parifica tutte le assimmetrie via via avvertite come ingiuste, e che frenano il libero sviluppo della liberta di tutti e di ciascuno. L’eguaglianza come «stella polare» della sinistra. Schematizzando: di qui il «gerarchico» Nietzsche, di là l’egualitario Rousseau. Schema brutale, specie per quel che attiene all’interpretzione di Nietzsche (da Bobbio detestato). Ma efficace nel sistemare tendenzialmente la questione. E rilanciare sul piano pratico la cogenza del paradigma welfarista e antifascista, centrale sino all’ultimo, anche nel Bobbio che rivalutò l’anticomunismo democratico. Infine un’episodio amaro, che rattristò non poco il filosofo. La scoperta di una missiva a Mussolini del 1935, nella quale Bobbio si smarcava dall’antifascismo perseguitato a Torino, per salvaguardare il suo lavoro universitario. Contro la canea moralistica scatenata da destra, Bobbio dichiarò l’inescusabilità del suo gesto di allora, la cui cattiva coscienza non gli aveva mai dato tregua (aveva poco più di 25 anni). In una con la mortificazione inflittagli da quel regime che costringeva gli uomini a umiliarsi. Si mise a nudo il vecchio filosofo, con dignità e coraggio al modo di Seneca, e senza recriminazioni contro chi aveva voluto inchiodarlo meschinamente a quel lontano passato. È stato proprio allora che lo abbiamo amato e ammirato di più.



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Bobbio   9/1/2004 18.2.49 (168 visite)   Bostik
   Le opere   9/1/2004 18.14.3 (55 visite)   Bostik
   re:Bobbio   9/1/2004 18.19.42 (69 visite)   Corum
      x Corum   9/1/2004 18.27.44 (58 visite)   Bostik
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               re: DOCET   9/1/2004 19.0.30 (41 visite)   Corum
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   re:Bobbio   9/1/2004 18.58.56 (39 visite)   DOCET
   re:Bobbio   9/1/2004 19.3.29 (43 visite)   write

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