Nick: Bardamu Oggetto: Peppino Diana Data: 19/3/2007 13.48.38 Visite: 97
Il prete anticamorra Era parroco a Casal di Principe e quattro proiettili lo colpirono mentre si stava preparando alla Messa. Aveva paragonato la camorra al terrorismo. Fu l’espressione di una Chiesa che si schiera e sceglie di non tacere per difendere una comunità assediata dalla violenza. A costo del martirio di Luigi Ciotti Don Giuseppe Diana è morto, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994 nella sacrestia della chiesa di cui era parroco, a Casal di Principe, nell’Agro aversano. Si stava preparando a celebrare la Messa, quando quattro proiettili ne hanno spento per sempre la voce terrena. Una voce che predicava e denunciava, che ammoniva ma sapeva anche sostenere. Che sapeva uscire dalla sacrestia e scendere dall’altare per andare incontro alle persone, rinnovando un’autentica comunione. Era entrato in seminario giovanissimo a qualificare i suoi studi e a verificare la sua vocazione. Un percorso non scontato e non lineare, a tratti sofferto e dunque tanto più vero. Un prete di quella Chiesa campana che nel giugno 1982 aveva avuto il coraggio di dire forte «basta!», con un documento dal titolo eloquentemente ispirato al profeta Isaia: Per amore del mio popolo non tacerò. Un grido di dolore, oltre che di amore. Elevato senza animosità, ma con molta nettezza. Un implicito punto di non ritorno rispetto a pezzi di Chiesa tradizionalmente attenti a non addentrarsi nei temi relativi a mafia e criminalità organizzata. In quel fondamentale testo c’era un invito alla coerenza ineludibile. Lo stesso che ci viene dalle Scritture, che è testimoniato nel Vangelo. Quando un popolo soffre, quando una comunità è ferita, quando la dignità umana è schiacciata e messa a rischio non ci si può voltare dall’altra parte. Occorre ascoltare l’invocazione di giustizia e farla propria. «Sentirla» propria... Come ha scritto, al solito profetico, don Tonino Bello: «È una Chiesa che, pentita dei troppo prudenti silenzi, passa il guado. Si schiera. Si colloca dall’altra parte del potere. Rischia la pelle. Forse non è lontano il tempo in cui sperimenterà il martirio». Era il 1992. L’anno successivo, a Palermo, veniva ucciso don Puglisi, parroco di Brancaccio; sei mesi dopo don Diana. Eppure, don Peppino, non era un tipo coraggioso: «Aveva paura come tutti. Era un uomo normale, il coraggio gli veniva dalla decisione di essere coerente nella vita». Il prezzo della coerenza può essere grave e pesante, sino alla perdita della vita, come tragicamente dimostra la vicenda di don Diana. Un rischio e un prezzo che naturalmente può incutere timore, provocare esitazioni e magari spingere a permanere nella «diffusa rassegnazione». Come non capirlo? È una reazione profondamente umana. Ma anche scarsamente capace di guardare per davvero a quelli che sono i valori e significati che danno pienezza a quella vita cui tutti, naturalmente, teniamo. Il prezzo dell’incoerenza, infatti, è molto più salato: è lo smarrimento di sé. Che vita è mai quella in cui un uomo non è in grado di riconoscersi, di discernere vero da falso, bene da male? Che vita è quella che per preservare l’involucro si lascia depredare del contenuto? Le mafie questo fanno: tolgono diritti, dignità, vita. Non solo con le armi, uccidendo e violentando i corpi, ma svuotando le anime e assassinando la speranza. La rassegnazione dello spirito, l’umiliazione della dignità, la costrizione a rinunciare alla propria coerenza sono una morte altrettanto dolorosa e ancor più irrimediabile della fine fisica. Uccidono non solo i singoli ma la collettività: «La camorra ha assassinato il nostro paese, noi lo si deve far risorgere, bisogna risalire sui tetti e riannunciare la "Parola di Vita"», annotava in un articolo don Peppino. È in quel «noi» la risposta: nella comunità che si riconosce tale, che include e, così facendo, si realizza e si rafforza. Un «noi» che significa unione e collaborazione tra uomini e donne di buona volontà e tra società e istituzioni. E anche questo aspetto è significativo nell’esperienza del sacerdote di Casal di Principe. Una cultura che nel Mezzogiorno, troppo spesso abbandonato e svilito dallo Stato, è ancora più difficile da affermare. Ma da cui non si può prescindere, se ci si vuole liberare dal tallone di ferro della criminalità e se si vuole consegnare ai giovani un sogno di reale e conc reto cambiamento... «La camorra è una forma di terrorismo», ha scritto nel Natale 1991 don Diana, assieme ad altri sei sacerdoti campani. Una definizione importante, su cui probabilmente non si è riflettuto abbastanza. Quello di Peppino Diana è stato un tragitto purtroppo spezzato e interrotto, ma comunque capace di restare preziosa e perenne testimonianza: di coerenza e di fede, di impegno e di ricerca. Capace di fruttificare, e questo è ciò che rende la vita vera, per quanto breve essa sia stata. Sono calzanti le parole scritte sulla pietra dietro cui riposa don Peppino: «Dal seme che muore fiorisce una messe nuova di giustizia e di pace». http://www.dongiuseppediana.it/ |