Nick: DOCET Oggetto: uguale!!! protesi III Data: 4/2/2004 9.55.14 Visite: 228
CARICHI EXTRASSIALI SU IMPIANTI OSTEOINTEGRATI INTRODUZIONE. La prevedibilità e la longevità delle ricostruzioni protesiche supportate da impianti osteointegrati sono oggi eccellenti. I risultati di vari studi multicentrici riportano percentuali medie di successo a 5 anni del 98% per il mascellare superiore e del 99 % per la mandibola53. I fattori principali che determinano il successo degli impianti osteointegrati sono: • accurata selezione del paziente • utilizzo di un sistema implantare validato • corretta pianificazione del trattamento chirurgico e protesico • corretto protocollo chirurgico • realizzazione di un restauro protesico adeguato • appropriato follow-up con controlli igienici periodici. Le cause principali dei fallimenti dell' osteointegrazione sono da identificare in: • trauma chirurgico, • infezioni, • fumo di sigarette, • fattori biomeccanici, • scadente qualità dell' osso e • condizioni sistemiche del paziente. 1 FALLIMENTO IMPLANTARE. I fallimenti implantari vengono distinti in precoci (quando si verificano a breve distanza di tempo dal posizionamento chirurgico delle fixture) e tardivi. I fattori più importanti che determinano il fallimento precoce sono: trauma chirurgico, associato ad una ridotta capacità di guarigione dei tessuti, e infezione dei tessuti perimplantari. Il fallimento tardivo è invece causato principalmente da fattori biomeccanici e dalla perimplantite, che consiste in un' infezione cronica progressiva dei tessuti marginali. E' stato dimostrato da diversi studi clinici e sperimentali che l' accumulo di placca intorno agli impianti provoca un' infiammazione della mucosa perimplantare e, successivamente, un progressivo riassorbimento dell' osso marginale 1, 2 - 9. Anche condizioni anomale di carico occlusale possono, tuttavia, causare la perdita di tessuto osseo marginale. Alcune volte possono determinare la perdita completa dell' osteointegrazione implantare, anche dopo un lungo periodo di funzione 10. La correlazione tra condizioni alterate di carico occlusale e fallimento degli impianti osteointegrati è supportata da vari studi clinici e sperimentali. In uno studio multicentrico, Sanz e coll.ll hanno selezionato 12 pazienti con impianti Branemark falliti che, in base a parametri clinici e radiografici, sono stati divisi in 2 gruppi, a seconda della presenza o meno di infezione perimplantare clinicamente evidente. I prelievi bioptici effettuati su questi pazienti sono stati sottoposti ad analisi per mezzo della microscopia ottica. dell' istometria e della microscopia a trasmissione di elettroni. Gli impianti falliti in presenza di segni clinici di infezione si accompagnavano ad una notevole migrazione di cellule infiammatorie attraverso l' epitelio e alla presenza di un ricco infiltrato connettivale, costituito principalmente da plasmacellule e cellule mononucleate; gli impianti falliti in assenza di infezione mostravano, invece, una condizione di salute della mucosa perimplantare senza segni di flogosi. I tessuti molli perimplantari reagiscono, infatti, all' accumulo di placca con una risposta infiammatoria, in maniera analoga ai tessuti parodontali. Questi risultati suggeriscono che, probabilmente, il fallimento degli impianti del secondo gruppo è da imputare a cause di natura biomeccanica. In un altro studio 12, Esposito et al. hanno eseguito un' analisi immunoistochimica di siti implantari (Branemark) falliti tardivamente in assenza di evidenti segni di infezione. I risultati sono stati confrontati con due gruppi di controllo, il primo comprendente sei impianti circondati da mucosa clinicamente sana, il secondo quattro impianti stabili circondati da tessuto iperplastico. Il fallimento degli impianti (perdita dell' osteointegrazione) si manifestava con la comparsa di una radiotrasparenza perimplantare e di mobilità. Gli impianti falliti erano stati circondati da uno strato di tessuto connettivo ricco di macrofagi, linfociti e plasmacellule, mentre raramente sono stati osservati granulociti polimorfonucleati (PMN). In alcuni casi nei quali era rimasta intatta l' interfaccia tra tessuti molli e impianto, veniva inoltre osservata una chiara migrazione apicale dell' epitelio. Il primo gruppo di controllo ha mostrato un infiltrato cellulare meno abbondante rispetto ai fallimenti, mentre nel secondo gruppo si è rilevata invece un' intensa attività immunitaria ed infiammatoria ed un ricco infiltrato con numerosi PMN. Gli impianti falliti hanno quindi presentato una risposta infiammatoria di tipo cronico dei tessuti circostanti, mentre nei tessuti perimplantari iperplastici del secondo gruppo di controllo si è riscontrata la presenza di un processo flogistico acuto. Da questi risultati, gli autori hanno dedotto che l' infezione non è stata l' agente eziologico dei fallimenti tardivi. Rosenberg e coll.13 hanno riscontrato che gli impianti persi in assenza di infezione mostrano profili batteriologici differenti rispetto agli impianti falliti per cause infettive. Nel secondo caso, agli esami microscopici e colturali, una percentuale di circa il 42% della microflora coltivabile risultava costituita da spirochete, fusobatteri, bastoncelli Gram- ed altri microrganismi parodontopatogeni, mentre, al contrario, gli impianti sospettati di fallimento per presunti motivi biomeccanici presentavano una microflora compatibile con la salute parodontale costituita principalmente da streptococchi. I fallimenti da cause infettive e meccaniche sono, quindi, due fenomeni microbiologicamente e clinicamente distinti. Da una revisione della letteratura sui fallimenti tardivi degli impianti Branemark è emerso che dopo più di un anno di carico i fattori meccanici sono stati responsabili di quasi il 90% dei fallimenti mentre i fattori infettivi di quasi il 10% 14,15. Bisogna tuttavia distinguere, nell' ambito dei problemi legati al carico occlusale, alterazioni qualitative e quantitative. L' alterazione qualitativa consiste nel carico extrassiale, un carico la cui direzione di applicazione non è diretta secondo l' asse lungo dell' impianto, ma forma con esso un angolo. L' alterazione quantitativa si identifica invece con il sovraccarico, un carico di entità eccessiva che può oltrepassare la resistenza meccanica del tessuto osseo e/o dell'impianto. 2 PERDITA DEL SUPPORTO OSSEO IN RELAZIONE AL CARICO OCCLUSALE. 2.1 TRASFERIMENTO DELLO STRESS DAGLI IMPIANTI AL TESSUTO OSSEO. Un punto critico che influenza il successo o il fallimento degli impianti osteointegrati, è la modalità con cui essi trasferiscono gli stress meccanici al tessuto osseo. E' fondamentale che ne gli impianti, ne l' osso, vengano sottoposti ad uno stress superiore al loro limite di affaticamento meccanico. All' atto dell' intervento chirurgico, è anche necessario evitare la mobilità dell' impianto, che può determinare un'usura del tessuto osseo ed il progressivo allentamento della fixture. L' osteointegrazione è consentita dalla stretta apposizione del tessuto osseo intorno all'impianto, con una distanza tra le due superfici di soli 20nm, spazio occupato da proteoglicani e sottili fibre collagene. Il titanio è un materiale più rigido dell' osso, con un modulo di Young di circa 1,1 x 1011 N/m2. Il modulo di Young dell' osso midollare è invece nell'ordine di 1010 N/m2, mentre l'osso corticale ha un modulo di elasticità più basso dell' osso midollare. Le proprietà dell' osso sono, tuttavia, variabili nei vari soggetti, a differenza di quelle del titanio che sono costanti e sembra che soprattutto l' osso corticale sia più soggetto a variazioni. L' impianto osteointegrato e l' osso circostante possono essere considerati come due strutture aventi tra loro un perfetto adattamento, con assenza di stress in entrambe, prima dell' applicazione dei carichi. La stretta apposizione dell' osso intorno all' impianto significa che, in condizioni di carico, l' interfaccia non andrà incontro a movimento e, quindi, sarà in grado di trasferire gli stress uniformemente in tutti i suoi punti. Quando una protesi fissa è supportata da impianti, si viene a determinare una struttura nella quale la distribuzione dei carichi applicati dipende dalla rigidità delle diversi componenti implantari, dal numero degli impianti, dalla geometria del loro posizionamento e, infine, dalla forma e dalla rigidità della protesi stessa l6. Dal momento che un impianto osteointegrato stabilisce un legame intimo con il tessuto osseo, ci si può aspettare che la risposta ai carichi sia elastica e che la deflessione della fixture sia proporzionale al carico applicato su di essa. Sono state anche realizzate delle formule matematiche per calcolare, per un dato carico P, la forza F che agisce su ciascuna fixture, sia in caso di carichi orizzontali (1), che verticali (2) (Skalak 29). (1) F1 = P/N nF + Pe/ΣR12 Rini (2) F1 = P/N + P(Axi + Byi) Il risultato di queste equazioni è che, generalmente, la forza che si scarica su ogni impianto è minore del carico totale, e l' impianto più vicino al punto di applicazione del carico deve sopportare la forza maggiore. Le forze che si scaricano sugli impianti possono però raggiungere valori uguali o maggiori del carico totale applicato, se la geometria del manufatto presenta delle particolarità, specialmente se nel suo disegno sono stati incorporati dei cantilever (estensioni non supportate ). In alcuni casi la forza che si scarica su un impianto può arrivare ad essere 1,5-2 volte maggiore del carico totale. Questa situazione può essere tollerabile solo se il singolo impianto ha la capacità di sostenere tutto il carico applicato, e questo può accadere nella mandibola mentre sembra difficile che si possa verificare nel mascellare superiore. Dai risultati che si ottengono con queste formule matematiche si evince quindi che, quando possibile, sarebbe meglio utilizzare un numero maggiore di impianti perché così si riduce, generalmente, la massima forza che si scarica su ogni impianto. Questa soluzione però, se da un lato sembra intuitivamente risolutiva dall' altro ostacola il raggiungimento del passive fit (adattamento passivo ) da parte del manufatto protesico. Maggiore è, infatti, il numero degli impianti solidarizzati rigidamente, maggiori sono le difficoltà di ottenere un buon adattamento del restauro protesico sugli abutments. Il cosiddetto "active misfit" viene da molti autori ritenuto causa di varie complicanze biomeccaniche quali la frattura delle componenti implantari, lo svitamento delle viti ritentive, la perdita dell' osso marginale e, infine, la perdita dell' osteointegrazione 17. Esso determina, durante la funzione, un aumento dello stress di taglio che si viene ad esercitare sulle strutture implantari, in virtù dell' assenza di un intimo contatto tra abutment e protesi18 (Fig. 5 da Weinberg18). a b Fig. 5a: buon adattamento marginale Fig. 5b: scarso adattamento marginale con aumento del/o stress di taglio (shear stress). In realtà è stato dimostrato che il raggiungimento di un completo passive fit non si realizza mai e che ci sono sempre dei livelli, seppur minimi, di imprecisione. Esiste, tuttavia, un' elevata tolleranza biologica dell' oste integrazione nei confronti di livelli clinicamente accettabili di imprecisione per cui, allo stato attuale, non ci sono dati che confermino una correlazione positiva tra adattamento del restauro protesico e insorgenza di danno biologico, ma solo di danno meccanico (svitamenti, fratture). 2.2 ENTITA' E DIREZIONE DELLE FORZE CHE AGISCONO SUGLI IMPIANTI. In base ai risultati degli studi di Frostl9, l' apposizione ossea può essere considerata come la risposta biologica del tessuto ad una stimolazione meccanica che non superi una determinata soglia. Ciò spiega ad esempio, perché delle forze ortodontiche costanti applicate su impianti osteointegrati possono determinare un ' apposizione ed un ispessimento dell' osso circostante20,21. In uno studio sperimentale di Asikainen22, sono stati inseriti venti impianti nelle ossa frontali di cinque pecore, quattro impianti per ogni animale. Dopo l'inserimento chirurgico delle fixtures è trascorso un periodo di guarigione di 3 mesi; successivamente sono stati inseriti gli abutments e, dopo altre 3 settimane, gli impianti sono stati sottoposti a trazione orizzontale con degli elastici ortodontici per un periodo di 3 mesi. Il range di forze applicato agli impianti variava da 250 a 350 grammi. Dopo il periodo di carico, gli animali sono stati sacrificati e le ossa frontali sono state fissate in formalina, sezionate e sottoposte ad esame istologico. I risultati hanno mostrato che, nei campioni esaminati, non si riscontravano segni di infezione o di perdita ossea. Da quest'analisi, quindi, non si è potuto apprezzare alcun effetto negativo delle forze laterali. Anche in un altro studio eseguito su cani, Akin-Nergiz et al. 23 hanno sottoposto 8 impianti osteointegrati a forze ortodontiche orizzontali di 2N ( circa 204g) per 12 settimane e, successivamente, di 5N ( circa 510g) per altre 24 settimane. Dopo la sperimentazione, la mobilità delle fixtures è aumentata solo leggermente, mentre all' esame istologico e all' analisi morfometrica delle sezioni gli autori hanno riscontrato un ispessimento del tessuto osseo e, quindi, una resistenza degli impianti alle forze orizzontali. In un ulteriore studio sperimentale eseguito su sei scimmie da Ogiso e coll. 24, l'incremento dell' entità del carico occlusale non ha causato la perdita dell' osteointegrazione. Gli animali hanno subito l' estrazione dei secondi molari superiori di sinistra e inferiori di destra. Dopo un periodo di guarigione, nei siti inseriti impianti rivestiti di idrossiapatite. I tre molari antagonisti agli impianti sono stati connessi con delle corone in lega Au-Ag-Pd con superifici occlusali piatte. Queste corone sono state appositamente realizzate in modo tale da creare un precontatto con le corone antagoniste supportate dagli impianti ed aumentare, di conseguenza l' entità delle forze prodotte durante la funzione. Il periodo di sperimentazione è durato da 1 a 3 mesi durante i quali è stata attentamente curata l' igiene orale. Da un punto di vista clinico non è stata rilevata alcuna mobilità degli impianti e solo una leggera mobilità delle corone antagoniste. Dopo il sacrificio degli animali, l' esame istologico delle sezioni ha mostrato un rimodellamento ed un ispessimento del tessuto osseo perimplantare con formazione di nuovo osso lamellare, di nuove trabecole e, in alcune aree, anche di osso compatto. Questi fenomeni adattativi hanno probabilmente lo scopo di ridurre la fatica funzionale del tessuto osseo alle future sollecitazioni. In contrasto con questi risultati vi sono altri studi eseguiti da Isidor, nei quali è stato dimostrato clinicamente, radiograficamente e istologicamente che un'alterazione del carico occlusale può causare la perdita totale o parziale dell' osteointegrazione di impianti precedentemente osteointegrati25,26. Lo studio di Isidor è stato condotto su quattro scimmie nelle cui mandibole sono stati inseriti 5 impianti a vite, due in ciascun settore laterale ed uno nell' area frontale. Dopo la guarigione, in uno dei segmenti laterali sono state posizionate delle protesi parziali fisse realizzate in modo tale da creare un precontatto con i denti antagonisti. Il contatto prematuro determinava un dislocamento laterale della mandibola e ha quindi permesso lo sviluppo di forze principalmente extrassiali. Gli impianti che supportavano le protesi sono stati accuratamente controllati dal punto di vista igienico, mentre sugli altri è stato favorito l' accumulo di placca con delle legature. Durante il periodo di sperimentazione (18 mesi), 5 impianti su 8 sottoposti a carico extrassiale hanno perso l'osteointegrazione in un periodo di tempo compreso tra 4,5 e 15,5 mesi. Tutti gli impianti sui quali si è consentito l' accumulo di placca hanno invece mostrato una perdita ossea marginale media di 1,8 mm, ma non hanno perso l' osteointegrazione. La differenza di risultati ottenuti dallo studio di Ogiso e dallo studio di Isidor, potrebbe essere attribuita alla diversa direzione delle forze sviluppate nell' occlusione. Nel primo studio si è creato un precontatto tra le corone su impianti e le corone antagoniste su denti naturali in modo da aumentare l' entità delle forze sviluppate, ma la loro direzione è stata principalmente di tipo assiale a causa delle superfici occlusali piatte. Nel secondo studio, invece, il precontatto tra le ricostruzioni protesiche causava un dislocamento laterale della mandibola producendo, quindi, delle forze con maggiori componenti laterali piuttosto che assiali. Dalla valutazione di questi risultati sembra, quindi, che un carico non assiale sia più dannoso per gli impianti rispetto ad un carico assiale. Questo dato è ulteriormente supportato da un altro studio sperimentale condotto su 5 cani beagle27. Gli animali sono stati sottoposti all' estrazione dei premolari e del primo molare inferiori. Dopo la guarigione, gli elementi dentari estratti sono stati sostituiti con due diversi tipi di ricostruzioni protesiche, ponte tradizionale su due impianti e protesi con cantilever su due impianti, in modo da introdurre rispettivamente condizioni di carico assiale e non assiale. Dopo 7 settimane di carico, gli animali sono stati sacrificati e sono state eseguite delle block-sections sottoposte ad esame microscopico. I risultati hanno mostrato che, a livello di tutti i siti, il rimodellamento del tessuto osseo ha subito una graduale riduzione dal terzo cervicale al terzo apicale degli impianti. Il carico assiale si è associato ad un' attività rimodellativa uniforme e l' esame istologico ha evidenziato la presenza di osteoblasti e tessuto osteoide nei tessuti perimplantari e la mancanza di osteoclasti e cellule infiammatorie. In condizioni di carico assiale si è quindi verificata una riorganizzazione del tessuto osseo ed un suo rinforzamento. Il carico non assiale ha invece determinato, nella maggior parte dei siti esaminati, un rimodellamento più dinamico dell' osso corticale e, soprattutto, dell' osso midollare, rispetto ai tessuti dei siti implantari sottoposti a carico assiale. In alcuni siti caricati non assialmente è stata inoltre osservata attività osteoclastica. Quest'ultimo dato suggerisce che, se il periodo di sperimentazione fosse stato più lungo, si sarebbe potuta osservare una perdita ossea marginale intorno agli impianti caricati non assialmente come verificatosi nello studio di Isidor precedentemente menzionato, dove gli impianti sottoposti a forze extrassiali hanno perso l'osteointegrazione in un periodo di tempo compreso tra 4,5 e 15,5 mesi dall'inizio dell'applicazione del carico. La potenziale maggiore dannosità per gli impianti osteointegrati delle forze non assiali, è accennata anche dai risultati di un' analisi tridimensionale agli elementi finiti eseguita da Papavasiliou et al.28. In quest' analisi sono stati inseriti, in modelli mandibolari, singoli impianti cilindrici IMZ sui quali sono state realizzate delle corone protesiche. Gli impianti sono stati caricati con forze di 20 e/o 200N, prima dirette secondo il proprio asse lungo (assiali), e poi inclinate di 12 gradi in direzione vestibolo-linguale (non assiali). L' analisi computerizzata ha mostrato che i valori di stress trasmessi all' osso dagli impianti caricati non assialmente sono maggiori di quelli registrati nei modelli sottoposti a carico assiale di circa 10 volte, ed inoltre che il carico assiale viene distribuito più uniformemente stressando di meno l'osso e l'impianto. I risultati di quest' analisi e di altri studi29,30 hanno mostrato anche come lo stress si concentri maggiormente nella parte coronale dell'interfaccia osso-impianto, dato che concorda con i risultati dello studio di Isidor26, nel quale la perdita ossea marginale e la perdita dell' osteointegrazione hanno avuto inizio proprio a tale livello. Ad ulteriore conferma di questi risultati, anche altri autori31,32,33 hanno rilevato un aumento delle percentuali di fallimento tardivo degli impianti e di complicanze protesiche in pazienti bruxisti o con altre attività parafunzionali che sviluppano delle forze occlusali con componenti prevalentemente non assiali. Esiste, d'altro canto, uno studio condotto da Clelland e coll.34, nel quale si è valutata l'influenza dell'utilizzo di abutments angolati sulla trasmissione degli stress attraverso un impianto. Cinque impianti a vite sono stati inseriti in un blocco di resina foto-elastica, perpendicolarmente alla superficie della resina. Un ulteriore modello in resina è stato fabbricato con un rilevatore di deformazione interno per permettere un migliore rilevamento degli stress. Sono stati inseriti gli abutments di 7 mm di lunghezza con angolazioni di O°, 15° e 20° e, successivamente, è stato applicato alla sommità di ogni impianto un carico di 178N. I modelli sono stati quindi analizzati al polariscopio circolare. L' aumento dell' angolazione degli abutments da 0 a 20 gradi, ha determinato quasi un raddoppiamento dello stress compressivo. L'incremento dello stress tensivo è stato invece di entità inferiore e si è realizzato fondamentalmente con il passaggio da 0° a 15°. Gli autori hanno anche calcolato i valori di deformazione che si sarebbero potuti riscontrare se i modelli fossero stati costituiti da osso isotropico, e li hanno quindi confrontati con i risultati di vari studi in vivo su animali. Gli effetti delle deformazioni compressive sul tessuto osseo animale sono stati classificati da Martin e Burr79 in 3 aree: area fisiologica, compresa tra 20 x 10-6 e 2500 x 10-6 (unità di deformazione); area di sovraccarico, compresa tra 2500 x 10-6 e 4000 x 10-6; area di sovraccarico patologico per deformazioni superiori a 4000 x 10-6. Per gli stress di tipo tensivo la zona fisiologica è invece compresa tra 200 e 1500 x 10-6. Tenendo in considerazione la suddetta classificazione, Clelland e colI. hanno quindi riscontrato che l'utilizzo di abutments con differenti angolazioni non ha prodotto delle deformazioni di entità tale da superare la zona fisiologica del tessuto osseo. Balshi e coll.31 hanno eseguito una valutazione a 3 anni di impianti Branemark connessi con abutments angolati di 30 gradi rispetto all'asse implantare. Sono stati analizzati 421 impianti di cui 209 con abutments angolati (casi) e 212 con abutments standard (controlli). Le percentuali di successo protesico sono state del 96,8% per il mascellare superiore e del 100% per la mandibola. Le percentuali di successo implantare al mascellare superiore sono state del 94,8% per i casi e del 91,3% per i controlli, mentre alla mandibola 94,1% per i casi e 97,4% per i controlli. Anche le condizioni di salute dei tessuti molli perimplantari sono state sovrapponibili tra i due gruppi di impianti. Dai risultati di quest' analisi, gli autori hanno quindi concluso che l'utilizzo di abutments angolati può essere considerato, al pari degli abutments convenzionali, una valida metodica nel campo delle riabilitazioni protesiche su impianti. Un 'ulteriore studio condotto da Celletti e coll.35 conferma queste conclusioni: gli autori hanno inserito in 2 primati 19 impianti che, dopo 6 mesi di guarigione, sono stati connessi con abutments di varie angolazioni e protesizzati. Un gruppo di impianti connessi ad abutments convenzionali è stato utilizzato come controllo. Il periodo di sperimentazione è durato un anno e, successivamente, sono stati eseguiti gli esami istologici dei tessuti perimplantari. I risultati hanno mostrato che sia gli impianti del gruppo sperimentale sia quelli del gruppo di controllo erano completamente osteointegrati. Anche le condizioni dei tessuti molli perimplantari erano buone con una profondità di sondaggio compresa tra 2,2 e 2,6 mm. La perdita delle corone che si è a volte verificata, è stata causata dal fallimento meccanico delle componenti, come le viti d' oro e le viti usate per connettere gli abutments angolati agli impianti. Da una valutazione generale dei risultati di questi studi emerge quindi che, probabilmente, non è tanto la direzione delle forze l'elemento determinante nel causare un danno biologico al tessuto osseo e all'osteointegrazione, quanto la loro entità e, di conseguenza, il grado di sollecitazione al quale l'osso è sottoposto. 3 REAZIONI OSSEE AL CARICO. Il tessuto osseo quando è sottoposto ad un carico va incontro ad una deformazione. Se la deformazione è notevole, ne può risultare un affaticamento e, di conseguenza, un micro-danneggiamento causato dalla fatica meccanica. In condizioni fisiologiche i processi rimodellativi sono in grado di riparare questi microdanni però, se l'osso è costantemente sovraccaricato, l' entità del microdanno sarà maggiore e, se viene superata la capacità riparativa del tessuto, si può avere un suo accumulo. In uno studio di Frostl9 è stato analizzato l'adattamento del tessuto osseo alla funzione meccanica. I risultati di questo studio indicano che, quando l' osso è sottoposto ad un carico compreso tra 1500 e 2000 μE (microstrain), subisce una deformazione dello 0,15-0,2% ed il lieve microdanno che si verifica può essere facilmente riparato. I carichi che rientrano in questo range possono determinare un adattamento del tessuto osseo mediante dei processi formativi che portano ad un suo rimodellamento e rinforzamento. Questi fenomeni adattativi hanno lo scopo, presumibilmente, di ridurre la futura fatica funzionale dell' osso quando sottoposto a stimoli meccanici. I carichi compresi tra 2000 e 4000 μE causano una deformazione dello 0,2-0,4 % con un maggiore microdanno, mentre carichi superiori a 4000 μE (deformazione dello 0,4 %) possono sopraffare i meccanismi di riparazione tissutale. In quest'ultima situazione si può avere un accumulo del danno e si può verificare un cedimento da fatica anche di un impianto osteointegrato. Nel range di carico compreso tra 2000 e 4000 μE, semplicemente raddoppiando l'entità della deformazione si incrementa l'entità del microdanno di centinaia di volte. L'apposizione ossea attorno ad un impianto può essere quindi considerata la risposta biologica del tessuto ad uno stress meccanico che non superi una certa soglia, mentre la perdita dell'osteointegrazione potrebbe essere la conseguenza di uno stress meccanico superiore a questa soglia. Questo spiega perché l' entità delle forze che si scaricano attraverso gli impianti osteointegrati sul tessuto osseo è più importante della loro direzione. E' il superamento della soglia di tolleranza allo stress che da inizio al danno biologico, e non tanto il fatto che le forze siano dirette o meno secondo l'asse lungo dell'impianto. Probabilmente, la perdita dell' osteointegrazione a causa di un carico occlusale alterato è legata ad un microdanneggiamento dell'osso tale da superare il suo potenziale riparativo. In conseguenza di ciò, si verifica la formazione, a livello dell' interfaccia osso-impianto, di uno strato di tessuto molle e, quindi, si perde la stabilità dell' impianto che diventa mobile. In uno studio istologico eseguito su scimmie in condizioni sperimentali26, si è riscontrato che la perdita dell' osteointegrazione da parte di impianti sottoposti a condizioni di carico non assiali, non si accompagna soltanto alla perdita del contatto tra tessuto osseo e superficie implantare, ma anche ad un riassorbimento dell' osso a breve distanza dalla superficie dell'impianto. Ciò potrebbe significare che il microdanneggiamento dell' osso può verificarsi non solo all'interfaccia osso-impianto, ma anche nell' osso circostante sotto forma di microfratture. Considerata quindi l' importanza della capacità del tessuto osseo di sopportare i carichi, ne risulta che una buona qualità ossea è un fattore importante per la prognosi degli impianti. Diversi studi mostrano, infatti, una correlazione statisticamente significativa tra la % di fallimenti implantari tardivi e il posizionamento delle fixtures in siti caratterizzati da un tessuto osseo di scarsa qualità, come il mascellare superiore o la regione posteriore della mandibola 36,37,38. La qualità ossea sembra influenzare la percentuale di fallimento implantare più della sua quantità39. Inoltre si è visto, attraverso l'analisi agli elementi finiti, che il posizionamento degli impianti in aree con osso che presenta un maggiore ispessimento della corticale ed una maggiore densità della midollare determina una riduzione della concentrazione degli stress. Ciò potrebbe migliorare la percentuale di successo a lungo termine29, ma va tuttavia sottolineato che il significato clinico di questo tipo di sperimentazione non è ancora del tutto chiarito. 4 SENSIBILITA' TATTILE DEL TESSUTO PERIMPLANTARE Un impianto osteointegrato è paragonabile ad un elemento dentario in anchilosi in quanto non è circondato da legamento parodontale ma è in intimo contatto col tessuto osseo, separato da quest'ultimo da uno strato di proteoglicani e sottili fibre collagene di circa 20 nm di spessore. Quindi anche i recettori normalmente presenti nel legamento parodontale mancano e questo fatto può influenzare la sensibilità tissutale quando l' impianto è sottoposto a carico nel corso dell' occlusione. E' stato infatti dimostrato che la percezione tattile a livello di un impianto osteointegrato è minore rispetto a quella di un dente naturale40 con valori di soglia fino ad 8 volte più alti41. Si è anche visto che, a causa della mancanza dei meccanismi di servoregolazione legati ad archi riflessi a partenza dai recettori parodontali, le forze masticatorie che si scaricano su protesi fisse supportate da impianti sono maggiori rispetto a quelle sviluppate da soggetti dentati42. L' assenza dei recettori parodontali espone quindi gli impianti osteointegrati ad un rischio di sovraccarico probabilmente maggiore rispetto ai denti naturali. Questo dato è confermato anche dai risultati di uno studio in cui si è riscontrata una maggiore perdita di tessuto osseo marginale in pazienti portatori di protesi fisse supportate da impianti osteointegrati in entrambi i mascellari, rispetto a pazienti con protesi implantare opposta ad una dentatura naturale 43. Inoltre, da una revisione della letteratura, è emerso che i fallimenti implantari, anche tardivi, si verificano meno frequentemente nei pazienti parzialmente dentati rispetto a quelli edentuli14. Anche quest'ultimo dato conferma, quindi, l' importanza che hanno i recettori del legamento parodontale nel regolare e controllare l'entità delle forze occlusali. E' stato osservato che esiste una correlazione positiva tra l'entità delle forze masticatorie che si scaricano su protesi parziali fisse e la quantità residua di legamento parodontale e, quindi, che la presenza di un ridotto supporto parodontale si accompagna ad una riduzione delle forze masticatorie44,45. Ciò significa che i pazienti nei quali la dentatura residua risulta parodontalmente compromessa, possono sviluppare delle forze occlusali inferiori, rispetto ai pazienti che hanno un normale supporto parodontale dei denti residui. In base a questa considerazione, il rischio di sovraccarico occlusale degli impianti potrebbe essere, nei pazienti con tessuti parodontali ridotti, diminuito. 5 DISEGNO IMPLANTARE E STRUTTURA DI SUPERFICIE. Alcuni studi che hanno realizzato analisi degli stress, mostrano che I 'utilizzo di differenti morfologie implantari può determinare una diversa distribuzione del carico occlusale all'osso46. Non sono stati ancora eseguiti, tuttavia, degli studi clinici allo scopo di comparare la prognosi dei vari tipi d'impianto; anche se sembra verosimile, quindi, che la differente morfologia possa influenzare la capacità dell'impianto e dell'osso circostante di sostenere le forze occlusali, ancora non è chiaro in qual misura ciò si realizzi. Per quanto riguarda invece la struttura di superficie, con il test del torque di rimozione47 si è visto che gli impianti con una superficie lavorata meccanicamente (Fig. 7) hanno un ancoraggio inferiore al tessuto osseo rispetto agli impianti con superficie trattata con Ti plasma-spray o sabbiata (Fig. 8) Fig. 8. Superficie implantare sabbiata con granuli di TiO2. Sono evidenti le microruvidità che determinano un aumento di suoerficie. La ruvidità di superficie e la porosità di un impianto osteointegrato possono avere il benefico effetto di creare un maggiore legame con l' osso. Le asperità superficiali sono di entità microscopica per cui si può realizzare una stretta apposizione ossea intorno alle superfici in titanio. Gli effetti benefici della ruvidità di superfice si possono infatti ottenere solo se il tessuto osseo si sviluppa intimamente in queste microirregolarità presenti sulla superficie implantare. E' stato anche ipotizzato che gli impianti con una superficie ruvida possano avere un ridotto rischio di fallimento per sovraccarico occlusale, grazie alla maggiore superficie di contatto con l'osso. Tuttavia, proprio a causa di queste asperità, tali impianti sembrano maggiormente soggetti a fallimento per cause infettive. In uno studio sperimentale sulle scimmie25,26, la struttura superficiale degli impianti non ha influenzato apparentemente il rischio di insuccesso a causa di fattori occlusali; l'effetto di questa caratteristica degli impianti sulla loro capacità di sopportare i carichi rimane, pertanto, ancora da chiarire. 6 DIAGNOSI DI ALTERATO CARICO OCCLUSALE SUGLI IMPIANTI OSTEOINTEGRATI Quando si verifica il fallimento di una ricostruzione protesica di tipo implantare, è di fondamentale importanza riuscire a comprendere quali possano essere state le cause. Solo in questo modo è possibile instaurare un corretto trattamento terapeutico e cercare di evitare future complicanze. Un impianto il cui fallimento è da imputare a cause di natura meccanica, è generalmente caratterizzato da un' aumentata mobilità, dalla comparsa, all' esame radiografico, di un' area di radiotrasparenza perimplantare e da sensibilità o dolore alla pressione non vi sono, invece, segni clinici di infiammazione della mucosa perimplantare e radiograficamente non è apprezzabile perdita di osso marginale14 (Fig. 9). Un altro segno clinico che può essere di utilità per diagnosticare la non integrazione ossea di un impianto, sebbene non sia un segno obiettivo, è la comparsa di un rumore sordo alla percussione. Un impianto il cui fallimento è da imputare invece a cause infettive, si caratterizza generalmente per la presenza di uno stato di flogosi della mucosa perimplantare. All'esame radiografico è possibile riscontrare un riassorbimento osseo marginale che può assumere una caratteristica morfologia definita a cratere, ma non è apprezzabile l' area di radiotrasparenza perimplantare (Fig.10). Clinicamente si può rilevare inoltre un aumento della profondità di sondaggio ma non un aumento della mobilità. In uno studio eseguito su scimmie da Isidor48, sono stati rilevati i valori del sondaggio clinico e l'entità della perdita ossea radiografica intorno ad impianti sovraccaricati e, successivamente, questi sono stati confrontati con i risultati degli esami istologici. La comparazione ha mostrato che la valutazione della perdita ossea effettuata con l' esame radiografico, fornisce risultati migliori rispetto al sondaggio clinico eseguito con o senza l'utilizzo di una forza di sondaggio standardizzata. La sonda inoltre non è stata in grado di rivelare la stretta zona di connettivo fibroso interposta tra l'impianto e l'osso. Tuttavia, anche con l'esame radiografico può essere difficile determinare se l'osso è in contatto con la superficie dell'impianto, in particolare quando la cresta ossea è ancora localizzata vicino al margine superiore dell' impianto. Questa difficoltà diagnostica è supportata dai risultati di uno studio clinico nel quale un considerevole numero di impianti mobili è rimasto radiograficamente in contatto con l'osso mentre impianti non mobili presentavano una radiotrasparenza perimplantare 80. Anche in un altro studio condotto su scimmie49, è stata riscontrata una forte associazione tra la mobilità di impianti sovraccaricati e il contatto istologico tra impianto e tessuto osseo. Quindi, dal momento che la mobilità implantare può non associarsi a segni radiografici di perdita di contatto tra osso e impianto, viene ritenuta il segno cardinale del fallimento implantare. 7 COMPLICANZE LEGATE ALL' ALTERAZIONE DEL CARICO OCCLUSALE. Sebbene l'utilizzo degli impianti osteointegrati sia diventato l'ultima frontiera nel campo delle riabilitazioni orali, esso non è tuttavia scevro di limitazioni e di complicanze. Esistono, infatti, in letteratura numerosi studi che descrivono reali o potenziali problemi. Le principali possibili complicanze che possono essere associate più o meno strettamente ad un' alterazione del carico occlusale sono le seguenti. 7.1 FALLIMENTO DEGLI IMPIANTI. L' incidenza della perdita degli impianti dovuta alla mancata osteointegrazione o alla perdita della stessa dopo l' applicazione del carico, è stata documentata in diversi studi 10,43,57 Le percentuali medie di fallimento implantare sono più basse nella mandibola, dove oscillano tra 1% e 5%, rispetto al mascellare superiore, dove variano tra il 10% e il 20%50. Si deve tuttavia considerare che, sebbene questi valori siano bassi, specialmente per la mandibola, la percentuale di fallimento implantare riferita al singolo paziente può essere molto più alta come si verifica, ad esempio, in situazioni di edentulia totale dove si ricorre all'inserimento di più impianti. In uno studio di Johansonn e Palmquist51 sono state riportate percentuali di fallimento del 3% per la mandibola e del 17% per il mascellare, ma si è visto che i129% dei pazienti avevano perso gli impianti. In letteratura vi sono molte documentazioni che riguardano il fallimento implantare ma raramente ne viene descritta l'eziologia. In molti casi non è possibile, infatti, determinare con chiarezza quali possano essere state le cause dell'insuccesso. Una tecnica chirurgica non corretta e/o la scarsa qualità dell' osso a livello del sito implantare sono i principali fattori ritenuti coinvolti nel fallimento precoce, legato alla mancata osteointegrazione della superficie dell'impianto. Il fallimento tardivo è associato invece a diverse possibili cause, non sempre facilmente discernibili. Tra queste vi sono: la perimplantite da accumulo di placca, il fumo di sigaretta, la scarsa qualità del tessuto osseo, il mancato adattamento del manufatto protesico, il carico non assiale, il carico eccessivo ed altri. Il carico occlusale alterato agisce probabilmente sottoponendo l'impianto osteointegrato a degli stress che superano il suo limite di affaticamento e ne determinano, quindi, il cedimento da fatica meccanica. 7.2 FRATTURA DELLE COMPONENTI. Tra le complicanze delle terapie protesiche di tipo implantare vi sono le fratture delle componenti del sistema. Esse possono interessare gli impianti, gli abutments, le viti occlusali, le corone protesiche e le protesi antagoniste. Adell e coll.10 hanno eseguito una valutazione a 15 anni di impianti Branemark utilizzati nel trattamento delle edentulie mascellari e riportano una percentuale di frattura implantare del 3,5%. Altri studi riportano percentuali che variano dallo 0% al 16% durante un simile periodo di tempo 43,52,53. Rangert54 ha condotto un'analisi su 39 pazienti nei quali si è verificata la frattura implantare ed ha riscontrato che la sua frequenza è stata più elevata nelle ricostruzioni protesiche dei settori posteriori (90%). Ha inoltre rilevato che il 77% delle protesi avevano un cantilever supportato da 1 o 2 impianti e che il 56% dei pazienti erano affetti da bruxismo o sviluppavano delle notevoli forze occlusali. Un altro dato messo in evidenza da quest'analisi, è stato che il 59% degli impianti fratturati aveva avuto precedentemente altre complicanze meccaniche quali la frattura o lo svitamento degli abutments o delle viti occlusali. Nel 92% dei casi di frattura implantare è stata anche riscontrata una perdita del tessuto osseo perimplantare (Fig. 11). E' dibattuto se il sovraccarico occlusale causi un riassorbimento osseo che riduce il supporto degli impianti determinando una maggiore suscettibilità alla frattura, o se la perdita ossea sia la conseguenza della formazione di crack nell'impianto, dovuti al carico alterato, che portano, in seguito, alla mobilità del frammento di impianto al di sopra della frattura. Nel caso di impianti Branemark, quando il livello osseo raggiunge l'area che corrisponde al termine dell'abutment, si modifica la sezione trasversale dell'impianto. Essa passa, infatti, da una forma circolare (fixture più abutment) ad una forma anulare (solo la fixture senza l'abutment) e questo causa una minore resistenza alla flessione, per cui, sia i carichi assiali che non assiali determinano la comparsa di stress più alti. La distinzione tra queste due differenti modalità di sviluppo della frattura è importante clinicamente. Nel primo caso, infatti, la comparsa all'esame radiografico di una perdita ossea può essere il segno di una situazione di carico occlusale alterato ed avere, quindi, valore diagnostico. Correggendo in questa fase la ricostruzione protesica, è possibile normalizzare le forze sviluppate dal paziente durante la funzione e, di conseguenza, ottenere una stabilizzazione del supporto osseo. Se, invece, la perdita ossea è la conseguenza della mobilità del frammento coronale dell' impianto dovuta alla presenza della frattura, vuoI dire che già si è verificato un danno irreversibile e il fallimento non può più essere evitato. Secondo Isidor è più verosimile la prima evenienza, dal momento che ha sempre riscontrato una radiotrasparenza intorno alla porzione coronale dell' impianto prima della frattura. Secondo altri autori è invece più probabile la seconda ipotesi: la frattura si verifica più frequentemente quando gli impianti sono sottoposti a condizioni di carico non assiali; sembra, quindi, più probabile che le forze extrassiali che si scaricano sul corpo dell'impianto ne determinino la deformazione e, di conseguenza, portino alla formazione e propagazione della frattura. Un impianto, essendo una struttura metallica, quando è sottoposto ad un carico si flette andando incontro a fatica flessoria. Può essere utile, per ridurre il rischio di frattura a causa del sovraccarico flessorio, aumentare il supporto implantare di una protesi incrementando il numero, la lunghezza e/o il diametro degli impianti. La maggiore resistenza alla frattura di un impianto con un diametro maggiore è spiegata dal principio fisico del momento di inerzia. Tale principio dice che un' aumentata resistenza alla deformazione è ottenuta esponenzialmente aumentando il raggio di un cilindro, mantenendo la stessa sezione trasversale. In uno studio di Morgan e colI. 55, sono state analizzate le superfici di impianti fratturati in bocca dopo un periodo di funzione compreso tra le 5 anni, e sono state confrontate con quelle di due gruppi di impianti fratturati in laboratorio sottoposti uno a carico ciclico (fatica meccanica) ed uno a carico monotonico (sovraccarico). L'analisi al microscopio elettronico a scansione ha mostrato la presenza di striature sulla superficie dei campioni clinici simili a quelle dei campioni sperimentali sottoposti a fatica, mentre, al contrario, i campioni sovraccaricati hanno presentato una superficie increspata. Da questi risultati emerge, quindi, che gli impianti si fratturano maggiormente a causa della fatica meccanica piuttosto che a causa del sovraccarico, e che il riassorbimento osseo incrementa il rischio di frattura. 7.3 FRATTURA DELLE VITI OCCLUSALI E DEGLI ABUTMENTS. La frattura degli abutments o delle viti di ritenzione delle protesi è una complicanza abbastanza comune 50,52,56. Anche se le viti occlusali sono le componenti più piccole del sistema implantare e sono quindi considerate le strutture più deboli, la frattura degli abutments si verifica più frequentemente 10,51,52. La spiegazione di ciò risiede probabilmente nel fatto che la localizzazione dell'interfaccia abutment-impianto è prossima alla cresta alveolare. A questo livello termina il supporto osseo dell'impianto e si vengono quindi a creare degli alti livelli di stress. In aggiunta, il tessuto osseo della cresta alveolare normalmente risulta costituito da una notevole componente corticale ed è per questo meno flessibile ed elastico rispetto al sottostante osso spugnoso. Anche l'incremento della rigidità ossea determina un aumento dei valori di stress che si localizzano nell'area crestale intorno al collo dell'impianto. L'interfaccia impianto-abutment si viene a trovare, quindi, proprio nella zona dove il supporto osseo termina e dove l'osso corticale ha il suo massimo spessore. La vite dell'abutment sarà soggetta, di conseguenza, a degli stress più elevati rispetto alle viti occlusali, specialmente quando le forze generate dal paziente hanno una direzione non assiale. E' questo il motivo per cui, pur essendo una struttura più robusta, l'abutment è più suscettibile di fallimento da fatica meccanica, se confrontato con le viti occlusali. Per quanto riguarda l' incidenza di queste complicanze, una dettagliata analisi di Tolman e Laney52 riporta una percentuale maggiore del 26%, ma il fatto che numerosi studi non riportino la frattura delle viti come complicanza, rende difficoltoso stabilire quale sia la sua reale frequenza. La frattura delle ricostruzioni protesiche supportate da impianti osteointegrati o delle protesi antagoniste è, infine, una conseguenza dell'incremento delle forze che il paziente è in grado di sviluppare durante le funzioni o le parafunzioni. Queste complicanze sono comunque legate maggiormente al disegno della ricostruzione protesica ed alla sua realizzazione tecnica, piuttosto che alle componenti del sistema implantare. 7.4 SVITAMENTO DELLE VITI. Lo svitamento delle viti è un evento abbastanza frequente, anche se molti autori non 10 considerano . una complicanza. Tolman e Laney52 sostengono che le viti occlusali possano andare incontro allo svitamento a causa del loro disegno e che, sebbene sia un inconveniente per il paziente e per il clinico, questo problema non possa essere considerato una vera e propria complicanza tale da richiedere un nuovo o definitivo trattamento. Lo svitamento delle viti occlusali e degli abutments può portare a delle conseguenze come l'accumulo di tessuto di granulazione tra impianto ed abutment, che può causare la formazione di una fistola, la formazione di depositi di placca tra protesi ed abutment e, infine, la frattura di queste componenti. L' incidenza dello svitamento delle viti riportata in letteratura è variabile. Naert e coll.43 hanno riscontrato una percentuale del 5%. Jemt57, d'altro canto, ha riscontrato che solo il 69,3% delle protesi hanno viti stabili al primo controllo post-inserzione. Dopo il riavvitamento, tuttavia, quasi tutte le viti precedentemente allentate, rimangono stabili, anche se altri autori hanno riscontrato che lo svitamento ricorrente è un evento non raro. Kallus e Bessing58 hanno realizzato uno studio sulla frequenza dello svitamento delle viti occlusali, esaminandone l'incidenza in un gruppo di pazienti portatori di protesi da almeno 5 anni. Hanno esaminato 278 impianti ed hanno riportato percentuali di svitamento del 40% per le viti occlusali con slot e del 10% per le viti con esagono interno. Gli autori non hanno riscontrato differenze significative nella tenuta delle viti in relazione al posizionamento degli impianti. Essi hanno inoltre correlato lo svitamento con il cattivo adattamento dell'armatura protesica (fitting). Sono state riscontrate, infatti, percentuali più alte di stabilità e di corretto posizionamento delle viti, nelle protesi in cui erano presenti gaps di entità minima, mentre 5 su 6 protesi nelle quali si è verificato un notevole svitamento avevano delle armature con gaps moderati o pronunciati. Questi autori suggeriscono di riavvitare le viti ogni 5 anni, ma sarebbe preferibile farlo anche più frequentemente e, se lo svitamento si verifica regolarmente, le viti andrebbero sostituite e riposizionate dopo un breve periodo di tempo. Da quest' analisi risulta, quindi, che l'allentamento delle viti ritentive è probabilmente dovuto ad un cattivo adattamento dell’armatura + che all'alterazione del carico occlusale. 8 ALTERAZIONE DEL CARICO OCCLUSALE ASSOCIATA AD ACCUMULO DI PLACCA. E' stato dimostrato in diversi studi che l'accumulo di placca determina l'infiammazione della mucosa perimplantare negli animali60,61 e nell'uomo 59. Sebbene in alcuni studi non sia stata riportata alcuna correlazione tra l'infiammazione della mucosa perimplantare o il livello di igiene orale e la progressiva perdita ossea62,63, i risultati di altri 11,13,64 hanno indicato che l'accumulo di placca può determinare una perdita ossea marginale intorno agli impianti osteointegrati (perimplantite). La presenza sia di una perimplantite, sia di una situazione di alterato carico occlusale potrebbe intensificare l' effetto di entrambi. Le alterazioni prodotte dal sovraccarico occlusale possono essere incrementate quando un processo infiammatorio. marginale ha già causato un riassorbimento osseo. D' altro canto, il sovraccarico può determinare la formazione di un gap a livello dell' interfaccia tra osso ed impianto. Questo gap potrebbe favorire, in presenza di infiammazione dei tessuti marginali, la migrazione apicale dell' epitelio . Tuttavia non sono ancora presenti in letteratura studi che valutino specificamente le conseguenze della presenza contemporanea di sovraccarico occlusale ed accumulo di placca. Per poter trarre delle conclusioni sull'argomento, è necessario pertanto che questa correlazione venga ulteriormente indagata. 9 CONSIDERAZIONI PROTESICHE RIGUARDO L'OCCLUSIONE. Il tipo di ricostruzione protesica può influenzare differentemente l'interfaccia osso-impianto e, di conseguenza, la prognosi degli impianti. In generale, una protesi rigida distribuisce i carichi sugli impianti che la supportano più efficacemente. Una protesi flessibile può essere invece adeguata solo se ciascun impianto è in grado di sopportare tutto il carico che viene applicato su di esso16. Le ricostruzioni protesiche che determinano la comparsa di forze che eccedono il limite di frattura causeranno, nel tempo, il cedimento del materiale a causa della fatica meccanica. La prognosi delle varie componenti implantari e delle sovrastrutture protesiche può essere influenzata, quindi, anche dal tipo di ricostruzione protesica. Un' analisi tridimensionale agli elementi finiti realizzata da Stegaroiu e coll.65 ha confrontato i valori di stress trasmessi all'osso da 3 differenti tipi di ricostruzioni protesiche sottoposte a carico assiale e non assiale. Le ricostruzioni prese in esame sono state: I 3 corone supportate da 3 impianti II 3 corone su 2 impianti con un elemento in estensione (cantilever) III 3 corone su 2 impianti (ponte convenzionale). I risultati dell' analisi hanno mostrato che, per ogni tipo di carico, i valori di stress sono stati massimi per il modello II, intermedi per il modello III e minimi per il modello I. Il carico assiale ha determinato i valori minimi di stress per ogni modello, però nel modello II questi valori sono stati maggiori rispetto agli altri di più del doppio e, quindi, la presenza del cantilever può rappresentare un rischio per l'interfaccia osso-impianto. Sulla lunghezza del cantilever esiste in letteratura un notevole numero di opinioni differenti. Le lunghezze consigliate per i cantilever inferiori sono varie: non superiore ai 20mm43, 20mm66, inferiore ai 15mm81, dai 18 ai 20mm67, dai 15 ai 20mm68 e altre. Anche per il mascellare superiore sono state proposte differenti lunghezze: non superiore ai 10mm68, dai 12 ai 15mm69, 15mm66, e, infine, dai 10 ai 12mm, con la clausola che un ulteriore elemento può essere aggiunto al cantilever dopo un anno, se la protesi è stabile e non c'è evidenza di perdita ossea67. Uno studio di Naert e coll.43 nel quale sono state analizzate 99 protesi fisse supportate da impianti, ha mostrato che la lunghezza dei cantilever oscilla generalmente tra O e 20mm. per il mascellare e fra 3 e 23mm per la mandibola, ma in altri studi sono state riscontrate anche lunghezze maggiori, come 28mm alla mandibola e 21 mm al mascellare. La lunghezza del cantilever è stata correlata con la perdita ossea marginale intorno agli impianti. In uno studio di Shackleton e coll.70, 24 mandibole e 4 mascellari edentuli sono stati riabilitati con protesi fisse su impianti con cantilever bilaterali la cui lunghezza variava da 5 a 22mm. I pazienti sono stati divisi in due gruppi: il primo con lunghezza di cantilever fino a 15mm., ed il secondo con lunghezza oltre i 15mm. Il follow-up è durato dai 20 agli 80 mesi durante i quali le protesi del primo gruppo hanno mostrato una sopravvivenza notevolmente migliore rispetto a quelle del secondo gruppo, rimanendo ancora funzionali. Anche uno studio in vitro di White e coll.71 ha mostrato che l'aumento della lunghezza dei cantilever causa un incremento del trasferimento dello stress da parte degli impianti; in particolare, è stato osservato che, in caso di cantilever distali, lo stress è maggiormente concentrato a livello della cresta ossea adiacente alla superficie distale della fixture più distale, ed è di natura compressiva, mentre è minore all' angolo distale dell' apice dello stesso impianto, dove è di natura tensiva. Una simile distribuzione degli stress è stata riscontrata anche sull' impianto successivo ma è stata di entità minore. Uno studio sperimentale realizzato su un modello mandibolare fotoelastico72, ha analizzato l' influenza del cantilever sulla trasmissione dei carichi. In questo studio, una protesi fissa supportata da 5 impianti con cantilever distale bilaterale è stata caricata assialmente in 7 punti, sulla sommità di ogni impianto e sull'estremità distale dei cantilever. L'analisi degli stress eseguita con un polariscopio circolare ha registrato i valori più alti quando il carico è stato applicato sui cantilever. Il maggior valore è stato riscontrato sull'impianto più distale, ma anche l'impianto immediatamente successivo è stato sottoposto ad un considerevole stress, mentre sui rimanenti impianti i valori sono diminuiti a zero. Quando invece il carico è stato applicato sugli impianti, si sono registrati stress di entità significativamente inferiore, concentrati solo sui rilevatori di deformazione posti ai lati dell'impianto caricato. I risultati di questi studi indicano quindi che, a causa del maggiore stress trasmesso, si può avere un riassorbimento osseo di entità superiore intorno agli impianti che supportano protesi fisse con cantilever , come osservato anche da Naert43. Secondo altri autori, invece, l' influenza della lunghezza del cantilever nel determinare perdita ossea intorno agli impianti è di minore importanza73. E' possibile, comunque, ridurre gli stress sui cantilever rendendo il contatto occlusale su di essi più leggero. Un contatto prematuro può, infatti, incrementare notevolmente le forze locali sull'unità cantilever. Per questo motivo si ritiene fondamentale controllare con regolarità l' occlusione. In questo modo è possibile, infatti, accertarsi che non si siano create delle interferenze a causa di un'usura non uniforme delle superfici occlusali. Inoltre, se dovessero essere riscontrate, potranno essere eliminate precocemente. Dall' analisi di questi risultati si evince quindi che è sempre preferibile, quando possibile, non realizzare dei cantilever, ma utilizzare un numero maggiore di impianti o realizzare cantilever più corti. La rigidità funzionale di una ricostruzione protesica e, quindi, la sua efficacia nel distribuire i carichi aumentano infatti con l'aumentare del numero degli impianti di supporto, poiché aumenta la superficie sulla quale le forze possono essere scaricate. In particolare, un aumento da 2 a 3 impianti in pazienti parzialmente dentati può permettere una considerevole riduzione dei livelli di stress, specialmente se gli impianti vengono posizionati a tripode invece che lungo una linea dritta, con l'impianto centrale spostato di 2-3mm rispetto alla linea che congiunge l'impianto mesiale e distale54 (Fig. 13). Fig. 13. Valutazione dell'aumento e della riduzione dei carichi da parte di una protesi fissa di 3 elementi supportata da 2 o 3 impianti nella regione posteriore (basata su calcoli determinati staticamente). Da Rangert e coll.54 I risultati di vari studi clinici hanno mostrato che la prognosi di protesi parziali fisse supportate da due impianti è peggiore rispetto a ponti supportati da 3 impianti. Questi ultimi hanno, infatti, presentato delle percentuali minori di perdita degli impianti e di complicanze protesiche74,75. Un impianto osteointegrato stabilisce un intimo contatto con il tessuto osseo. Per tale motivo i carichi che vengono applicati sugli impianti sono trasmessi direttamente al tessuto osseo. E' stato quindi proposto di realizzare i denti utilizzando dei materiali shock-assorbenti come le resine acrilichel6 o composite, proprio per ridurre l' entità delle forze trasmesse. La riduzione degli stress sarebbe dovuta, all' azione ammortizzante che questi materiali dovrebbero svolgere. Negli studi eseguiti in vitro, si è riscontrata un'effettiva riduzione dell'entità delle forze trasmesse al tessuto osseo, rispetto alla ceramica o alle leghe metallo-ceramica76. Tuttavia, in uno studio clinico, la comparazione delle forze sviluppate in pazienti con protesi realizzate con superfici occlusali in resina acrilica e in ceramica, ha mostrato che non vi sono differenze tra i due materiali77. Un'analisi 3D agli elementi finiti condotta da Ismail e coll.82, ha indagato sull' influenza del materiale di rivestimento occlusale ( ceramica, leghe nobili e non nobili, resina acrilica e composita) sulla trasmissione degli stress al tessuto osseo e agli impianti, riportando risultati simili per tutti i materiali esaminati. Un'altra analisi 3D agli elementi finiti è stata condotta da Stegaroiu e coll.78 su ponti tradizionali di 3 elementi supportati da due impianti. I materiali utilizzati per la realizzazione delle ricostruzioni protesiche sono stati: lega aurea, ceramica, resina acrilica, resina composita. Al centro. dei modelli sono state applicate delle forze di 1N dirette assialmente e bucco-lingualmente. L'analisi computerizzata ha riscontrato per l'oro e per la ceramica valori di stress simili in ogni parte dei modelli. In quasi tutti i casi, gli stress registrati nei modelli con le protesi in resina sono stati simili o maggiori rispetto ai valori trovati nei modelli con le protesi realizzate in oro o in ceramica. I risultati di quest'analisi, quindi, non hanno mostrato alcun ruolo protettivo da parte della resina nei confronti dell'interfaccia osso-impianto. Il mancato effetto ammortizzante delle superfici occlusali in resina è confermato anche da un altro studio in vivo nel quale, indipendentemente dall'utilizzo di resina o ceramica, non si sono rilevate differenze nell'altezza dell'osso marginale43. Oltre a ciò, i denti realizzati in resina composita sono andati spesso incontro a frattura mentre non sono state riscontrate fratture nella ceramica. E' stato anche suggerito di integrare un elemento intramobile flessibile e shock-assorbente nell'impianto. Ciò allo scopo di imitare la mobilità del dente e migliorare così il trasferimento delle forze all'osso. Un'analisi agli elementi finiti eseguita da Holmes83, ha confrontato la trasmissione degli stress all'osso in presenza di un elemento intramobile elastico in poliossimetilene rispetto ad un elemento in titanio e non ha mostrato nessun effetto di riduzione dello stress da parte dell'elemento elastico. 10 DISEGNO OCCLUSALE. La modellazione delle superfici occlusali de ricostruzioni protesiche supportate da impianti osteointegrati è un fattore di fondamentale importanza. Essa influenza la longevità della ricostruzione in quanto, in base al numero e al tipo di contatti che si realizzano con gli elementi antagonisti, determina lo sviluppo di forze di entità e direzione variabile. La direzione delle forze dovrebbe essere principalmente di tipo assiale ma in realtà anche le forze verticali, nel momento in cui vanno applicarsi su un piano inclinato quale quello cuspidale, si scompongono generando componente di tipo laterale. Le forze non assiali determinano la flessione dell'impianto e ciò causa un aumento dei livelli di stress all'interfaccia osso-impianto ed anche a livello delle viti e della sovrastruttura protesica. Sarebbe preferibile, quindi, ridurre l'entità dei momenti flettenti che agiscono sulle protesi supportate dagli impianti, allo scopo di migliorare la loro prognosi. Weinberg84 ha suggerito che le superfici occlusali dovrebbero essere modellate con una ridotta inclinazione dei piani cuspidali e con delle fosse appiattite. Questa modellazione consente generare, durante l' occlusione, delle forze laterali di minore entità e, quindi, dei momenti flettenti bassi con maggiore sicurezza per la protesi, impianti e l'osso (Fig. 14). T = F x D T = F x d Fig 14 In generale, si deve valutare in ogni paziente quanto la ricostruzione protesica debba essere occlusalmente protetta rispetto agli eventuali denti residui. Se i denti residui sono parodontalmente compromessi e quindi eccessivamente mobili richiederanno una protezione maggiore rispetto agli impianti. Al contrario, in un paziente con attività parafunzionali e dentatura residua con normale supporto parodontale è appropriato distribuire le forze maggiormente ai denti. CONCLUSIONI. Un carico occlusale alterato che agisce su una ricostruzione protesica supportata da impianti può determinare il fallimento meccanico. Si possono verificare, infatti, la frattura o lo svitamento delle viti o anche la frattura degli impianti, delle armature o del materiale da rivestimento. Il carico anomalo può anche riassorbimento dell'osso di supporto o la perdita completa dell'osteointegrazione. Si è visto che l'entità delle forze è il fattore più importante nel determinare un danno biologico al tessuto osseo tale da portare alla perdita dell'osteointegrazione; non si conoscono, tuttavia, quali sono i valori di forze che possono promuovere l'osteointegrazione, o l'osteodisintegrazione, anche perché essi variano, probabilmente, da paziente a paziente. Al momento, il punto chiave della questione è rappresentato proprio dal fatto che non è possibile stabilire quale sia la soglia accettabile di carico. Una forza di una determinata entità e direzione che si scarica su una ricostruzione protesica supportata da impianti osteointegrati potrebbe essere, infatti, accettabile per un paziente, mentre potrebbe rappresentare un carico eccessiv |