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Nick: MILLWALL^
Oggetto: ESUBERI
Data: 18/5/2004 18.56.56
Visite: 185

ESUBERI

"Egregio Sig. Gennaro Scapece, a seguito della crisi del settore dell’auto, siamo spiacenti di comunicarle che siamo costretti a fare a meno della sua collaborazione entro il 30 del c.m. Certi che troverà quanto prima un’occupazione alternativa, adeguata alle sue capacità, le porgiamo i migliori auguri per la prosecuzione della sua attività lavorativa."
Napoli, 11.11.2002
Il direttore generale
Carlo Maria de Blasis

Se lo sentiva. Quando il postino aveva suonato al citofono informandolo che c’era una raccomandata, aveva avvertito una strana sensazione d’inquietudine. Un presagio, lo avrebbe definito se solo avesse creduto a queste cose, ma lui non ci credeva. Gennaro Scapece era un uomo pragmatico, la vita lo aveva forgiato in fretta e non gli aveva concesso il lusso di pensare alle cose che non avessero un’immediata finalità pratica. Cinquantadue anni compiuti tre giorni prima ed era stata una bella festa. Erano andati fuori, lui e sua moglie Anna, il figlio Michele e la figlia Maria col fidanzato, con contorno di un po’ di amici d’infanzia. Michele aveva ventotto anni ed era venuto giù da Milano apposta per la ricorrenza, la fidanzata non ne aveva voluto sapere: "è una smazzata fin giù a Napoli", gli aveva detto, ma lui non si era lasciato condizionare. Era molto legato a suo padre, gli doveva tutto e così si era infilato in macchina di buon mattino ed era arrivato fino a Linate, dove lo attendeva il volo per Napoli delle 06.45. Lavorava in una società d’informatica e si era trasferito a Milano da un paio d’anni, così ricorrenze come questa gli davano la possibilità di trascorrere un po’ di tempo a casa e ormai mancava da più di quattro mesi. Si, perché nonostante vivesse in un bell’appartamento con Isa, in zona Piazzale Loreto, continuava a considerare casa sua quella dove era cresciuto con i genitori.

All’arrivo a Capodichino aveva trovato così mammà e papà, con un paio di vecchi e fidati amici con i quali era rimasto sempre in contatto. Sua madre vedendolo cominciò la solita solfa su quanto era sciupato, che non mangiava, che chi sa che vita faceva, ma lui la strinse subito forte e lei non seppe rinunciare all’immancabile lacrima. Poi salutò Mario e Andrea, come se non si vedessero da un secolo, in realtà erano stati meno di due settimane prima a casa sua a Milano, ma il loro era un rapporto simbiotico e quindici giorni sono tanti o sono zero, dipende dal punto di vista dal quale li guardi. Per ultimo salutò don Gennaro, come chiamava scherzosamente suo padre. Il vecchio invecchiava bene, come aveva pensato scrutandolo con la coda dell’occhio, era un uomo ancora in forma, con una spruzzata di bianco sui capelli come quando a Napoli fa dieci minuti di neve, che poi si scioglie subito.

Ah com’era felice di essere a casa, se fosse dipeso da lui non se ne sarebbe mai andato, ma dopo la laurea aveva fatto un mare di colloqui che non erano approdati da nessuna parte. Per lo più erano aziende del nord, che venivano nel meridione a sfruttare il lavoro dei giovani laureati e quando aveva capito che a quelle condizioni lui non ci sarebbe stato, gli restò una sola decisione da prendere: partire per Milano e prendere il toro per le corna. Lì non fu difficile e in meno di un mese, dopo un paio di proposte interessanti optò per quella della general service, un’azienda di software e servizi informatici, che in pochi anni si era costruita una posizione di assoluto rilievo. A Milano ci stava bene, era un emigrante ma non aveva nessuna valigia di cartone e poi c’era stato un sacco di volte e aveva un casino di amici. Frequentava il Leoncavallo, non quello originale nella omonima via, adesso lì c’era una banca e un condominio che continuava misteriosamente a restare semivuoto. Ma quello in Greco e lì aveva conosciuto Isa una compagna di ventitre anni molto attiva nel "collettivo immigrati". Ma Napoli gli mancava, il suo era un desiderio oleografico, da cartolina e se ne rendeva conto, ma quante volte avrebbe voluto essere a Posillipo o a Mergellina e invece se tutto andava bene poteva farsi un giro ai laghi nei fine settimana, che però a onor del vero pure gli piaceva.

A tavola erano stati bene, da "Peppino" un ristorante aulle pendici del Vesuvio dove andavano da sempre ed era come essere a casa. Aveva conosciuto Mirko il ragazzo di sua sorella e gli era subito risultato simpatico, erano compagni d’università a lettere e lì si erano conosciuti. Mancava poco ad entrambi per la laurea e quando chiese cosa avrebbero fatto dopo, sua sorella rispose, farò i concorsi e magari me ne vengo pure io a Milano. La madre aveva avuto un fremito, ma ancora di più don Gennaro, al solo pensiero di separarsi anche dalla figlia si sentiva veramente mancare. Michele ci aveva messo una pezza a colori dicendole "hai ventiquattro anni, sei piccola a Milano, non ti fanno nemmeno entrare" e tutto si era concluso con una risata, ma il problema si sarebbe ripresentato solo un po’ più avanti. "Don Gennà" gli aveva chiesto Michele "e il lavoro come va?" e lui di rimando "Tutto bene guagliò, ancora qualche anno e poi me ne vado in pensione, tanto tu sei sistemato e tua sorella, se Dio vuole, si sistemerà tra poco, una bella laurea pure pa piccerell e un bel nipotino per noi", aveva concluso ammiccando a sua moglie. "Tanto se aspettiamo a te, campa cavallo che l’erba cresce", aveva risposto la signora Anna cogliendo al volo l’occasione per la solita battuta.

Li avevano cresciuti proprio bene e don Gennaro guardandoli pensava che aveva fatto bene ad entrare nel sindacato, a lottare per i suoi diritti, ad inculcare loro come un martello che dovevano studiare, perché i figli degli operai avrebbero avuto gli strumenti per cambiare il mondo. Lui non aveva avuto le stesse possibilità, a dieci anni finite le scuole elementari, suo padre gli aveva detto con le lacrime agli occhi "Gennà mi dispiace a Papà, ma soldi non ce ne stanno tu sei l’unico figlio maschio e non puoi continuare a studiare, lo studio è per i figli dei signori e noi siamo povera gente. Eppure era stato fra i bambini più meritevoli, questa consapevolezza si sarebbe presto trasformata in rabbia e se la sarebbe portata dietro tutta la vita. Cominciò a portare la spesa per Giggino il salumiere all’angolo del vicolo, poi fece un’infinità di lavoretti per quattro lire fino a quando, fu assunto all’Alfa di Pomigliano. Sposò Anna e un anno dopo nacque Michele. Suo figlio avrebbe studiato, non gli avrebbe detto "lo studio è per i signori" e per non essere da meno quando il PCI negli anni 70 strappò la conquista del corso delle "centocinquanta ore", prese il diploma delle scuole medie ed entrò nella FIOM.

Michele non avrebbe portato nessuna spesa e quando quattro anni dopo nacque la bambina, la chiamò Maria come sua madre, ma non sarebbe andata a fare la cameriera a casa dei signori del Vomero. Era roba del passato e i suoi figli sarebbero stati la rivincita di tutte le umiliazioni che lui, sua madre, suo padre, la sua gente, avevano dovuto subire nel corso degli anni. Con Michele soprattutto a volte era un po’ rigido, da lui pretendeva sempre il massimo e quando tornava a casa tutto goduto per un altro trenta sul libretto, aveva la faccia tosta di dirgli "ah, senza lode?" Anche se Michele di lodi ne aveva prese dieci. Ma era fiero di lui e di quello che, era sicuro, sarebbe diventato.

Quella mattina Gennaro Scapece entrò in fabbrica, per l’ennesima volta in trent’anni. Aveva in mano la lettera di licenziamento e ne giravano tante. In qualità di rappresentante sindacale organizzò un’assemblea e disse con la solita foga che erano uomini e non esuberi, disse che il lavoro gli aveva dato la dignità e la possibilità di un futuro migliore e che nessuno glielo avrebbe tolto. Le sue parole arrivarono dritte al cuore e per la fabbrica cominciò a snodarsi un lungo corteo interno che attraversò i reparti al grido di: SCIOPERO, SCIOPERO!



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